Il rischio degli Istituti Confucio
Lezioni cinesi. Nati per creare consenso nel mondo nei confronti del paese del Dragone, vivono sotto un perenne ricatto: l'offerta culturale non deve toccare «temi sensibili»
Maurizio Scarpari, il Manifesto 25.9.2014
L’esigenza di creare un consenso globale che, a tutt’oggi, si presenta debole ha spinto la dirigenza cinese a promuovere una serie di iniziative miranti alla creazione di un’immagine soft, moderna e rassicurante del proprio Paese. È un’esigenza che è diventata necessità, visto il ruolo di primo piano della Cina, seconda potenza economica dopo gli Stati Uniti, con la prospettiva di diventare la prima entro pochi anni. Creare un consenso internazionale ed essere percepiti dalle altre nazioni come un punto di riferimento e un modello da seguire non è facile, nemmeno per chi è stato per secoli il centro di una grande civiltà, irradiatasi in un’area vasta e popolosa come l’Asia Orientale.
Importanti per le politiche cinesi del consenso sono, secondo molti osservatori, gli Istituti Confucio (IC), sorti un po’ ovunque nel mondo con lo scopo dichiarato di promuovere la lingua e la cultura cinesi e facilitare gli scambi culturali, sul modello del Goethe Institut, del British Council o dell’Alliance Française. Ne ha parlato anche il Presidente Xi Jinping in diverse occasioni, ad esempio quando lo scorso novembre si è recato a Qufu in visita ufficiale al Tempio di Confucio (v. il manifesto del 17 gennaio 2014) o quando, a fine marzo di quest’anno, ha incontrato a Berlino sinologi e studenti dell’IC locale. In entrambe le occasioni, ha sottolineato l’alto valore strategico degli IC ed enfatizzato il loro successo anche in quei paesi nei quali i pregiudizi verso la Cina sono maggiormente radicati. È davvero così? Non del tutto…
Gli IC sono un’emanazione dello Hanban, istituzione no-profit affiliata al ministero dell’educazione e diretta da un consiglio costituito da membri d’alto rango del Pcc e di diversi ministeri e commissioni ministeriali. Lo Hanban finanzia direttamente gli IC che, a differenza dei loro «omologhi» europei, non sono indipendenti, ma consorziati con le università e gli istituti di istruzione superiore (presso i quali vengono aperte strutture più snelle, le Classi Confucio, CC), al cui interno hanno spesso la loro sede istituzionale. Attualmente, sono 465 gli IC attivi in 123 paesi, e 713 le CC. Gli Stati Uniti ne ospitano circa la metà, l’Italia 31 (11 IC e 20 CC).
Nonostante la loro utilità in alcuni ambiti specifici – insegnamento della lingua cinese, sostegno economico agli studenti che si recano nel paese, finanziamento di piccole attività culturali –, fin dalla loro creazione, avvenuta nel 2004, gli IC sono stati al centro di polemiche, talvolta aspre, soprattutto negli Stati Uniti, a causa della loro natura tutt’altro che autonoma, degli scopi non sempre trasparenti e delle limitazioni imposte su alcuni temi sensibili, come ad esempio i diritti umani, il Tibet, il Dalai Lama, Taiwan. Talvolta sono stati accusati di essere centri di propaganda politica, agenzie di controllo dei cinesi all’estero, agenzie di intelligence. Solo alcune università, in genere le più prestigiose, hanno potuto contrattare condizioni finanziarie e sistemi di gestione particolari. Attratte dai generosi finanziamenti concessi, le università hanno per lo più favorito l’insediamento di IC presso le loro strutture, poco curanti dei condizionamenti, non solo ideologici, imposti al loro operato, creando così i presupposti per comportamenti talvolta troppo accondiscendenti, se non addirittura di autocensura, che hanno svilito l’offerta culturale (Stanford ha ricevuto un finanziamento iniziale di quattro milioni di dollari, a patto però che non ci si occupasse di Tibet). Proprio per salvaguardare la propria libertà di pensiero e di azione, alcune importanti università americane, europee e australiane hanno rifiutato di aprire IC al loro interno.
Questa particolare situazione ha alimentato un dibattito tra gli accademici di mezzo mondo, culminato in diversi appelli per chiudere gli IC, o almeno ad allontanarli dalle università; tra i più significativ, ivi sono quelli della Canadian Association of University Teachers (dicembre 2013) e dell’American Association of University Professors (giugno 2014), che annovera oltre quarantasettemila soci. Sono posizioni non scevre da motivazioni di natura ideologica. Pronta è stata la risposta dell’agenzia Xinhua, che ha imputato queste manifestazioni a ignoranza e paura nei confronti delle culture diverse.
È in questo clima che s’inserisce il cosiddetto «incidente di Braga»: al convegno biennale della European Association for Chinese Studies, tenutasi a Braga e Coimbra dal 23 luglio 2014, XuLin, viceministro dell’educazione, membro del consiglio di Stato e direttrice generale dello Hanban, ha compiuto un gesto di arroganza che ha stupito e indignato i circa quattrocento sinologi e professori presenti, provocando l’immediata reazione del Presidente dell’Associazione, il professor Roger Greatrex, direttore del Centre for East and South-East Asian Studies dell’Università di Lund (Svezia). Resasi conto che il programma del convegno, approvato dallo Hanban qualche settimana prima, riportava «la sintesi di interventi il cui contenuto è contrario alla normativa cinese» e che troppa enfasi veniva attribuita alle attività della Chiang Ching-kuo Foundation, l’ente no-profit taiwanese che dal 1989 promuove la cultura cinese e gli scambi tra studiosi e accademici nel mondo e che è sponsor di vecchia data dell’Associazione europea, la direttrice Xu ha requisito le copie del programma, redistribuendole il giorno successivo ai trecento partecipanti che ancora non le avevano ricevute, private di alcune pagine, tolte nottetempo perché ritenute lesive dell’immagine della Cina Popolare.
Greatrex, senza esitazioni, ha fatto ristampare le parti mancanti e denunciato pubblicamente l’accaduto come una grave violazione alla libertà accademica, dando vita a un dibattito che si affianca a quello sollevato oltre oceano. Si è trattato di un incredibile passo falso da parte di un’esponente di alto livello della dirigenza cinese che, evidentemente, ha ritenuto di potersi muovere all’estero con la stessa disinvoltura con cui dev’esser solita agire in patria, incapace di comprendere la gravità della sua azione e le implicazioni che da essa sarebbero derivate. Un duro colpo all’immagine soft della Cina, che sembra sempre più orientata a mostrare al mondo la sua vocazione a comportamenti hard.
Confucio, strategia del sapere per “ammorbidire” i nemici
Gli istituti finanziati dal regime veicolano nel mondo la voce di Pechino Il
denaro viene elargito sulla base dei progetti presentati dagli Istituti
Confucio, organizzazioni no profit che hanno aperto in tutto il pianeta
e che sono sponsorizzate e dirette dall'Hanban, ufficio per la
promozione della lingua cinese direttamente collegato al ministero
dell'Istruzionedi Cecilia Attanasio Ghezzi il Fatto 30.9.14
Pechino Oltre
200 milioni di euro solo nel 2013. Contro i 144 dell'anno precedente e i
120 del 2011. Nel 2006, il budget era di appena un sesto. Come il
prodotto interno lordo della nazione più popolosa del mondo, le spese
della Repubblica popolare per la diffusione della sua lingua e cultura
sono cresciuti a ritmi impressionanti. Il denaro viene elargito sulla
base dei progetti presentati dagli Istituti Confucio, organizzazioni no
profit che hanno aperto in tutto il pianeta e che sono sponsorizzate e
dirette dall'Hanban, ufficio per la promozione della lingua cinese
direttamente collegato al ministero dell'Istruzione.
Un'avventura
iniziata 10 anni fa. Era il 2004 quando il primo Istituto Confucio ha
aperto a Seul, Corea del Sud. Si volevano diffondere la lingua e la
cultura cinese in maniera non dissimile da quanto fanno il British
Council, il Goethe Institut o la Società Dante Alighieri. Solo che i
Confucio sono molto spesso frutto di accordi bilaterali tra università
cinesi e straniere. E quindi nascono e crescono all’interno degli
ambienti accademici. Oggi ce ne sono 465 in 123 nazioni per un totale di
850mila alunni. Delle 200 università migliori al mondo, 88 hanno già
aperto un Istituto Confucio. Ogni volta che Xi Jinping firma un accordo
commerciale con altre nazioni, questo include l'apertura di un Confucio.
I casi più recenti sono quelli sudamericani: Brasile e Cile.
“È un
problema di brand”, ci spiega Federico Masini, prorettore
dell'Università La Sapienza e direttore dell'Istituto Confucio di Roma.
“Se un governo spende così tanto per la promozione culturale
evidentemente vuole migliorarne l'immagine. Ed è comprensibile che
questo sforzo sia più forte in quei paesi dove la politica economica
cinese diventa più presente”.
Solo in Italia l'Hanban spende
centinaia di migliaia di euro. Ristruttura le aule, paga gli insegnanti,
i convegni, le pubblicazioni e gli eventi che ritiene possano dar
lustro alla propria cultura millenaria. Il Partito ne è entusiasta. A
giugno Liu Yunshan, che occupa una delle poltrone più importanti del
vasto apparato di propaganda della Repubblica popolare, ha dichiarato
che gli Istituti “hanno fatto la loro comparsa al momento giusto” e li
ha descritti come “un treno della spiritualità ad alta velocità” atto a
congiungere “il sogno cinese” con quelli del resto del mondo.
I soldi
fanno comodo a tutti, ma non tutti la pensano allo stesso modo. È da un
paio d’anni che negli Usa le critiche si fanno sempre più feroci. A
inizio 2014 un centinaio di membri della facoltà di cinese
dell'Università di Chicago si sono formalmente lamentati del fatto che
l'apertura dell'Istituto Confucio aveva compromesso l'integrità
accademica. Il professore Marshall Sahlins sulla rivista Nation ha
elencato una serie di casi in cui le università hanno evitato di toccare
temi “sensibili” per la politica cinese, o evitato di invitare il Dalai
Lama nel campus. Anche per evitare tali situazioni “l'Istituto Confucio
non entra nella didattica ufficiale dei nostri corsi universitari”
sottolinea Alessandra Lavagnino, direttrice dell'Istituto Confucio di
Milano.
Ad agosto l'Associazione europea per gli studi cinesi ha
denunciato la censura del materiale accademico distribuito durante la
conferenza di studi sinologici che si svolge ogni due anni. Come si
legge sul rapporto dell'Associazione, chi è arrivato il primo giorno non
s’è accorto di nulla, ma tutti quelli che hanno ricevuto il materiale
dopo hanno notato che c'erano due pagine strappate.
COS'ERA SUCCESSO?
Nel frattempo era arrivata Xu Lin, direttrice del quartier generale di
Pechino degli Istituti Confucio. Aveva sponsorizzato l'evento e non era
soddisfatta dello spazio riservata al logo del Confucio. Tanto più che
c'era anche quello del corrispettivo taiwanese: la Fondazione Chiang
Ching-kuo. Dopo una negoziazione con gli organizzatori, s’è deciso di
requisire il materiale ed eliminare le pagine incriminate prima di
redistribuirlo tra il pubblico.
Ci sono temi che in Cina rimangono
tabù. Taiwan è ancora oggi descritta come “l'isola più grande della
Cina”, ed è bene evitare di menzionare gli argomenti che Pechino ha
destinato all'oblio. Tian'anmen, l'indipendenza del Tibet o il Falun
Gong. Paolo De Troia, che ha diretto l'Istituto Confucio di Roma dal
2011 al 2014 ed è oggi visiting professor all'Università di Pechino, ci
spiega come “anche se non è una regola, è probabile che nessuno chieda
fondi all'Hanban per trattare quelle che Pechino considera ‘tematiche
sensibili’”. “Ma – ci tiene a sottolineare il professor Masini – non ci
sono argomenti che sono esplicitamente tabù. Su questi temi certo c'è
una sorta di autocensura, ma altre pressioni non ne ho mai ricevute”.
“La Cina vorrebbe intraprendere un percorso simile a quello del Giappone
nel secondo dopoguerra” aggiunge Masini. “Una nazione invisa
all'Occidente che ha riconquistato il consenso attraverso i film di
Kurosawa, la tradizione dell'ikebana e dei bonsai. Forse la strada è
ancora lunga, ma il tentativo è quello”. D'altronde lo stesso Li
Changchun, predecessore di Liu Yunshan, ha definito gli Istituti
Confucio “una parte importante dell'apparato di propaganda cinese
all'estero”. E il termine “propaganda” (xuanchuan) significa anche
“pubblicità” e indica la attività stessa dell'ufficio stampa.
Nessun commento:
Posta un commento