E' noto che per Juenger, e ancor prima per Moeller, la Germania perse la guerra per l'incapacità di realizzare una mobilitazione totale, laddove questo sforzo era riuscito alle potenze "democratiche" in virtù del loro universalismo. Per quanto riguarda l'Italia, questo obiettivo non si vedeva nemmeno con il cannocchiale [SGA].
Marco Mondini:
La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-1918, il Mulino
Risvolto
«La maggior parte
di coloro che vennero travolti dalla guerra, fossero soldati al fronte o
donne mobilitate nelle retrovie, fece la propria parte fino in fondo.
Come ciò sia stato possibile, è uno dei quesiti a cui ho tentato di dare
una risposta. Perché, dopo anni di combattimenti e morte e dopo una
vittoria così duramente pagata, le emozioni dominanti in Italia siano
state non l’orgoglio bensì la disillusione e il senso di fallimento, è
un altro».
Gli italiani in guerra in un racconto nuovo e
avvincente. Nel panorama delle opere che guardano all’esperienza
dell’Italia nel primo conflitto mondiale questo libro sceglie infatti di
adottare come prospettiva la storia culturale, sulla scia dei più
aggiornati contributi internazionali. Facendo ricorso a un ventaglio
amplissimo di fonti, dai giornali alle memorie, dalle fotografie alle
cartoline illustrate, l’autore mette a fuoco tre aspetti essenziali:
l’attesa della guerra e la mobilitazione totale nei mesi e anni
precedenti il 1915; l’esperienza del fronte così come è stata raccontata
dai combattenti in memorie e diari e come è stata interpretata e
reinventata da giornali, riviste, film; infine il peso della guerra sul
dopo, dal culto dei caduti ai monumenti, alla costruzione del mito.
Marco Mondini, normalista, è
ricercatore nell’Istituto storico italo-germanico di Trento e insegna
Storia contemporanea nell’Università di Padova. Tra i suoi libri: «La
politica delle armi. Il ruolo dell’esercito nell’avvento del fascismo»
(Laterza, 2006), «Alpini. Parole e immagini di un mito guerriero»
(Laterza, 2008), «Generazioni intellettuali» (Edizioni della Normale,
2010); ha inoltre curato con M. Rospocher, «Narrating War. Modern and
Contemporary Perspectives» (Il Mulino/Duncker & Humblot, 2013).
Il fronte labirinticoImmaginari bellici. Il primo conflitto mondiale e la nascita della pedagogia di massa fino alla palingenesi sociale nel libro «La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-1918» di Marco Mondini
Claudio Vercelli, il Manifesto 26.9.2014
Le guerre sono fatte di sangue e di parole, di macerie e di discorsi, di eventi e di raffigurazioni, di storie e di miti. Distinguere la materialità dei fatti dalla loro resa in termini d’immaginazione comune, tanto più quando tutto si è consumato, e per sempre, non è cosa facile: le due cose si alimentano vicendevolmente, così come la Grande guerra ha abbondantemente dimostrato. L’intervento in essa non è stato solo dei corpi, quelli delle decine di milioni di uomini che furono mobilitati e, in non poca parte, straziati, così come delle popolazioni civili che vissero un lunghissimo regime di coercizione, ma anche delle menti e, quindi delle fantasie.
L’immaginario collettivo ne risultò quindi definitivamente segnato. Prima di tutto perché la dimensione continentale dei combattimenti, la loro ossessiva ripetitività, il fatto che il conflitto debordasse da subito anche in altre regioni, diverse da quelle europee, oltre all’essere come una gigantesca spugna, che fagocitava combattenti da una grande parte del mondo, per la prima volta coniugò il termine «modernità» con apocalisse e barbarie generalizzata. Di fatto segnò per molti il passaggio dalla visione personalistica, localistica e circolare dell’esistenza ad una sua esperienza tellurica e nel medesimo tempo labirintica, fondata sullo stravolgimento dei sensi e della concezione di sé.
La «nazione condivisa»Morirono i combattenti ma morì anche l’idea che lo sviluppo umano fosse il prodotto di un processo progressivo, verso il meglio. Poi perché, all’interno di uno scenario gigantesco e, nel medesimo tempo, angosciante, l’intervento degli apparati della comunicazione, dalla propaganda fino alle forme più suadenti, diffuse e incontrollabili dell’informazione collettiva, fu un fatto dirimente, che concorse a determinare aspetti degli stessi andamenti bellici.
Per più versi, la Prima guerra mondiale venne combattuta contemporaneamente su molteplici fronti, uno dei quali, di primaria grandezza, era quello della costruzione di un immaginario bellico condiviso. La stessa storiografia, a distanza di tempo dai fatti, nel ricostruirli non è sfuggita alle logiche sottese ad un impianto dove la necessità di garantire la coerenza ad una cornice ideologica preesistente ha frequentemente fatto premio su altri ordini di priorità.
Se non altro perché la memoria della guerra italiana del 1915–1918 scontò da subito il sequestro che di essa ne avevano fatto prima il nazionalismo e quindi il regime fascista (il conflitto della «nazione proletaria», la «trincerocrazia», la «vittoria mutilata»), per poi subire la versione consensualista dominante nella prima stagione repubblicana (dove tornavano i temi della cosiddetta «quarta guerra d’indipendenza», del lascito risorgimentale e della concordia nazionale). Apologie che sarebbero state messe infine in scacco dalla ricerca storica nata negli anni della contestazione, basata sul ribaltamento dei precedenti paradigmi e sulla costruzione di una contronarrazione, orientata dal punto di vista delle classi subalterne, tanto efficace quanto non priva di ingenuità e semplificazioni.
Di queste stagioni ideologiche, depositarie, sia pure a distanza di decenni, e ognuna a suo modo, di diverse mitologie, certune belliciste altre pacifiste, che si erano accompagnate ai combattimenti stessi e che poi si sono ripetute nel corso del tempo, oggi, nella ricerca scientifica, non è forse rimasto molto. Come poco permane dello sguardo straniero sulla guerra italiana, sospeso tra superficiale giudizio nel merito della presunta marginalità del nostro teatro militare e pregiudizio preventivo sull’operato italiano.
Questioni, quelle storiche e storiografiche, che Marco Mondini, nel suo robusto studio su La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914–1918 (il Mulino, Bologna 2014, pp. 458, euro 28), affronta di petto. In un volume che per la sua interna costruzione presenta molte analogie con la bella ricostruzione della lotta di Liberazione firmata una decina d’anni fa da Santo Peli con La Resistenza in Italia. Mondini, docente di storia contemporanea a Padova, ricercatore presso l’Istituto storico italo-germanico di Trento e studioso del fenomeno bellico e del suo impatto sugli equilibri politici come sulla società civile, da tempo si cimenta con questi ordini di problemi.
Partendo dai repertori, falsati e fuorvianti, di una guerra a lungo consegnata ai paesaggi bucolici – quelli delle montagne — , ossia ad «uno sguardo turistico sugli eventi», così come ad una debordante retorica del «sacrificio», due immagini per nulla antitetiche, anzi per più aspetti complementari, il volume destruttura e poi ricostruisce la complessa macchina della mitologia bellica italiana attraverso il rapporto tra narrazione in presa diretta, nelle sue infinite forme (diari, resoconti ufficiali, documentazione individuale, testimonianze), e riscontri fattuali. Nel presupposto che l’una, la narrazione, e l’altra, il dato oggettivo, siano spesso inestricabili poiché intrecciati. Il punto di incontro è la questione capitale della costruzione del consenso di massa, allora come oggi, intorno a imprese che per la loro durata, per l’impegno e le risorse richieste, non avrebbero avuto seguito se non avessero ottenuto un qualche assenso di quella parte della collettività che da subito fu chiamata a sopportarne il peso e gli effetti concreti.
La guerra esordì non come fatto ineluttabile bensì in quanto opportunità partecipativa. Che poi si sia trasformata ben presto in un dispositivo esasperante, un giogo mortuario, nulla toglie all’aspetto che di essa fu da molti accolto, quello dell’occasione di cambiare le carte in tavola, rompendo gli equilibri «borghesi». Il minuzioso lavoro di Mondini diventa quindi anche incursione nell’osceno di massa. Ovvero, nei criteri, nei modi, nei passaggi, nei transiti, negli stessi interstizi che disintegrano la divisione tra il privato delle individualità e il pubblico della mobilitazione collettiva. Laddove l’oscenità indica soprattutto l’esaltazione, attraverso la martirologia, del corpo come campo stesso della battaglia, che porta su di sé i segni del coraggio come della rovina, dell’eroismo come della paura, della immedesimazione come del rigetto.
Dall’idea alla realtàL’autore è molto distante sia dal «caporettismo» degli anni Settanta (quello che leggeva la guerra come mera sopraffazione ai danni delle classi subalterne da parte di un esercito guidato da generali sanguinari, felloni e infingardi) sia dal neopatriottismo oggi in voga, di cui l’attuale presidente della Repubblica ne è l’espressione più netta, che mischia retorici richiami all’Europa, il persistente monito sulla presunta incompiutezza dell’Italia come nazione e la deferenza obbligata nei confronti del «sacrificio» di un’intera generazione. Poiché l’uno e l’altro approccio sono parte integrante della stessa mitologia della guerra, che essa sia svolta in chiave apologetica o critica.
Nella Grande guerra l’Italia entrò, durante il 1915, avendo avuto il tempo per predisporsi, dopo che essa si era trasformata da conflitto di sfondamento e di movimentazione a confronto statico. Di fatto, la popolazione aveva potuto metabolizzarne una qualche idea, benché fosse molto lontana dalla concretezza del fronte, come invece poi sarebbe successo all’atto pratico. La guerra, ovvero la sua immagine traslata, celebrata come il Pantheon delle virtù, era peraltro parte integrante nella considerazione di sé di una parte della collettività nazionale quanto meno di quei gruppi emergenti che andavano affermandosi sulla scena sociale, politica e culturale.
Marcava non solo l’egemonia delle vecchie classi dirigenti ma anche il ruolo di un ceto medio che doveva prendere forma e che nell’esperienza bellica, prima idealizzata come avventura poi condivisa come condizione esistenziale, avrebbe trovato un vero e proprio calco antropologico. Ricondurla ad un semplice moto nazionalistico risulta quindi, per molti aspetti, riduttivo o comunque non sufficiente. L’immaginario di società fortemente polarizzate sul piano delle divisioni sociali, ancora lontane da un unificazione culturale e linguistica, che sarebbe sopravvenuta solo molti decenni dopo, anche grazie alla diffusione dei modelli di consumo, trovava allora nelle mitologie guerriere come nella retorica dell’atto dovuto, entrambe variamente declinate, una sorta di punto di coagulo e di sintesi.
Una rappresentazione collettivaIl perimetro della «patria» corrispondeva quindi con quello del ricorso alle armi. Quest’ultimo, a sua volta, si identificava con la partecipazione ad uno sforzo collettivo che, nel rimando alla forza legittima e legale, perché espressione della politica di potenza dello Stato contro un qualche «nemico» esterno, raggiungeva il suo compimento. Il lascito napoleonico dell’esercito di coscritti, dove si era cittadini se si marciava a schiere compatte, aveva attraversato tutto l’Ottocento e si rifletteva ora, nella cognizione di se stessi come parte di una totalità.
L’emancipazione possibile non era quella che passava attraverso l’eguaglianza sociale ma per il tramite dell’uniformità di un esercito che avrebbe celebrato, sulla punta delle baionette, la «guerra liberatrice» e la «nazione redenta». La vera palingenesi sociale corrispondeva al lavacro di sangue, di cui il Risorgimento, in una sorta di falsa linea di continuità, costituiva ideologicamente la premessa. Da ciò, anche, la guerra come affare mediatico oltre che come evento materiale. Un dato, questo, che già nella campagna di Libia era venuto affermandosi, manipolando il rapporto tra fatti e raffigurazioni laddove i grandi gruppi editoriali avevano svolto un ruolo fondamentale nella mobilitazione degli «spiriti» collettivi.
Anche da questi aspetti emerge, quindi, il carattere di pedagogia di massa che la Grande guerra assunse ben presto, superando gli oramai angusti spazi della caserma. Il processo di nazionalizzazione delle masse in Italia trovò un polo volutamente debole nella scuola elementare obbligatoria ed uno invece forte nella mobilitazione collettiva che con il 1915 segnò una parte significativa della collettività. Che il fascismo ne avesse poi raccolto i frutti, portando a compimento, a modo suo, l’idea autoritaria della nazione, era quindi fatto non obbligato ma neanche così casuale. In una linea di continuità che sussiste a tutt’oggi, tra le pieghe di un comune sentire, che non riesce a concepire la cittadinanza se non in chiave di sudditanza.
La voce di chi combattè sul campo
Marco
Mondini fa parlare i militari: emerge un quadro delle esasperazioni
sociali, delle miopie politiche e delle loro ricadute sulla societàdi Mauro Campus Il Sole Domenica 12.10.14
Nell'immaginario popolare, la Grande Guerra italiana è il momento in cui
"i voti della nazione" sarebbero stati esauditi. E anche se questa
communis opinio ha a che fare con la mistica con la quale i fatti furono
presentati dal governo del tempo, ciò non scalfisce la dimensione di
"svolta" generalmente attribuita alla Prima guerra mondiale. Svolta
immaginata o reale, ma pur sempre svolta in termini di peso che il Regno
d'Italia ambiva a conquistare nella politica internazionale, svolta
nell'immagine di nazione coesa che la guerra doveva accreditare, svolta
nell'organizzazione e nell'affidabilità di una macchina bellica che fino
ad allora aveva dato pessima prova di sé. Ma il topos di una cesura
storica propiziatrice della sparizione dalla faccia dell'Europa degli
imperi Austro-Ungarico e Ottomano, quelli che Mazzini chiamava "i due
Mostri", e quindi dell'attuazione delle idealità risorgimentali,
continua a essere una certezza nello schema narrativo della Storia
d'Italia.
Ciò che è meno sviluppato nella narrazione abituale è quanto quel
conflitto accelerò il passaggio a una modernità i cui tratti rimasero la
quinta del XX secolo italiano. Non la modernità delle ambizioni da
grande potenza rappresentata dal mitizzato impegno di una nazione in
armi, ma una modernità minata da una politica incapace di assumere nel
suo orizzonte un'idea di Paese e del suo posto nel mondo. Dopo il 1918
tutti concordavano che le cose non sarebbero state più le stesse,
sebbene la forma che il mondo postbellico assunse fosse concepita e
criticata al l'ombra di quello che svaniva con la guerra. E se l'Italia
occupò quel posto al tavolo che considerava quasi un diritto naturale,
ancora una volta le ambiguità e gli infiniti tatticismi di una politica
logorata, che applicava a un periodo di crisi profonda della storia
europea criteri superati, vanificarono parte di quello sforzo unitario
magnificato dalla retorica e che così nella retorica affondò. A
complicare la gestione di una transizione difficile non era solo
l'affollarsi di nuovi protagonisti, ma l'affermarsi di un nuovo contesto
internazionale per molti versi poco, o per niente, desiderato
dall'establishment italiano. Non erano solo degli attori fino allora
considerati (a torto) marginali, ma questioni sistemiche immediatamente
intuibili, come il dissolversi degli elementi di stabilità al centro del
continente, la pervasività del complesso industriale nel l'orientare le
scelte belliche, la sensazione diffusa di un'incombente Finis Europae.
Quest'universo di suggestioni, completato dal mutamento del discorso
pubblico, dall'alterazione dell'asse di potere, dalla riorganizzazione
sociale e geografica che scaturì dal conflitto e dal disordine che ciò
portò nel sistema internazionale, contribuiva a rafforzare la certezza
di chi credeva che intorno al 1910 la condizione umana fosse
irreversibilmente mutata.
Muovendosi con sicurezza in questo immane complesso di problemi, Marco
Mondini ricostruisce nel suo ultimo libro le ragioni, i modi, le
strategie della Grande guerra italiana, e lo fa attraverso un montaggio
che allinea tutti i protagonisti politici, intellettuali e militari di
un quadriennio fondamentale. L'impianto narrativo che l'autore assicura a
una vicenda così determinante della vita nazionale fornisce molti
spunti di riflessione inediti, e lo fa in maniera distesa, con una
scrittura punteggiata di una messe di riferimenti al dibattito europeo
dell'epoca che sono, da soli, l'asse portante e la ragione sufficiente
di una ricerca innovativa. È forse questo il maggior contributo di un
libro che, traducendo in una dimensione accessibile un ventennio di
studi, contribuisce a smantellare parte dei luoghi comuni di cui ogni
discorso sull'Italia della Grande Guerra si nutre specie nell'anno del
centenario.
Il volume di Mondini non è dedicato a una piana analisi cronologica
degli eventi o a un esame dei problemi specifici delle fasi della guerra
italiana e, se non mancano neppure esaurienti ricostruzioni dei
problemi che informarono le scelte di una classe politica esausta, ciò
avviene per chiarire i più generali sviluppi e le ricadute sociali della
vicenda bellica. Questo perché, per ordire la sua narrazione, l'autore
dà ampio spazio alle basi materiali e morali su cui le decisioni
belliche furono assunte; esamina i miti a cui si fece ricorso per
coagulare consenso; spiega attraverso un uso intelligente della
memorialistica come la guerra fu subita da chi la combatté. E,
attraverso un'analisi delle forze e dei sentimenti che il conflitto
mobilitò, il libro descrive le passioni e gli affetti, le idee e le
ideologie, la situazione politica e il sentire degli uomini. Il
risultato è la costruzione di un'interpretazione persuasiva della Grande
Guerra, capace di collocare nella giusta luce l'importanza del fronte
italiano nel teatro europeo, di valutare con obiettività il peso del
sacrificio umano che fu pagato dalla Nazione, e, quindi, di rimettere
ordine nel mare di semplificazioni che tempestano la storiografia degli
anniversari. Così, per descrivere i tre passaggi in cui l'autore divide
il quadriennio (partire, raccontare, tornare), a parlare sono i
protagonisti, soprattutto i militari, che la guerra la fecero davvero e
che si trovarono a gestire il naufragio umano e politico della "crisi
della vittoria". Ne emerge un quadro nitido del sentimento nazionale e
delle esasperazioni sociali che la guerra generò, specie nell'incapacità
di unire e includere. Un ritratto impietoso delle miopie politiche e
delle loro immediate ricadute sociali; la rappresentazione di come certe
questioni di politica estera siano un elemento in grado di turbare
profondamente l'ordine interno di uno Stato e, in definitiva, nel caso
dell'Italia del 1919, la descrizione di un ingranaggio spezzato, di uno
Stato divenuto incapace di funzionare proprio nel momento del pubblico
riconoscimento dell'anelato status di Potenza.
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