Diego Rivera ha dipinto moltissimi murales in patria, in Messico, ma è stato anche un artista da esportazione. Particolarmente significativa la sua parentesi, lui marxista, negli Stati Uniti, patria del capitalismo. L’artista messicano arriva a Detroit, la capitale mondiale dell’automobile, città allora ricchissima e fucina di tendenze artistiche e musicali, nel 1931 insieme alla moglie Frida Kahlo su invito di Edsel Ford, figlio di Henry, geniale capostipite della famiglia che ha motorizzato gli Usa, allora commissario del Detroit Institute of Arts (Dia).
sabato 20 settembre 2014
"Disgustato dal patto Ribbentrop-Molotov, che unisce i totalitarismi europei in un’alleanza ipocrita, decide di diventare un informatore dell’Fbi": Johnny Riotta racconta Frida Kahlo e Diego Rivera in occasione della mostra di Genova
FRIDA KAHLO DIEGO RIVERA
Li chiamavano l’Elefante e la Colomba tra arte, amore e politica divennero un mito nel Messico delle rivoluzioni Da oggi una mostra li celebra a Genova
Gianni Riotta 20 settembre 2014
Era un tempo di amore e di odio, di vita e di morte, di arte e distruzione, era la stagione di Diego Rivera e Frida Kahlo, l’Elefante e la Colomba come li chiamavano, disperati, i genitori di lei. Diego un artista celebre dei murales messicani, capace di decorare con una sua opera nel 1932 il quartier generale della Rca a New York e poi, quando la famiglia di finanzieri Rockefeller gli impone di rimuovere il rivoluzionario russo Lenin dal corteo dei personaggi, rifiutare e abbandonare l’opera alla distruzione. Tornato in patria, in Messico, Diego Rivera riproduce il capolavoro perduto a New York, dandogli il pomposo titolo di «Uomo al bivio, con speranze e ideali per scegliere un nuovo e migliore futuro».
Frida Kahlo, la pittrice amata da Madonna e da una generazione di artisti d’avanguardia, ha 20 anni meno di Rivera quando si sposano nel 1929, lui 42 lei 22, l’ha visto una volta a scuola e ha subito informato una compagna «Voglio che mi metta incinta». Non ci riuscirà, complice un aborto. La sua vita è tormentata, la poliomielite da bambina le devasta una gamba e obbliga il padre a farne un maschiaccio per guarirla, lotta, calcio, atletica, roba allora negata alle ragazze. Poi, studentessa, un incidente stradale in autobus, un tram in collisione, un tubo di ferro che la impala, dozzine di operazioni alla colonna vertebrale.
Il dolore è visibile in ogni opera di Frida, nei toni del colore, nella maschera dei volti, intenti a ricordare a chi guarda che la bellezza è possente e sensuale, ma sfugge subito, effimera, davanti alla forza della vita. La passione anima invece Diego, la speranza che la povertà desolante dei peones messicani, descritta dal grandissimo scrittore Juan Rulfo nel capolavoro Pedro Paramo (se non lo conoscete leggetelo, è Cent’anni di solitudine più elegante e visionario), potesse finalmente emanciparsi.
Il matrimonio di Frida e Diego è costellato di tradimenti, lui, come ogni macho intellettuale del tempo va a letto con chiunque, salvo ribellarsi geloso come un torero ai tradimenti della moglie (tranne quelli omosessuali, per esempio con Josephine Baker). Infine il divorzio, perché perfino la tollerante Frida non sopporta che Diego faccia l’amore con la bellissima sorella minore Cristina. Troppo il sesso in famiglia, ma in dodici mesi la coppia si riunisce, viaggi, lavori, frenetica sarabanda erotica e ideologica.
Il mito ce li consegna così, l’Elefante e la Colomba, lei con la peluria sensuale sul labbro, come Tolstoj immagina la moglie del Principe Andrej in Guerra e Pace, lui con il sorriso debonair, i giornali sul tavolo, i colori intorno, amore e rivoluzione. Hollywood e il web, i caffè dei ragazzi d’avanguardia e tante tesi di laura che nessuno leggerà mai perpetuano l’illusione del tempo di Eros e Ribellione. La realtà, purtroppo, è diversa. L’altro grande maestro del murale, David Alfaro Siqueiros, con il dirigente comunista italiano Vittorio Vidali e forse la fotografa Tina Modotti, intriga per uccidere il dissidente russo Leone Trotskij, padre della rivoluzione esiliato in Messico e perseguitato da Stalin. È l’influenza di Rivera ad avergli fatto dare asilo, ma subito la febbre divora Frida che si innamora del rivoluzionario, 59 anni. Quando Rivera li scopre nella Casa Azul, oggi museo, impone a Trotskij di traslocare, ma sembra non tradirlo. Siqueiros partecipa invece a un primo attentato, e favorisce il killer Mercader, che con un colpo di piccozza finisce l’ultimo leader bolscevico.
La polizia sospetterà anche di Rivera e Kahlo che si trovano all’estero, ma a questo punto – secondo documenti dell’Fbi americano ritrovati dagli studiosi Chase e Reed dell’Università di Pittsburgh - Rivera cambia idea. Espulso dal burocratico Partito comunista messicano per filo trotskismo, allora peccato capitale a sinistra, Rivera disgustato dal patto Ribbentrop-Molotov, che unisce i totalitarismi europei in un’alleanza ipocrita, decide di diventare un informatore dell’Fbi, passando i nomi dei killer infiltrati da Stalin e le tracce sulle manovre segrete Pcus in Messico e negli Stati Uniti. Il fascicolo di Diego Rivera all’Fbi di Washington ha il numero 100-155423, testimonianza controversa di un’era d’acciaio.
«Noi non si poté essere gentili…» lamenta il poeta Bertolt Brecht nell’ode A coloro che verranno e né Frida né Diego ebbero il lusso della gentilezza nei giorni del ferro e del sangue loro dati. Chi oggi li giudica con severità, dal tinello sicuro con wi-fi, è ingeneroso. Hanno vissuto di slancio e bruciandosi, hanno lasciato opere di bellezza, candore, lussuria e malinconia, dobbiamo rispettarli per il lavoro e considerarli con compassione, perduti ostaggi inquieti nella furia dell’esistenza.
La realtà e il sogno negli universi paralleli dei due artisti
120 opere, fotografie e documenti permettono di capire le differenze (tante) e le sintonie (poche) della loro ricerca
Elena Del Drago
Una leggenda e una giovane autodidatta, un uomo sicuro di sè e idolatrato, una ragazza traumatizzata e alle prime armi: non era certamente bilanciato il rapporto tra Diego Rivera e Frida Kahlo quando, nel 1929, poco tempo dopo essersi rincontrati, si sposarono senza troppi fronzoli. Appena due anni più tardi Rivera, dopo aver raggiunto il massimo della fama nel suo paese, dopo aver viaggiato ufficialmente in Europa e conosciuto i massimi artisti del tempo, avrebbe ricevuto anche la consacrazione negli Stati Uniti con una grande personale al Museum of Modern Art. Frida allora era soprattutto la sua compagna, vestiva abiti tradizionali e gioielli per compiacerlo, e dipingeva soprattutto per passare le lunghe ore di solitudine.
Anche le loro indoli erano opposte: energico, sensuale, egocentrico Rivera, riservata, ironica, dolente Kahlo, come la loro arte d’altronde, distante, anche soltanto nelle dimensioni. Eppure li ritroviamo oggi, quasi un secolo dopo il loro primo incontro, ed è indiscutibilmente Frida Kahlo con il suo dolore analizzato nei piccoli, densi, autoritratti ad occupare il centro della scena, mentre l’arte di Diego Rivera appare lontana nel tempo, segnata dalle problematiche sociali e politiche degli anni in cui veniva elaborata. E la mostra genovese intitolata non a caso «Frida Kahlo e Diego Rivera», non certo per cortesia, ma per un rapporto di fama oggi completamente invertito, è orchestrata proprio per permettere di intravedere dietro le opere, 130 provenienti da musei e collezioni private, la materia biografica che, seppure rilevante per ogni autore, nel caso di questa coppia, diventa assolutamente fondamentale.
Non può che procedere cronologicamente, dunque, il percorso espositivo e ripercorrere le vite dei due artisti a cominciare dalla formazione del talentuoso Rivera, appena ventenne, influenzato dal cubismo come dall’arte italiana rinascimentale, fino ad una Frida già ispirazione per stilisti e redattori di moda con il suo stile così unico. Ogni fase permette di seguire le diverse reazioni davanti alle medesime situazioni culturali e esistenziali in cui vennero a trovarsi. Se negli anni statunitensi, per esempio, Rivera si dedica senza sosta ai desideri dei suoi numerosi, ricchi, committenti, con molti ritratti, assai ben dipinti, che sapevano soddisfare le aspettative, Frida tanto nei disegni quanto nei quadri elabora i propri tormenti, la propria situazione interiore, concentrata soltanto sul vissuto che analizza con precisione e senza infingimenti. E sono particolarmente preziosi il materiale filmico e le molte fotografie che, scattate da autori come Nickolas Muray, Manuel e Lola Alvarez Bravo, Leo Mattia e Florence Arquin, consentono di osservare la coppia nella sua dimensione sociale, accanto ai grandi personaggi del tempo, come André Breton o Lev Trotsky, circondati da collezionisti o semplicemente vicini, uno accanto all’altra, nella luce di casa Azul a Cayoacan o impegnati in un bacio appassionato nel cortile del Detroit Institute of Arts. Tanto più rivelatorio se sovrapposto all’interpretazione pittorica data da Frida e Diego degli stessi momenti. Se il contesto sociale in Diego emerge infatti con più chiarezza, e la sua pittura tra paesaggi, ritratti e scene collettive racconta un mondo riconoscibile, nell’opera di Frida, gli stessi anni, le stesse situazioni, sono trasfigurate da un temperamento profondo e solitario, in opere apertamente dolenti, seppure mitigate da una tagliente vena ironica. Ed è forse proprio per questa sua capacità di rivelare se stessa oltre ogni tabù, con le sofferenze e le debolezze in cui ognuno può riconoscersi, che Frida Kahlo è riuscita a superare le contingenze storiche ed artistiche di quegli anni per parlare direttamente a molti tra i nostri contemporanei.
L'avventura americana del marxista che piaceva a FordTeodoro Chiarelli
Diego Rivera ha dipinto moltissimi murales in patria, in Messico, ma è stato anche un artista da esportazione. Particolarmente significativa la sua parentesi, lui marxista, negli Stati Uniti, patria del capitalismo. L’artista messicano arriva a Detroit, la capitale mondiale dell’automobile, città allora ricchissima e fucina di tendenze artistiche e musicali, nel 1931 insieme alla moglie Frida Kahlo su invito di Edsel Ford, figlio di Henry, geniale capostipite della famiglia che ha motorizzato gli Usa, allora commissario del Detroit Institute of Arts (Dia).
Edsel Ford commissionò al celebre pittore messicano una serie di ventisei affreschi intitolati L’industria di Detroit, destinati a una sala del Dia, quella che prenderà poi il nome di «Rivera Court». Rivera vi si dedica fra il 1932 e il 1933, portando a termine quello che lui stesso considerò il proprio capolavoro: un’allegorica raffigurazione della vita alla catena montaggio e del rapporto tra gli operai e i macchinari. Non solo, Rivera trovò anche il tempo di dipingere il celebre ritratto del suo committente, Edsel Ford, oggi conservato al Dia.
Il rapporto del comunista Rivera con la famiglia Ford fu un qualcosa di unico e andò ben al di là degli steccati ideologici. E lo stesso fu da parte degli industriali di Detroit. A chi gli faceva notare che stava finanziando un marxista, Henry Ford replicò secco, senza scomporsi: «A me piace». Imprenditore visionario e geniale, il fondatore della casa automobilistica fu pur tuttavia un personaggio controverso. Ammirò, sostenne e finanziò Adolf Hitler e fu un convinto antisemita. Ma non per questo Rivera rinnegherà mai, anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’ammirazione nei confronti del suo mecenate.
Per comprendere l’eccezionalità di questo rapporto basti pensare che lo stile allegorico e realista di Rivera fu bollato da diversi critici d’arte come «sovietico», tanto da andare di traverso alla famiglia Rockefeller che nel 1933 commissionò all’artista messicano di affrescare alcune pareti del Rockefeller Center a New York. Risultato: il notevole murales dipinto da Rivera fu distrutto ancora incompleto poiché raffigurava il volto di Lenin. Negli Anni 50, durante il «maccartismo», al Dia fu addirittura appeso un cartello «giustificativo» all’ingresso della Rivera Court.
Nei suoi 26 pannelli Rivera imprime uno stile legato al realismo socialista applicato all’iconografia della catena di montaggio fordista, una simbologia complessa e affascinante ricchissima di allegorie. Un tributo alle fabbriche della Motor City, ritratte come una perfetta simbiosi di uomini e macchinari. Rivera, lasciato libero di esprimersi nella più totale libertà artistica, decise di rappresentare lo stabilimento Ford di Rouge River a Dearborn, nel Michigan. Il dipinto si divide in quattro sezioni, cominciando da Est. In alto, al centro, un bambino cresce nel bulbo di una pianta, segno che tutto deriva dalla natura, e due donne, ai suoi lati, porgono in dono prodotti tipici del Michigan. Un omaggio alla terra e ai suoi frutti. La parete Ovest è nettamente opposta alla prima, incentrata sull’industria e su due aspetti, fondamentali ma antitetici: il padrone e l’operaio, dipinti sullo stesso livello, uno affianco all’altro così come, secondo Rivera dovevano essere nella vita reale.
C’è pure Henry Ford in una delle scene degli affreschi che osserva alcuni operai davanti a sé. E secondo la leggenda Rivera avrebbe anche dipinto se stesso. Ma nessuno è riuscito a identificarlo con certezza fra le centinaia di soggetti rappresentati.
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