sabato 20 settembre 2014

Il nuovo libro di Giorgio Agamben


L'uso dei corpiGiorgio Agamben: L’uso dei corpi, Neri Pozza, pagg. 208, euro 18

Risvolto
Con questo libro Giorgio Agamben conclude il progetto Homo sacer che, iniziato nel 1995, ha segnato una nuova direzione nel pensiero contemporaneo. Dopo le indagini archeologiche degli otto volumi precedenti, qui si elaborano e si definiscono le idee e i concetti che hanno guidato la ricerca in un territorio inesplorato, le cui frontiere coincidono con un nuovo uso dei corpi, della tecnica, del paesaggio. Al concetto di azione, che siamo abituati da secoli a collocare al centro della politica, si sostituisce così quello di uso, che rimanda non a un soggetto, ma una forma-di-vita; ai concetti di lavoro e di produzione, si sostituisce quello di inoperosità che non significa inerzia, ma un'attività che disattiva e apre a un nuovo uso le opere dell'economia, del diritto, dell'arte e della religione; al concetto di un potere costituente, attraverso il quale, a partire dalla rivoluzione francese, siamo abituati a pensare i grandi cambiamenti politici, si sostituisce quello di una potenza destituente, che non si lascia mai riassorbire in un potere costituito. E, ogni volta, la definizione dei concetti si intreccia puntualmente all'analisi della forma di vita di alcuni personaggi chiave del pensiero contemporaneo.




Oltraggiati e curati l’uso politico dei corpi

Emerge l’idea di una “potenza destituente” capace di disinnescare i meccanismi del potere Il punto di approdo di una riflessione al centro della quale si pone l’Homo sacer Da Aristotele a Marx. Da Heidegger a Foucault. Il nuovo saggio di Giorgio Agamben raccoglie i frutti di una ventennale ricerca filosofica

di Antonio Gnoli Repubblica 20.9.14


NON so se il nuovo lavoro di Giorgio Agamben – L’uso dei corpi in uscita per Neri Pozza – sia il testo conclusivo di una ricerca ventennale nella quale l’autore ha posto al centro della riflessione la figura dell’ Homo sacer e le sue declinazioni (lo stato d’eccezione, Auschwitz, lo scavo nella teologia paolina e in quella francescana, l’archèe il giuramento). Sembrerebbe di sì. Dopotutto, vi è un punto di approdo rispetto al quale la parola fine ha un senso.
E quel senso lo si percepisce nella serietà con cui Agamben ha affrontato il dispositivo della nuda vita. Ma può davvero una ricerca considerarsi conclusa? Può fornirci tutte le risposte che in qualche modo ci saremmo aspettati da essa? O non è forse vero che una ricerca conserva un residuo, un resto, qualcosa che si può solo interrompere, abbandonare, lasciare ad altri come eredità o compito supplementare? Nel chiudere questo libro importante si ha la netta sensazione che nel momento in cui Agamben metta un punto definitivo, lì qualcos’altro dovrà generarsi.
Intanto cos’è l’”uso dei corpi”? L’espressione mostra una certa familiarità con ciò che si è letto in passato. Aristotele – e in generale il mondo greco – paragona lo schiavo a uno strumento animato il cui uso lo rende simile alle suppellettili della casa. Lo schiavo non smette di essere uomo ma l’uso che viene fatto del suo corpo lo rende simile a uno strumento animato.
Il mondo moderno modellerà le proprie esigenze sulla figura dell’uomo libero. Sarà Marx a svelarci che il paradigma antropologico ereditato dal mondo classico, e posto in vario modo al centro dal liberalismo, non fosse poi così privo di inquietanti somiglianze con la schiavitù. Come avrebbe dimostrato l’analisi del lavoratore ai tempi del capitalismo.
Se questo è il possibile sfondo dal quale affiora l’idea di un corpo, in qualche modo oltraggiato (si pensi, tanto per indicare uno dei punti estremi del discorso, al modo in cui Sade teorizza come un fatto naturale la differenza corporea tra padroni e schiavi) resta da considerare il risvolto positivo che il corpo prospetta ove insieme all’uso se ne vede anche la cura.
Ma qual è la relazione tra “uso” e “cura”? Per intenderla – anche nelle sue aporie – Agamben si sofferma sulla riflessione di Michel Foucault. Che in un corso dedicato all’”ermeneutica del soggetto” richiamò l’attenzione su come Socrate distingue “colui che usa” da “ciò che usa”. È evidente la differenza tra me che uso un coltello per tagliare il pane e lo strumento in questione. Socrate ne conclude che anche l’uomo che usa il proprio corpo (prendendosene cura) sta usando qualcosa che è suo e non è suo. Non è suo perché il corpo non appartiene al corpo (una tesi grazie alla quale Aristotele poté giustificare la schiavitù). È suo perché il corpo non potrebbe essere usato senza la presenza di un’anima. Di un sé. Ciò che Platone, attraverso Socrate, scopre, ci dice Foucault, è la prima esperienza del soggetto. Senza la distinzione e la relazione tra uso e cura, difficilmente sarebbe emersa la figura della soggettività. Che il cristianesimo immobilizzerà dentro pretese universalistiche.
La filosofia moderna ha spesso rivestito la figura del soggetto di astratte considerazioni: sia immaginando che ci possa essere un “soggetto sovrano” separato dal mondo che pensa, desidera, anticipa e in seconda battuta riversa tutto questo all’esterno (posizione idealista); sia che vi è un mondo dal quale il “soggetto” si lascia condizionare in forza delle percezioni che prova (posizione materialista). Foucault – ma già Nietzsche e ancor prima Spinoza – respinge la logica del “prima e del dopo” (il dispositivo aristotelico della potenza e dell’atto) e dice che “soggetto” è colui che fa un certo numero di cose: si occupa di sé, entra in rapporto con il mondo e con altri soggetti. Non c’è il soggetto e poi l’oggetto distinto. C’è la relazione tra essi.
È stato Heidegger a spingere con forza il tema della relazione e del soggetto in quella espressione, resa familiare dalle molteplici interpretazioni, per cui l’esserci è da sempre gettato nel mondo. Come l’esserci (diciamo in senso lato l’uomo) si muova dentro questo mondo e si orienti, non è una questione scontata. Quello che l’esserci fa, lo realizza, strano il ripensamento radicale della figura del soggetto e preparano il campo alle analisi successive. In particolare a quelle svolte da Foucault. È difficile, come osserva Agamben, che egli, nonostante le dichiarazioni, non conoscesse i capitoli che Heidegger, nel testo del 1927, dedicò alla cura. Non ultimo c’è poi la questione dell’etica che il ripensamento del soggetto mette in discussione. Foucault smise di pensare l’etica come il portato di un insieme di norme e la legò con forza all’idea che un “soggetto morale” si forma nelle diverse pratiche del mondo. Non è un caso che egli dedicasse l’ultimo corso a un tema apparentemente lontano e dal sapore vagamente retorico: “Il coraggio della verità”. Che è da intendere come il tentativo di cercare attraverso la vita filosofica la vita vera. E di trovarla non in una dottrina (come farà Platone) ma in una pratica esistenziale scandalosa e sovvertitrice dei modelli correnti della società.
Siamo dunque in pieno tentativo di dare alla politica uno dei significati che sembrano essersi persi: avvicinarla a una forma d’arte. Come dimostrano le esperienze delle avanguardie novecentesche. Fino al situazionismo teorizzato da Guy Debord, figura assai presente nella riflessione di Agamben. Il quale proprio alla politica – come orizzonte entro cui l’Occidente ha cercato la propria fondabilità – ha rivolto costantemente la sua attenzione. È il punto conclusivo. Su cui vorremmo richiamare l’attenzione del lettore. Come la metafisica ha cercato di fondare qualcosa che si è dimostrato infondabile, ossia il dispositivo soggetto-oggetto, così la politica ha cercato il fondamento nella giustificazione del potere. Diciamo la sua legittimazione attraverso il potere costituente. Che è un potere originario e illimitato che prende corpo ogni qualvolta la storia ci mette di fronte a una rivoluzione, a una sommossa, alla nascita di un nuovo diritto. Si tratta di figure che spesso si sono imposte nella violenza e nel sangue. La desolante dialettica tra potere costituente e potere costituito – come ci insegnano i grandi e piccoli eventi – si iscrive in questo tragico orizzonte. Sapremo superarlo?
Agamben suggerisce l’idea di una “potenza destituente”, capace cioè di rendere inoperanti i meccanismi del potere. Quanto il “destituente” sia difficile, rischioso e complicato lo si può capire constatando i fallimenti che il Novecento ha vissuto ogni qual volta ha provato a mettere in discussione un potere costituito. Nondimeno resta viva l’esigenza di un soggetto che destituendo il potere (neutralizzandolo non distruggendolo) si prenda cura della vita. Quale vita, quale forma, resta tutta da inventare.

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