domenica 8 giugno 2014

Una biografia di Diocleziano


Umberto Roberto: Diocleziano, Salerno, pp. 387, e 24

Risvolto
Oppresso dai suoi mali interni e minacciato dalle aggressioni dei barbari, alla metà del terzo secolo il mondo romano era un organismo invecchiato e sull’orlo del collasso. Diocleziano salì dal nulla ai vertici della carriera, si impadronì dell’impero con la violenza, governò con feroce determinazione per più di venti anni, dal 284 al 305. Ma i fasti del potere non cambiarono la sua natura: rimase sempre un soldato. Diocleziano non fu un rivoluzionario, come Augusto o Costantino. Seguendo il suo istinto di soldato, pensava che la rifondazione dell’impero dovesse procedere nel rispetto supremo della tradizione, della religione dei padri. Alla fine trionfò su tutti i suoi nemici: usurpatori, barbari, Persiani. In segno di riconoscenza agli dei scatenò durissime persecuzioni contro i dissidenti, gli empi seguaci di religioni lontane dalla tradizione: i manichei, che arrivavano dalla Persia sasanide; e, avversari ancora più insidiosi, i cristiani. Al culmine della gloria, al momento di godere di una pace finalmente riconquistata, Diocleziano abdicò. Fu una scelta inaudita, inaspettata, unica nella storia dell’impero romano. Perché abdicò? Malattia, stanchezza, delusione? O, piuttosto, volontà di applicare un progetto politico teorizzato negli anni? La scelta di Diocleziano è un enigma che continua ad affascinare gli storici. Sicuramente contò il desiderio di congedarsi dai duri impegni della sua missione. Diocleziano si ritirò lontano, in un grande palazzo che s’era fatto costruire vicino Salona, in riva all’Adriatico. Erano i luoghi dei suoi primi anni, delle sue memorie più care; i luoghi che aveva scelto per il suo ultimo riposo. 

L’enigma del vero Diocleziano. Imperatore geniale o persecutoreRisuscitò la grandezza di Roma ma fu durissimo con i cristiani

di Luciano Canfora Corriere 7.6.14

Il nome di Diocleziano (il quale regnò dal 284 al 305 d.C.) è legato, nell’immaginario di chi serba ancora ricordi degli studi ginnasiali, all’ultima persecuzione anticristiana più che all’editto sui prezzi o al riordino amministrativo e militare dell’impero. D’altra parte, il governo di Diocleziano sul piano amministrativo, militare, economico ha suscitato in genere rispetto tra gli storici moderni, a parte qualche ironia fatuamente liberista verso l’editto sui prezzi. La trovata di «sminuzzare» l’estensione geografica delle province al fine di ridurre il potere militare dei singoli governatori era la risposta più razionale al caos prolungato del decennio successivo alla morte di Aureliano. La scelta di non chiedere nemmeno l’avallo - o la legittimazione - del Senato era un modo drastico, ma efficace, di far comprendere all’aristocrazia senatoria il cambio d’epoca in atto. Ormai era l’esercito - in tutta la sua amplissima estensione e articolazione - il fondamento politico-sociale del potere imperiale. I soldati restavano nel servizio per decenni: erano il ceto sul cui crescente peso e sulla cui lealtà si fondava lo Stato. Diocleziano veniva dal basso, suo padre era stato schiavo, poi liberto, di un senatore romano (fonte Giovanni Zonara); il suo culto e la sua assoluta dedizione all’impero e all’idea stessa di potere imperiale venivano proprio di lì, da quelle origini e da quella tenace e fortunata sua ascesa tutta all’interno dell’esercito e mai immemore del punto di partenza. La biografia scritta da Umberto Roberto, Diocleziano (Salerno, pp. 387, e 24), mette bene in luce questo aspetto. E si fa apprezzare per l’efficacia narrativa oltre che per la documentazione. 
Invece la svolta anticristiana ha sconcertato i moderni interpreti. «Non è ben chiaro - scrisse Luigi Pareti - per quale motivo, dopo ben diciotto anni di tolleranza per il Cristianesimo (285-303), Diocleziano a nome dei tetrarchi infierisse contro i cristiani con quattro editti fierissimi» (Storia di Roma, 1954). Il sovietico Kovaliov scelse un’altra strada: «Al suo Stato riformato - scrisse - Diocleziano volle assicurare, oltre che una base materiale, anche una base ideologica. Tuttavia la sua perspicacia non era sufficiente a scegliere tale base. Base ideologica della nuova monarchia poteva essere soltanto la nuova religione, il Cristianesimo, che a quel tempo era diventato un’enorme forza, soprattutto in Oriente» (Storia di Roma , 1948). Analoga la posizione di Momigliano: «L’essere caduto nell’errore di portare all’estremo inutilmente la persecuzione contro i cristiani indica quale fosse il difetto intrinseco al regime: una rigidezza che invano tentava di imprigionare il corso dei fenomeni» (Sommario di storia delle civiltà antiche , 1934). Per Mazzarino invece «il genio di Diocleziano aveva intuito l’inutilità della lotta» contro il Cristianesimo, ma «gli uomini di cultura d’intorno a lui pensavano che ancora si potesse e si dovesse tentare»; e indica nel Contro i cristiani di Porfirio il loro «Manifesto» (Trattato di storia romana. L’impero , 1956). 
Consideriamo più da vicino la cruciale vicenda. Una fonte insospettabile, il padre della Chiesa Cecilio Firmiano Lattanzio (250-325 d.C.) riversa soprattutto su Galerio, «Cesare» di Diocleziano, la responsabilità della persecuzione. Narra Lattanzio con dovizia di dettagli, nei capitoli 10 e 11 del De mortibus persecutorum , che Galerio - spronato a ciò da sua madre Romula, seguace di riti pagani degli «dei delle montagne» - si installò per tutto l’inverno del 303 presso Diocleziano, in quel momento nella sua residenza di Nicomedia (in Bitinia), e, nonostante la riluttanza del vecchio e malandato imperatore (senex vanus lo chiama), lo piegò, alfine, ad avallare lo scatenamento della persecuzione. 
Lo storico che più ha dato rilievo a questa scena onde ridimensionare le responsabilità di Diocleziano è stato Edward Gibbon, nel celebre capitolo XVI della Storia della decadenza e caduta dell’impero romano : è il capitolo che tratta con spirito critico il problema delle persecuzioni, in contrasto spesso con le iperboli della «storia sacra» degli autori cristiani. Gibbon solleva anche la questione: come faceva Lattanzio a conoscere minuti e segreti dettagli dei colloqui tra l’«Augusto» Diocleziano e il suo «Cesare» Galerio? D’altra parte è significativo che Gibbon non tratti questa vicenda nel capitolo (il XIII), molto ammirativo, dedicato a Diocleziano, ma nel capitolo sulle persecuzioni, e nei termini che abbiamo ora ricordato. È una strategia narrativa che consente a Gibbon di non turbare con ombre sgradevoli il tono generale del capitolo su Diocleziano: lascia al lettore l’onere di connettere i due resoconti. 
La scena del lungo incontro di Nicomedia viene ripresa, con efficacia narrativa, dal testo di Lattanzio e inserita nel capitolo intitolato «La spirale dell’odio» da Umberto Roberto nel suo Dioclezian o . Egli non si pone però la domanda di Gibbon, semmai ribalta il racconto di Lattanzio asserendo che Galerio «appoggiò con solerzia le misure contro i cristiani». 
La vicenda della lunga persecuzione (durata ben oltre l’abdicazione di Diocleziano, avvenuta il 1° maggio 305, e protrattasi per altri sette anni, quando ormai Galerio da «Cesare» era diventato «Augusto») ha importanza soprattutto sul piano della storia politica. Soccorre il paragone, certo alquanto enfatico, di Gibbon, il quale accostava senz’altro Diocleziano ad Augusto. «Al pari di Augusto - scrisse Gibbon - Diocleziano può essere considerato come il fondatore di un nuovo impero». E soggiungeva, non senza un’accentuazione oleografica: «Questi due principi non impiegarono mai la forza ogniqualvolta potevano conseguire lo scopo con la politica». Se dunque nei confronti dei cristiani Diocleziano accettò di adottare la maniera forte, è necessario chiedersi perché ciò sia accaduto. 
La premessa fattuale è che il proselitismo cristiano aveva raggiunto la gran parte delle province dell’impero ed era penetrato in profondità nell’esercito, cioè nell’unica e fondamentale base del potere imperiale sotto la tetrarchia, dopo quasi un secolo di crisi e convulsioni dinastico-militari. Al pari di Augusto, Diocleziano era profondamente convinto della necessità di una salda unificazione religiosa dell’impero quale vero e stabile cemento della compattezza della compagine statale. L’azione svolta da Augusto su questo terreno è ben nota: essa poté dispiegarsi secondo il modello inclusivo caratteristico della prassi di governo romana, allora in grado di coniugare controllo e tolleranza. Ma all’inizio del IV secolo la questione si poneva, dal punto di vista dei rapporti di forza, in termini diversi rispetto a tre secoli prima: la repressione - già materia di discussione tra Plinio e Traiano al principio del II secolo - appariva ora lo strumento, certo aspro ma, si riteneva, pur sempre efficace, per riportare anche questo culto così pervasivo nell’alveo dell’unità imperiale. 
Non va trascurato un elemento che più d’ogni altro denota il cambio d’epoca: Augusto fa «dio» il suo padre adottivo (divus Iulius ), Diocleziano pone ormai se stesso come «divino» di fronte a masse militari pronte a recepire una tale grossolana proiezione del potere. E dunque l’attrito con la componente cristiana diveniva inevitabile: a meno di non compiere il salto sommamente realpolitico dell’accettazione del nuovo credo da parte dello stesso imperatore. Ciò che farà di lì a poco Costantino dinanzi al fallimento dell’altra opzione. 


Diocleziano Com'è difficile fare l'imperatore
di Carlo Carena Il Sole Domenica 28.9.14

Il volume di Umberto Roberto «Diocleziano» sarà presentato martedí a Roma alle ore 17,45 presso i Musei Capitolini, Sala Pietro da Cortona in piazza del Campidoglio. Alla presentazione, che sarà moderata da Paolo Mieli, interverranno l'imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone e lo storico del pensiero antico Luciano Canfora.
Sarà presente l'autore.

La personalità e l'impero di Diocleziano sono sempre stati punti oscuri e controversi fra gli storici, per la complessità dei suoi tempi e delle fonti. Ma proprio questo ne stimola il fascino. Il denso tomo che gli ha dedicato Umberto Roberto, docente di Storia romana all'Università Europea di Roma, si apre con questa constatazione: che egli viene ricordato dagli scrittori antichi come un militare brutale e un persecutore spietato, ma nessuno può negare l'imponenza della sua figura, il dominio esercitato su un'intera epoca e l'importanza delle sue misure costituzionali ed economiche, difficili da imporre nel corso di un'esistenza e di un governo entrambi accidentati e aspri, e poi tragicamente effimere. Quel provinciale, nato verso il 245 di oscura famiglia e in una cittadina persa sulle coste dalmate, giunse al trono dal nulla, facendo il soldato dalla gavetta. Poco o per niente colto, amava tuttavia citare qualche verso di Virgilio a memoria; e d'altra parte, il momento non richiedeva altro: il gusto estetico e gli ozi intellettuali dei bei tempi di Adriano e di Marco Aurelio erano morti e sotterrati. L'Historia Augusta lo ritrae come accorto, devoto allo Stato e ai propri parenti: «Era l'uomo che ci voleva per la sua epoca, profondo nei progetti e talvolta ferreo, capace di tenere a freno con la prudenza una straordinaria ostinazione e gli impulsi di uno spirito inquieto».
Pur nato alla periferia del centro dell'Impero romano, o appunto per questo, ne ebbe un culto spasmodico e alla tradizione del passato ispirò caparbiamente la propria condotta, quando quei tempi erano insidiati o decisamente superati dai due macroscopici fenomeni dei nuovi popoli d'Occidente e della nuova religione d'Oriente. Questa inquadratura è l'ossatura del ritratto di Diocleziano e della sua opera politica e militare tracciato da Roberto, e l'interesse del suo brillante studio. C'era addirittura in questo soldato incolto una vena di misticità, la persuasione di dovere la sua ascesa al carisma, a un dono divino che lo aveva predestinato al principato fra i mortali; un diletto per i cerimoniali orientali, una devozione profonda alle antiche divinità; persuasioni che sono certamente anche la vena dell'epoca e pervadono molti suoi atteggiamenti divenendone per alcuni l'ispirazione. E molti spunti vi trova anche il lettore moderno. Il giovane Diocleziano servì dapprima sul Reno e in Persia i suoi predecessori Probo e Caro. Nella crisi delle istituzioni in balìa di usurpatori e nell'anarchia che sopravvenne – Probo assassinato dalle sue truppe e Caro morto due anni dopo sulle rive del Tigri – allorché anche il giovane Numeriano, figlio di Caro, fu ucciso dopo pochi mesi dal prefetto del pretorio, Diocleziano allora semplice comandante delle guardie fu posto sul trono dall'esercito a quarant'anni, nel 285.
Il governo fu immediatamente rafforzato e reso efficiente col perfezionamento e la gestione della tetrarchia, quattro sovrani che amministravano quattro parti di un impero troppo grande anche per lui. Scelse di porsi al fianco come secondo Augusto un collega eccellente, Massimiano, a cui erano affidate le frontiere germaniche, mentre egli si riservava quelle delicatissime dell'Oriente. Sotto di loro operavano concordemente due Cesari anch'essi soldati, Costanzo Cloro vice di Massimiano, e Galerio di Diocleziano stesso. E sopra tutti, gli dèi, Giove ed Ercole, il dio supremo e il dio eroico.
Ma oltre che alle operazioni militari in Sarmazia o in Egitto, a viaggi infaticabili per rassicurare le province con la sua presenza, Diocleziano pose mano a profonde riforme tributarie ed economiche. L'amministrazione statale e soprattutto il mantenimento di un esercito di 435mila effettivi, erano fardelli pesantissimi, pur riducendo al minimo le spese superflue per gli svaghi e gli spettacoli «che fanno solo ridere», diceva. Vi provvide rivedendo il sistema decentrato di una tassazione caotica. «Il suo riformismo – spiega Roberto – gettò le basi di un sistema destinato a durare per secoli e a funzionare con regolarità, anche se talora a prezzo di vessazioni per i contribuenti».
Preceduta da un capillare censimento e accatastamento delle proprietà private, delle risorse umane e delle forze lavorative, di ogni città e di ogni terreno, la nuova imposta delle varie circoscrizioni fiscali era costituita dai contributi dei singoli individui e sotto la sorveglianza e la responsabilità dei governatori territoriali. Nel 301 seguì una faticosa riforma monetaria, che sortì effetti inflattivi; a cui cercò di porre rimedio il famoso Editto de maximis pretiis, affisso nelle principali piazze delle città, che fissava i prezzi massimi di gran parte delle merci negoziabili all'interno dell'Impero e cercava di abbassare il costo della vita abbassando la quotazione dei metalli preziosi detenuti in gran parte dalle classi elevate. Esempio, indica ancora Roberto, di dirigismo statale che intendeva controllare strettamente il libero mercato, ma che finì col determinare la scomparsa delle merci e la proliferazione del mercato nero.
Infine l'onta suprema della Grande Persecuzione dei cristiani inaugurata due anni dopo, nel febbraio del 303, con la strage eseguita nella loro chiesa di Nicomedia, dove Diocleziano risiedeva. Di lì essa si estese, con maggiore o minore intensità, in ogni angolo dell'Impero, ove i nuovi fedeli erano ormai diffusi in ogni ceto e posizione. Roberto la espone dandone anche vari documenti contemporanei e astenendosi da un marcato esame critico di quanto quella tradizione, prevalentemente cristiana, ne tramanda. Sottolinea invece anche qui, perfettamente, come quella fosse ormai un'inutile e spietata operazione di retroguardia, ben presto superata e riscattata dagli editti del successore, fiero nemico e demolitore di Diocleziano, Costantino il Grande. Due anni dopo, a Nicomedia stessa, il 1º maggio del 305, con un gesto senza precedenti e con pochi imitatori, l'imperatore abdicò al trono e si ritirò in patria, nel palazzo di Salona, a coltivare l'orto. Soltanto Carlo V scese volontariamente da tanto in alto, ritirandosi anch'egli in un convento a regolare gli orologi dei frati. All'irrequieto collega Massimiano che lo sollecitava a rientrare in scena, il vecchio imperatore rispondeva da laggiù che se avesse potuto mostrargli la rigogliosità dei cavoli piantati con le proprie mani, non si sentirebbe animato ad abbandonare la vera felicità per la ricerca di un potere tormentoso. Poiché nihil difficilius est quam bene imperare.

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