Risvolto
Oppresso dai suoi mali interni e minacciato dalle aggressioni dei barbari, alla metà del terzo secolo il mondo romano era un organismo invecchiato e sull’orlo del collasso. Diocleziano salì dal nulla ai vertici della carriera, si impadronì dell’impero con la violenza, governò con feroce determinazione per più di venti anni, dal 284 al 305. Ma i fasti del potere non cambiarono la sua natura: rimase sempre un soldato. Diocleziano non fu un rivoluzionario, come Augusto o Costantino. Seguendo il suo istinto di soldato, pensava che la rifondazione dell’impero dovesse procedere nel rispetto supremo della tradizione, della religione dei padri. Alla fine trionfò su tutti i suoi nemici: usurpatori, barbari, Persiani. In segno di riconoscenza agli dei scatenò durissime persecuzioni contro i dissidenti, gli empi seguaci di religioni lontane dalla tradizione: i manichei, che arrivavano dalla Persia sasanide; e, avversari ancora più insidiosi, i cristiani. Al culmine della gloria, al momento di godere di una pace finalmente riconquistata, Diocleziano abdicò. Fu una scelta inaudita, inaspettata, unica nella storia dell’impero romano. Perché abdicò? Malattia, stanchezza, delusione? O, piuttosto, volontà di applicare un progetto politico teorizzato negli anni? La scelta di Diocleziano è un enigma che continua ad affascinare gli storici. Sicuramente contò il desiderio di congedarsi dai duri impegni della sua missione. Diocleziano si ritirò lontano, in un grande palazzo che s’era fatto costruire vicino Salona, in riva all’Adriatico. Erano i luoghi dei suoi primi anni, delle sue memorie più care; i luoghi che aveva scelto per il suo ultimo riposo.
Diocleziano Com'è difficile fare l'imperatore
di Carlo Carena Il Sole Domenica 28.9.14
Il volume di Umberto Roberto «Diocleziano» sarà presentato martedí a Roma alle ore 17,45 presso i Musei Capitolini, Sala Pietro da Cortona in piazza del Campidoglio. Alla presentazione, che sarà moderata da Paolo Mieli, interverranno l'imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone e lo storico del pensiero antico Luciano Canfora.
Sarà presente l'autore.
La personalità e l'impero di Diocleziano sono sempre stati punti oscuri e controversi fra gli storici, per la complessità dei suoi tempi e delle fonti. Ma proprio questo ne stimola il fascino. Il denso tomo che gli ha dedicato Umberto Roberto, docente di Storia romana all'Università Europea di Roma, si apre con questa constatazione: che egli viene ricordato dagli scrittori antichi come un militare brutale e un persecutore spietato, ma nessuno può negare l'imponenza della sua figura, il dominio esercitato su un'intera epoca e l'importanza delle sue misure costituzionali ed economiche, difficili da imporre nel corso di un'esistenza e di un governo entrambi accidentati e aspri, e poi tragicamente effimere. Quel provinciale, nato verso il 245 di oscura famiglia e in una cittadina persa sulle coste dalmate, giunse al trono dal nulla, facendo il soldato dalla gavetta. Poco o per niente colto, amava tuttavia citare qualche verso di Virgilio a memoria; e d'altra parte, il momento non richiedeva altro: il gusto estetico e gli ozi intellettuali dei bei tempi di Adriano e di Marco Aurelio erano morti e sotterrati. L'Historia Augusta lo ritrae come accorto, devoto allo Stato e ai propri parenti: «Era l'uomo che ci voleva per la sua epoca, profondo nei progetti e talvolta ferreo, capace di tenere a freno con la prudenza una straordinaria ostinazione e gli impulsi di uno spirito inquieto».
Pur nato alla periferia del centro dell'Impero romano, o appunto per questo, ne ebbe un culto spasmodico e alla tradizione del passato ispirò caparbiamente la propria condotta, quando quei tempi erano insidiati o decisamente superati dai due macroscopici fenomeni dei nuovi popoli d'Occidente e della nuova religione d'Oriente. Questa inquadratura è l'ossatura del ritratto di Diocleziano e della sua opera politica e militare tracciato da Roberto, e l'interesse del suo brillante studio. C'era addirittura in questo soldato incolto una vena di misticità, la persuasione di dovere la sua ascesa al carisma, a un dono divino che lo aveva predestinato al principato fra i mortali; un diletto per i cerimoniali orientali, una devozione profonda alle antiche divinità; persuasioni che sono certamente anche la vena dell'epoca e pervadono molti suoi atteggiamenti divenendone per alcuni l'ispirazione. E molti spunti vi trova anche il lettore moderno. Il giovane Diocleziano servì dapprima sul Reno e in Persia i suoi predecessori Probo e Caro. Nella crisi delle istituzioni in balìa di usurpatori e nell'anarchia che sopravvenne – Probo assassinato dalle sue truppe e Caro morto due anni dopo sulle rive del Tigri – allorché anche il giovane Numeriano, figlio di Caro, fu ucciso dopo pochi mesi dal prefetto del pretorio, Diocleziano allora semplice comandante delle guardie fu posto sul trono dall'esercito a quarant'anni, nel 285.
Il governo fu immediatamente rafforzato e reso efficiente col perfezionamento e la gestione della tetrarchia, quattro sovrani che amministravano quattro parti di un impero troppo grande anche per lui. Scelse di porsi al fianco come secondo Augusto un collega eccellente, Massimiano, a cui erano affidate le frontiere germaniche, mentre egli si riservava quelle delicatissime dell'Oriente. Sotto di loro operavano concordemente due Cesari anch'essi soldati, Costanzo Cloro vice di Massimiano, e Galerio di Diocleziano stesso. E sopra tutti, gli dèi, Giove ed Ercole, il dio supremo e il dio eroico.
Ma oltre che alle operazioni militari in Sarmazia o in Egitto, a viaggi infaticabili per rassicurare le province con la sua presenza, Diocleziano pose mano a profonde riforme tributarie ed economiche. L'amministrazione statale e soprattutto il mantenimento di un esercito di 435mila effettivi, erano fardelli pesantissimi, pur riducendo al minimo le spese superflue per gli svaghi e gli spettacoli «che fanno solo ridere», diceva. Vi provvide rivedendo il sistema decentrato di una tassazione caotica. «Il suo riformismo – spiega Roberto – gettò le basi di un sistema destinato a durare per secoli e a funzionare con regolarità, anche se talora a prezzo di vessazioni per i contribuenti».
Preceduta da un capillare censimento e accatastamento delle proprietà private, delle risorse umane e delle forze lavorative, di ogni città e di ogni terreno, la nuova imposta delle varie circoscrizioni fiscali era costituita dai contributi dei singoli individui e sotto la sorveglianza e la responsabilità dei governatori territoriali. Nel 301 seguì una faticosa riforma monetaria, che sortì effetti inflattivi; a cui cercò di porre rimedio il famoso Editto de maximis pretiis, affisso nelle principali piazze delle città, che fissava i prezzi massimi di gran parte delle merci negoziabili all'interno dell'Impero e cercava di abbassare il costo della vita abbassando la quotazione dei metalli preziosi detenuti in gran parte dalle classi elevate. Esempio, indica ancora Roberto, di dirigismo statale che intendeva controllare strettamente il libero mercato, ma che finì col determinare la scomparsa delle merci e la proliferazione del mercato nero.
Infine l'onta suprema della Grande Persecuzione dei cristiani inaugurata due anni dopo, nel febbraio del 303, con la strage eseguita nella loro chiesa di Nicomedia, dove Diocleziano risiedeva. Di lì essa si estese, con maggiore o minore intensità, in ogni angolo dell'Impero, ove i nuovi fedeli erano ormai diffusi in ogni ceto e posizione. Roberto la espone dandone anche vari documenti contemporanei e astenendosi da un marcato esame critico di quanto quella tradizione, prevalentemente cristiana, ne tramanda. Sottolinea invece anche qui, perfettamente, come quella fosse ormai un'inutile e spietata operazione di retroguardia, ben presto superata e riscattata dagli editti del successore, fiero nemico e demolitore di Diocleziano, Costantino il Grande. Due anni dopo, a Nicomedia stessa, il 1º maggio del 305, con un gesto senza precedenti e con pochi imitatori, l'imperatore abdicò al trono e si ritirò in patria, nel palazzo di Salona, a coltivare l'orto. Soltanto Carlo V scese volontariamente da tanto in alto, ritirandosi anch'egli in un convento a regolare gli orologi dei frati. All'irrequieto collega Massimiano che lo sollecitava a rientrare in scena, il vecchio imperatore rispondeva da laggiù che se avesse potuto mostrargli la rigogliosità dei cavoli piantati con le proprie mani, non si sentirebbe animato ad abbandonare la vera felicità per la ricerca di un potere tormentoso. Poiché nihil difficilius est quam bene imperare.
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