Maurizio Cecchetti Avvenire 6 giugno 2014
Biennale
di architettura di Venezia. Gli "Innesti" di antico e moderno nella
rassegna che documenta la metamorfosi del Paese. Il rischio? Rinnovare
senza armonia
Stenio Solinas
- il Giornale Ven, 06/06/2014
Perdersi nella fondamenta
Biennale Architettura. Apre oggi la quattordicesima edizione di una iniziativa che cerca di tenere fuori la porta le vicende giudiziarie che hanno investito Venezia. Una rassegna a firma di Rem Koolhaas che punta sulle nuove generazioni di architetti per poter immaginare il futuro
— Pippo Ciorra, il Manifesto
La 14. Biennale, che apre al pubblico domani in una Venezia
un po’ scossa dalla cronaca politica e col sindaco appena arrestato,
è curata dall’architetto olandese Rem Koolhaas. Koolhaas
è certamente l’architetto più influente del nostro tempo, autore con
il suo studio Oma (Office for Metropolitan Architecture) di opere
di grande rilievo in Europa, Nordamerica, Russia, Medio e lontano
Oriente. Ma il carisma di Koolhaas non si deve solo alla sua
produzione professionale e ai suoi libri. Ciò che più colpisce
è la sua capacità di cogliere prima i cambiamenti che avvengono sul
piano della geopolitica e della macroeconomia globale e di
tradurli con velocità quintupla rispetto a tutti gli altri in mutazioni
nella concezione e nei confini stessi dell’architettura
e soprattutto della figura dell’architetto. Capacità di Koolhaas
è avere un dialogo sempre aperto (e che forse perdoniamo solo a lui)
con Putin e gli sceicchi, con Toni Negri e l’antagonismo sociale, con
Hans Ulrich Obrist – unica intervista concessa — e Miuccia Prada.
Una biennale curata da Koolhaas quindi non è un evento normale,
tanto è vero che torna a riprendersi, dopo 14 anni di «economie», la
stessa durata della Biennale arte (da giugno a novembre), che
coinvolge nello spazio della mostra gli altri settori della Biennale
(Teatro, Danza, Cinema), che stabilisce un rapporto decisamente
più stretto e collaborativo con i padiglioni nazionali, che decide
di dedicare tutte le Corderie a microinchieste sull’Italia. Il
tema scelto dall’autore per la mostra è Fundamentals,
un’espressione un po’ ermetica (ma certo molto veneziana) per
indicare una sommatoria di ricerche sugli elementi materiali
primari dell’architettura, di riconsiderazione del lascito della
«Modernità» (che quindi tendiamo a considerare conclusa), di
ricognizione di microstorie italiane intese come paradigma
esemplare ed esasperato del confitto mai risolto tra modernità, legacy,
spazio economico e spazio sociale. Tutto questo si riflette in una
mostra chiaramente (onore a Koolhaas per una chiarezza alla quale
non siamo abituati dai tempi della Strada Novissima) strutturata in tre parti.
Una narrazione interdisciplinare
Nei padiglioni nazionali troviamo un ventaglio molto ampio di
ricerche storiche o di riconsiderazione critica del patrimonio
storico moderno. Il racconto avviene a volte in modo serio
e didascalico, come nel bel padiglione nordico dedicato a una
architetto quasi sconosciuto – Karl Hendrik Nostvik – autore di
opere spettacolari in Africa negli anni Sessanta e Settanta,
o nella seriosa ricostruzione di un edificio modernista
e istituzionale del 1964 (residenza ufficiale del cancelliere)
all’interno del padiglione. Altre volte l’approccio include una vena
storiografica sottilmente ironica, come per la scelta di Jean
Louis Cohen di utilizzare la villa di Mon Oncle di Jacques
Tati come chiave d’accesso alle contraddizioni della modernità
francese o per la ricognizione olandese del lavoro di Jaap Bakema,
maestro insospettabilmente attuale e anche molto caro a Koolhaas.
Altre ancora la narrazione diventa più eccitata
e interdisciplinare, come nel lavoro svolto dai gruppi Crimson
e Fat nel padiglione inglese e nella parodia di una «mostra mercato
della storia» che troviamo al padiglione russo. Citiamo poi il rigore
quasi paradossale del Pavilion Swisse, opera di Obrist e quindi del
curatore più vicino a Rem Koolhaas, che offre al pubblico scaffali
con gli archivi (preziosi) di Lucius Burkhardt e Cedric Price e stanze
(al chiuso e all’aperto) completamente vuote, destinate ad essere
occupate temporaneamente dall’accesso discreto dei visitatori ai
materiali e dalle «maratone» che coinvolgerannno architetti,
critici curatori e artisti (Herzog & De Meuron, Olafur Eliasson, Liam Gillick e molti altri).
I robot delle mappe
Similmente archivistico e «di ricerca», il padiglione
americano, «rivestito» da un’interminabile sequenza di dossier
dedicati a cento anni di lavori di architetti americani all’estero.
Il team curatoriale, composto da Eva Franch (Storefront), Ana
Miljacki e Ashley Shafer, ha inteso documentare in questo modo
contenuti (e contraddizioni?) della modernizzazione esportata attraverso ambasciate, ospedali e facilities
di ogni tipo dai professionisti e dai grandi studi americani.
Ancora ricordiamo il bel lavoro ospitato nel padiglione israeliano,
vale a dire cinque robot che disegnano e cancellano
ininterrottamente sulla sabbia le piante di città prodotte in
cento anni di pianificazione in quell’area geografica. Urburb,
così si chiama il progetto, racconta come la forma delle città si
perda come sulla sabbia, per fondersi in un tessuto comunque
indeterminato, né centro, né periferia, né paesaggio.
Interessante anche il padiglione coreano, che offre un ottimo
esempio, soprattutto attraverso il lavoro di Kim Swoo Geun,
fondatore dell’eroico Space Group e autore negli decenni caldi
(Sessanta e seguenti) di progetti metabolisti spettacolari
e quasi del tutto ignoti al pubblico occidentale. Tra i nostri
candidati alla vittoria (se fossimo in giuria) includeremmo
certamente il padiglione cileno, un monolito prefabbricato
realizzato nel 1974 che era allo stesso tempo modulo costruttivo
e discusso monumento (con firma «al vivo» di Allende) al trionfo
modernista della prefabbricazione. I curatori, Pedro Alonso
e Hugo Palmarola, danno una delle migliori risposte possibili al
tema proposto da Koolhaas, vale a dire come trasformare un
elemento e una ricerca storica, politica e architettonica in un
evento espositivo efficace e sintetico, sharp, short, straigh to the point.
Dietro il labirinto
Veniamo al Padiglione Centrale. I temi elementari sono
trattati in modo diverso. I corridoi si riassumono in un
labirinto, le finestre trasferiscono ai Giardini un dispositivo
di fabbricazione attuale e un vero catalogo di infissi storici
reperiti in un museo inglese specializzato, «the Brooking National
Collection». Il soffitto, curato dall’italiano Manfredo di
Robilant, sfida la storica cupola decorata di Chini che nei momenti
difficili ha (purtroppo) salvato il brutto Padiglione Italia. Nel
«bagno», uno dei migliori, riaffiora l’ironia koolhasiana e la
documentazione degli usi alternativi dei gabinetti. Notevoli gli spazi dedicati alle rampe – un topos mdernista – attraverso il lavoro del grande Claude Parent e dell’architetto disabile Tim Nugent.
Più seri gli ambienti dedicati alle facciate (Alejando Zaera-Polo)
e ai balconi (Tom Avermaete), deve però troviamo una visione
fotografica più ampia e uno spettacolare moucharabieh
affacciato sulla rotonda centrale. Più autoriali e devianti i lavori
sulla «porta», il camino, i tetti (cinesi), mentre delude un po’ la
speculazione su un tema iperkoolhaasiano come l’ascensore.
Insomma, è un catalogo chiaro, ci ricorda che l’architettura è una
miscela complessa di permanenze e cambiamenti vertiginosi, ci
propone forse di «ripartire da zero»(?). Rispetto ad altre parti della
mostra, «Elements of architecture» ha molto più rapporto col
catalogo, che prolunga idealmente i «manuali storici» esposti in
mostra.
Viene da chiedersi se il messaggio di Koolhaas sia tutto in
questa tabula «non proprio rasa» da cui ricominciare o se c’è
qualche messaggio più complesso e meno dichiarato. Di certo
l’importanza data alla ricerca, che sarà la croce e la delizia
di questa biennale. Poi l’interessante e contraddittoria
esclusione degli «autori», operata dalla più autorevole delle star.
E ancora la conseguente fiducia che i temi e il senso
dell’architettura oggi possano sopravvivere alla vivisezione nelle
parti che la compongono.
Quest’ultima domanda, alla quale non è facile dare una risposta,
è la vera scommessa di questa mostra, la sua capacità o meno di
accendere un dialogo più ampio rispetto alla comunità globale dei
molto addetti ai lavori presente in questi giorni in laguna e alla
incredibile rete di produzione e comunicazione koolhaasiana
(non solo Amo, la struttura di ricerca del suo studio ma anche i molti
direttori dei padiglioni e di parti specifiche della mostra a lui
legati) affiorata finalmente in superficie in questa biennale. Ci
rimane poco spazio per Monditalia, un esperimento invece molto
interessante. Seguito da un partner italiano di Oma, Ippolito
Pestellini, accoglie «inchieste» e materiali molto diversi
e frammenti sparsi della cultura moderna italiana.
Difficili sequenze
Una volta capito come muoversi nella non facile sequenza di
installazioni troviamo da un lato aspetti un po’ didascalici,
soprattutto nella scelta dei film e nell’eterno ritorno di alcuni temi
italiani (Pompei, Villa Malaparte, terremoti vari, dismissioni
e sensi di colpa), ma anche scoperte e sguardi interessanti, modi di
guardare tra le cose che non avevamo in mente. È un’altra parte che va
rivista e commentata con spazio e tempo, ma intanto citiamo alcuni
lavori che per vari motivi mi sono già rimasti in mente, Cassani e lo
spazio sacro, gli stARTT e gli edifici pubblici storici vuoti al
centro di Roma, l’omaggio a Superstudio e quello all’Effimero,
specificità italiana da riconsiderare e la citazione affettuosa
di Superstudio, gli italian limes del gruppo Folder, i Landscape di Russi e diversi altri, sui quali torneremo certamente.
Alla ricerca del big bang architettonico
Biennale Architettura. La didascalica regia di Rem Koolhaas ha imposto alla esposizione veneziana di funzionare come un grande atelier del futuro
Maurizio Giufrè, il Manifesto
Solo Rem Koolhaas poteva provocare la netta discontinuità
con le passate edizioni della Biennale che hanno visto sempre un
«allestitore di presenze altrui» misurarsi con un tema da lui
scelto. Questa volta Fundamentals — il nome che prende la
XIV Biennale Architettura — alle Corderie dell’Arsenale, non ha
chiesto agli architetti di cimentarsi con installazioni
sensazionali o sofisticate scenografie; questa volta tutti si
sono fatti seri e studiosi e l’antica fabbrica contiene così uno dei
tre «progetti di ricerca» con i quali si articola l’esposizione
veneziana: Monditalia. È questa una «scansione» che
attraverso il mezzo cinematografico e quarantuno casi-studio
indagati da giovani ricercatori, racconta luoghi e paesaggi
emblematici del nostro paese per disagio e forti contraddizioni
nei quali l’architettura è il soggetto: dall’Aquila post-terremoto
a Lampedusa terra di confine, dagli abbandoni edilizi di Roma
e Torino, fino alla Libia colonia italiana nel ventennio.
Più di trecento metri di tela con su riprodotta l’antica Tabula Peutingeriana
unisce come un filo le diverse tappe di un percorso interessante
perchè il solo autenticamente politico, ma noioso perchè
didascalico. È il rischio immaginabile quando si ricorre a un
maestro convinto, com’è Koolhaas, a ordinare ogni cosa per
sostenere le sue tesi.
Il dominio del mercato
L’architetto olandese si è accorto — trentaquattro anni dopo la
sua prima partecipazione alla Biennale — di come l’economia di
mercato «ha corroso la dimensione morale dell’archiettura»,
chiedendo con disincanto, nell’introduzione al catalogo (Marsilio),
«in quale modo siamo giunti a questo punto?». Non sappiamo se
l’interrogativo è retorico visto che certo la sua carriera non l’ha
escluso dall’essere, come pochi altri architetti, tra gli
interlocutori privilegiati delle più importanti istituzioni
mondiali. Sarebbe, quindi, più ovvio che altri ponessero a lui la
stessa domanda. Torniamo però alla mostra. Koolhaas ha accentrato
l’intera organizzazione: ha chiesto ai singoli paesi ospiti di
allinearsi alle sue idee e con pochi contributi esterni ha
realizzato la manifestazione che già dal titolo non nasconde le
ambizioni di qualificarsi per il futuro come riferimento
obbligato per qualsiasi ragionamento sull’architettura e non solo di
questa.
Tuttavia con l’occasione datagli in laguna Koolhaas non ha fatto
altro che riproporre e ampliare sotto altre forme la sua riflessione
di sempre: dimostrare che ciò che ancora definiamo architettura
moderna è solo un «ingannevole Modernismo». Nella seconda
«componente» della mostra, Absorbing Modernity 1914–2014, i singoli
padiglioni nazionali raccontano quale è stato il contributo
originale alla modernizzazione inserita all’interno delle loro
tradizioni storiche e culturali. È questo il più soddisfacente
risultato che è stato raggiunto a Venezia, perchè la diffusione
degli etimi del modernismo noti in larga parte noti in molti paesi
periferici non lo erano in altri: ad esempio il mondo arabo.
Un problema comunicativo
Nell’insieme l’esposizione veneziana è per Koolhaas l’occasione più
importante e mediaticamente impegnativa per esporre le sue
problematiche convinzioni in bilico, come un equilibrista, tra
la consapevolezza che da tempo sono falliti gli strumenti e i
modelli che ci ha consegnato la modernità architettonica e la
necessità, comunque, di farne ancora riferimento pur
revisionandone i contenuti attraverso nuove strategie
comunicative. Emblematico per spiegare ciò è dato dal suo recente
edificio De Rotterdam che segna lo skyline della
sua città: una architettura che commenta criticamente sia la
tradizione del grattacielo dal quale proviene sia ciò che in quel
contesto gli sta intorno imponendo se stessa come «città verticale»
e unica alternativa per il futuro della città portuale. Rem
Koolhaas si pone come la più avanzata e egemone forma di
criticismo contemporaneo.
Il suo «sperimentalismo» — per usare una categoria ancora
efficace — è ciò che più lo contraddistingue e questa Biennale
riflette fedelmente la sua weltanschauung. Ricordiamo che
per estendere l’influenza del suo pensiero critico nel 1998 ha
fondato «Amo», una «piattaforma» globale che interviene in campi
e in settori non architettonici e che partecipa alla mostra
insieme a una ristretta, ma eterogenea compagine di soggetti:
l’industria di serramenti belga Sobinco insieme alla gemella
Biennale di Shenzhen Hong Kong, diverse istituzioni
universitarie a lui vicine che vanno dall’Harvard Graduate School
of Design, dove insegna, alla Tu di Delft fino al Mit. Lo «spirito
della ricerca» ha avuto però bisogno in particolare di storici (Tom
Avermaete), teorici dell’«architettura globale» (Keller
Easterling), ingegneri (Arup, Claudi Cornaz), fotografi (Wolfang
Tillmans e Hans Werlemann), ma di pochi architetti sui generis come lo stesso Koolhaas.
Ecco allora aggiungersi, per completare l’elenco dei
protagonisti, Alejandro Zaera Polo (già Foreign Office
Architects) e Claude Parent, con Paul Virilio autore della poetica
dell’obliquo. È con loro che Koolhaas presenta la sua ampia
reinterpretazione critica della modernità che già si conosce
attraverso i suoi scritti: dal più famoso Junkspace (2001) fino al più recente Project Japan
(2011). Il suo scavo interpretativo ha dato una chiara lettura del
complesso mondo nel quale siamo immersi introducendo categorie
nuove come quella del Bigness («l’architettura estrema») e di Città Generica.
È però con quello che è stato il «Big Bang architettonico» del
Moderno che Koolhaas intende misurarsi e forse dimostrare che in
altri modi, secondo altri principi di interazione con altri saperi,
l’architettura ha ancora delle possibilità per superare le
contraddizioni e i conflitti che la società vive nell’epoca
dell’economia globale. È infatti da questa irriducibile
convinzione che l’architetto prende le mosse per elencare una serie
di rappresentazioni affinché non risulti poi del tutto vano ciò che
ha prodotto un secolo di storia dell’architettura moderna.
Con Elements of Architecture, al Padiglione Centrale, sono esposti, con il contributo del Friedrich Mielke Institut fur Scalalogie,
la pluralità degli elementi con i quali si compone ogni edificio
e dai quali ripartire per elaborare una nuova sintassi. Dopo la
riflessione storica (Absorbing Modernity) quella politica (Monditalia)
eccoci di fronte alle questioni del mestiere, anch’esso da rifondare.
Suddiviso per ambienti si fa la storia di pavimenti, corridoi,
muri, finestre, servizi igienici, ecc.: anche qui come alle
Corderie assistiamo a una manifestazione didattica senza una
pedagogia. Manuali, trattati, codici — da Vitruvio a Neufert — sono
allineati all’ingresso del padiglione superati come ferri vecchi
perché a sostituirli ha provveduto lo stesso Koolhaas redigendo
fascicoli tematici aggiornati, ma soprattutto storicizzati.
Una sterile verifica
L’opera di catalogazione, usando una aggiornata tassonomia,
non può però di per sé costituire una soluzione: «non si parla, né si
legge e scrive architettura» con i soli etimi del linguaggio moderno
scriveva Zevi. In questo senso la «verifica» dell’archietto
olandese appare sterile perchè ciò che ha insegnato la modernità
sono le molteplici grammatiche e sintassi che abbiamo
a disposizione per «parlare» l’architettura e un solo pericolo: lo
storicismo inteso nelle sue espressioni più retrive del revival
— dallo stesso Koolhaas però rifiutato — e l’«ordine accademico»,
ovvero l’autorità di chi ogni volta si assume il compito di indicare
un «vangelo». Elements of Architecture può rimandare a
«una certa enciclopedia cinese» della quale parlava Borges e che
ispirò Michel Foucault. Come si chiese il filosofo francese ci
domandiamo anche noi: qual’è l’ordine, le regole e i confini con il
quale quell’insieme di oggetti hanno generato il «discorso»
dell’architettura della modernità? La visita nei padiglioni nazionali
dimostra come il modernismo si è posto l’obiettivo di migliorare le
condizioni delle vita urbana. Come ci ha insegnato, però, Foucault
«disciplinare» ed «educare» le popolazioni è sempre stato il vero
oggetto degli interessi del potere e in questo gli architetti
continuano ancora a svolgere bene il loro compito.
Gli spazi mutanti delle città italiane
Biennale Architettura. Il paesaggio urbano al Padiglione Italia
— Giulia Menzietti, il Manifesto
Absorbing modernity 1914–2014 è il tema comune che Rem Koolhaas, curatore della XIV Biennale di Architettura di
Venezia, ha affidato alle partecipazioni nazionali.
A differenza delle precedenti edizioni, i vari padiglioni non
presentano autonomamente le proprie ricerche, ma sono invitati
a declinare, nei relativi contesti, il processo di assimilazione
dell’architettura moderna. Innesti è il titolo del
padiglione italiano che spiega, con una metafora biologica, la
modalità con cui in Italia il nuovo si è progressivamente
insediato nel tessuto consolidato. A scanso di equivoci il
curatore Cino Zucchi chiarisce fin da subito il significato del
termine, offrendone un esempio nell’archimbuto, un arco in
metallo da lui disegnato all’ingresso del padiglione, che s’inserisce
come elemento aggiunto nel portale esistente.
La chiave di lettura dello scenario italiano risiede nel
continuo confronto con l’esistente, nell’impraticabilità della tabula
rasa e nell’esigenza di sviluppare, di volta in volta, nuove
dialettiche tra preesistenza e innovazione. La parte iniziale
del padiglione è dedicata alla presentazione di alcuni progetti di
Milano. Piazza Duomo e altri luoghi vengono descritti come spazi mutanti,
colti nei loro continui aggiustamenti e adattamenti
a condizioni «trovate» e a situazioni contingenti. Un ricco
atlante di materiali vari, progetti incompiuti, vignette satiriche,
articoli di cronache e fotografie descrivono le vicende e i
protagonisti che hanno portato alla trasformazione da uno
stadio iniziale all’immagine attuale della piazza.
Nella stessa sala un plastico della città, apparentemente bianco
e monolitico, si accende progressivamente con luci colorate,
mostrando i vari strati che costituiscono il palinsesto urbano:
dalla trama delle acque, alle linee del verde, al tracciato della città
romana, di quella medievale e del Piano Portaluppi del primo
Novecento.
Alla chiarezza di questo racconto della storia recente non
corrisponde altrettanta efficacia nella seconda parte del
padiglione, Un paesaggio contemporaneo, che espone su
grandi superfici inclinate una numerosissima serie di fotografie
di «innesti» di progettisti contemporanei. «Architettura, non
architetti», ha annunciato Koolhaas nella presentazione di
questa Biennale, ma l’assenza di qualunque nota in prossimità
delle foto, e soprattutto il numero eccessivo di progetti
restituiscono un’immagine anonima e vaga dello scenario
architettonico italiano. Molto più interessante, sempre nella
stessa sala, la sezione Ambienti cut and paste: un lavoro sulla
tecnica del collage, del montaggio, in cui una composizione di
quadri a parete mostra, nei singoli frammenti, la potenzialità
progettuale e figurativa di rielaborare immagini e produzioni
grafiche, trasformandole in altro.
L’attenzione alle storie pregresse e il recupero dei materiali
esistenti costituiscono le questioni emergenti del padiglione e,
in generale della scena attuale del progetto italiano; elemento
concomitante a tale condizione è un atteggiamento di chiusura,
di inibizione degli slanci verso il futuro. Nella sezione del
padiglione dedicata all’Expo2015, le visioni del post evento affidate
a cinque studi di architettura restituiscono un atteggiamento
molto controllato nella prefigurazione dei tempi a venire. L’unica
proposta provocatoria, quantomeno nella costruzione di un
immaginario, è quella che trasforma l’area dell’Expo in un nuovo,
ampio cimitero: un’immagine del futuro generata da un innesto,
sovrapposto a tracce preesistenti, stratificato su storie
precedenti.
Una Biennale tra caos e rinascita
La malattia politica non la ferma Da un lato la denuncia, dall’altro il Padiglione di Zucchi punta sul rinnovamento
di Pierluigi Panza La Lettura
Rem Koolhaas presenta la sua Biennale. «Basta imitare l’arte, torno ai fondamentali»
Finestre e scale: l’architettura
Hans Ulrich Obrist, curatore del Padiglione svizzero, incontra il curatore di tutta la manifestazione veneziana. E insieme fanno il punto alla vigilia dell’apertura. L’omaggio al passato per immaginare un nuovo futuro
Hans Ulrich Obrist La Lettura
Una Biennale tra caos e rinascita
La malattia politica non la ferma Da un lato la denuncia, dall’altro il Padiglione di Zucchi punta sul rinnovamento
di Pierluigi Panza La Lettura
Mario Botta Avvenire 7 giugno 2014
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