sabato 28 giugno 2014

Luciano Canfora difende gli studi classici


Questa recensione, che usa il discorso di Canfora per fare un elogio della fine del lavoro, è per Canfora una sorta di contrappasso... [SGA].

Luciano Can­fora: Gli anti­chi ci riguar­dano, Il Mulino, pp. 104, euro 10

Risvolto
Si levano voci che chiedono di emarginare gli antichi, per esempio a scuola. Sarebbe una amputazione sciocca. Lo studio degli antichi costituisce invece una potente risorsa per comprendere quel che ci accade intorno: il rapporto libertà-dipendenza, la lotta per la cittadinanza, la competenza come requisito della politica. Problemi oggi cruciali che già percorrevano le società antiche. Esse seppero affrontarli, talvolta scegliendo risposte non consolatorie. 



L’ozio come antidoto al presente 
Scaffale. Luciano Canfora e il suo pamphlet «Gli antichi di riguardano», per Il Mulino. Gli studi classici? Non sono inutili, anzi.... 

 Marco Bascetta, il Manifesto 20.6.2014 

A cosa ci serve lo stu­dio dell’antichità clas­sica? Da un pezzo la domanda è diven­tata pura­mente reto­rica. Figu­ria­moci, poi, nel tempo delle rot­ta­ma­zioni e del «fare» sans phrase. Da decenni, di riforma in riforma, gli stra­te­ghi mini­ste­riali hanno inse­guito la fata mor­gana di un sistema for­ma­tivo fun­zio­nale al mer­cato del lavoro. Mer­cato di cui tutto igno­ra­vano e del quale non hanno indo­vi­nato, nean­che lon­ta­na­mente, la ben­ché minima ten­denza e, men che meno, la pro­gres­siva scom­parsa. In com­penso sono riu­sciti a tra­sfor­mare il corso degli studi in un iter buro­cra­tiz­zato e mole­sto. La modu­li­stica uni­ver­si­ta­ria e la selva degli adem­pi­menti sono diven­tate ben più com­plesse della scrit­tura cunei­forme ed occu­pano buona parte del tempo e delle ener­gie dei docenti.

Ma per tor­nare alla parola d’ordine che ha accom­pa­gnato tutte le tappe di que­sto disa­stro («ade­guia­moci al mer­cato del lavoro!») è chiaro che gli studi clas­sici ne hanno fatto le mag­giori spese, anche se non sono stati certo i soli. All’«utilità o il danno dello stu­dio dell’antichità clas­sica per la vita» Luciano Can­fora ha recen­te­mente dedi­cato un breve scritto pole­mico, genere in cui è mae­stro, inti­to­lato Gli anti­chi ci riguar­dano (Il Mulino, pp. 104, euro 10), nel quale passa in ras­se­gna, più che l’ostilità domi­nante, la debo­lezza degli argo­menti messi in campo nel difen­dere dai suoi detrat­tori «rifor­mi­sti» lo stu­dio dell’antichità clas­sica. Quest’ultimo rap­pre­senta cer­ta­mente un caso spe­ci­fico, ma rin­via anche a un tema molto più gene­rale.
Tra gli argo­menti presi cri­ti­ca­mente in esame da Can­fora vi è quello dell’«utilità dell’inutile» che l’autore con­si­dera un sofi­sma desti­nato a rove­sciarsi nel suo con­tra­rio e magari per­fino a insi­nuarsi attra­verso qual­che impro­ba­bile per­tu­gio nell’agognato mer­cato del lavoro. Ma forse la que­stione dell’«inutile» andrebbe affron­tata in un altro modo, con un occhio alla sto­ria e un altro alla gerar­chia dei saperi (e dei poteri). Allo scopo pos­siamo fare ricorso a due autori, un espo­nente dell’Illuminismo e uno dei suoi più acuti cri­tici. «Non vi è scienza – scrive Con­dor­cet nella Quinta memo­ria sull’Istruzione pub­blica ( 1791) – che, per la natura stessa delle cose, non sia con­dan­nata a inter­valli di rista­gno e di oblio. Se intanto allora la si tra­scura (…) biso­gnerà riper­cor­rere una seconda volta la via abban­do­nata, quando nuovi biso­gni o nuove sco­perte obbli­ghe­ranno gli spi­riti a tor­narvi sopra. Ma, al con­tra­rio, se le società dei dotti con­ser­vano lo stu­dio di que­ste scienze, allora nelle epo­che fis­sate dalla natura al loro rin­no­va­mento, si vedranno riap­pa­rire con nuovo splen­dore». Qui «il rista­gno e l’oblio» signi­fi­cano soprat­tutto quel salu­tare attrito con il pro­prio tempo che resti­tui­sce l’«utile», sot­traen­dolo all’eterno pre­sente della «fine della sto­ria», alla con­tin­genza che gli è pro­pria. Quante mode cul­tu­rali e saperi che avreb­bero dovuto rap­pre­sen­tare e per­meare il futuro sono tra­mon­tati in una giran­dola di «master» nel giro di pochi anni?
Dalla miniera ine­sau­ri­bile dei Minima mora­lia di Adorno tra­iamo invece la seguente osser­va­zione: «Ai fatali trans­fert dal campo della pia­ni­fi­ca­zione eco­no­mica al campo della teo­ria (…) appar­tiene la fede nell’amministrabilità del lavoro intel­let­tuale, in base a cri­teri che deter­mi­nano ciò di cui è neces­sa­rio o ragio­ne­vole occu­parsi. Si sta­bi­li­sce un ordine di cono­scenze più o meno urgenti. Ma pri­vare il pen­siero del suo momento d’involontarietà signi­fica abo­lire pro­prio la sua neces­sità». In que­sto caso l’attrito si pro­duce con il sistema di potere che sta­bi­li­sce la gerar­chia dell’’utile’ e ne ’ammi­ni­stra’ l’elaborazione, ma anche con l’ortodossia della disci­plina e le sue regole di scuola: ’la sche­ma­tiz­za­zione in impor­tante e secon­da­rio ripete for­mal­mente la gerar­chia di valori della prassi domi­nante anche quando ne con­trad­dice il con­te­nuto’».
Certo, la vene­ra­zione del mondo antico è stata un tempo dalla parte del «neces­sa­rio», del «prin­ci­pale», fun­gendo pro­prio da ser­ba­toio di quei «valori della prassi domi­nante» a cui Adorno si rife­ri­sce, da prin­ci­pio d’ordine e abi­tu­dine alla disci­plina. Una grande misti­fi­ca­zione, spiega Can­fora, dedita a fab­bri­care quel «canone» del mondo antico che lo sot­traeva alle furiose con­trad­di­zioni, ai con­flitti , alle bifor­ca­zioni e alle alter­na­tive che lo ave­vano attra­ver­sato per con­se­gnarlo all’ideologia nazio­nale.
È, al con­tra­rio, pro­prio da que­sti con­flitti radi­cali, da que­sti pro­blemi inso­luti, che deri­ve­rebbe, secondo l’autore, l’insegnamento più impor­tante dell’antichità, dall’essere stata cioè un gran­dioso labo­ra­to­rio nel quale furono spe­ri­men­tati, senza rispar­miarsi, tutti i fon­da­men­tali della poli­tica, poste tutte le domande che restano ancora aperte. È, insomma, un approc­cio machia­vel­liano, quello che ci viene sug­ge­rito. Una let­tura sto­rica della poli­tica e una let­tura poli­tica della sto­ria. Una scienza delle pas­sioni umane nel loro reci­proco agire. Non pro­prio ciò che più aggrada alla stuc­che­vole reto­rica del «nuovo che avanza» con­ci­tato, senza pro­ve­nire da nes­suna parte.
Ma nel rap­porto di Machia­velli con l’antichità clas­sica vi è anche un altro ele­mento niente affatto secon­da­rio: quello del pia­cere, della fasci­na­zione, della curio­sità, dell’otium. È una ragione più che suf­fi­ciente per avven­tu­rarsi tra gli autori clas­sici. Del resto nem­meno il più arido degli uti­li­ta­ri­sti, tutt’altro che inclini al puri­ta­ne­simo e all’ascesi, si sarebbe mai sognato di ban­dire il pia­cere dalla dimen­sione dell’utile.
I «rifor­mi­sti», invece, non tro­vano dif­fi­coltà nel farlo, nel rite­nerlo una mani­fe­sta­zione del col­pe­vole desi­de­rio di «vivere al di sopra dei pro­pri mezzi». Poi­ché non è che il cal­colo costi\benefici a trac­ciare i con­fini dell’utile che essi inten­dono imporre. Le riforme dell’Università che si sono sus­se­guite negli anni hanno coe­ren­te­mente lavo­rato a demo­lire con tenace deter­mi­na­zione, il pia­cere dello stu­dio. Tanto che l’argomento del pia­cere non figura nem­meno più tra quelli messi in campo dai difen­sori degli studi uma­ni­stici. È forse il segno di una gene­rale ras­se­gna­zione all’«intervallo di rista­gno e di oblio»?
Ma tor­niamo alla poli­tica, quella che sta­bi­li­sce la scala delle prio­rità, tenendo bene a mente l’insidia che in essa si cela e che Adorno così descrive: «la divi­sione del mondo in cose prin­ci­pali e acces­so­rie, che ha sem­pre con­tri­buito a neu­tra­liz­zare, come sem­plici ecce­zioni, i feno­meni chiave dell’estrema ingiu­sti­zia sociale, va per­se­guita fino al punto in cui viene con­vinta della pro­pria fal­sità». Magari con l’aiuto degli anti­chi che, come scrive Can­fora «non hanno scelto la via con­so­la­to­ria» e con­ti­nuano così a for­nire un anti­doto con­tro l’autoassoluzione dello stato di cose presente.

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