venerdì 26 settembre 2014

La mobilitazione della società civile in Italia durante la Prima guerra mondiale

Copertina La guerra italiana
E' noto che per Juenger, e ancor prima per Moeller, la Germania perse la guerra per l'incapacità di realizzare una mobilitazione totale, laddove questo sforzo era riuscito alle potenze "democratiche" in virtù del loro universalismo. Per quanto riguarda l'Italia, questo obiettivo non si vedeva nemmeno con il cannocchiale [SGA].

Marco Mondini: La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-1918,  il Mulino

Risvolto

«La maggior parte di coloro che vennero travolti dalla guerra, fossero soldati al fronte o donne mobilitate nelle retrovie, fece la propria parte fino in fondo. Come ciò sia stato possibile, è uno dei quesiti a cui ho tentato di dare una risposta. Perché, dopo anni di combattimenti e morte e dopo una vittoria così duramente pagata, le emozioni dominanti in Italia siano state non l’orgoglio bensì la disillusione e il senso di fallimento, è un altro».
Gli italiani in guerra in un racconto nuovo e avvincente. Nel panorama delle opere che guardano all’esperienza dell’Italia nel primo conflitto mondiale questo libro sceglie infatti di adottare come prospettiva la storia culturale, sulla scia dei più aggiornati contributi internazionali. Facendo ricorso a un ventaglio amplissimo di fonti, dai giornali alle memorie, dalle fotografie alle cartoline illustrate, l’autore mette a fuoco tre aspetti essenziali: l’attesa della guerra e la mobilitazione totale nei mesi e anni precedenti il 1915; l’esperienza del fronte così come è stata raccontata dai combattenti in memorie e diari e come è stata interpretata e reinventata da giornali, riviste, film; infine il peso della guerra sul dopo, dal culto dei caduti ai monumenti, alla costruzione del mito.

Marco Mondini
, normalista, è ricercatore nell’Istituto storico italo-germanico di Trento e insegna Storia contemporanea nell’Università di Padova. Tra i suoi libri: «La politica delle armi. Il ruolo dell’esercito nell’avvento del fascismo» (Laterza, 2006), «Alpini. Parole e immagini di un mito guerriero» (Laterza, 2008), «Generazioni intellettuali» (Edizioni della Normale, 2010); ha inoltre curato con M. Rospocher, «Narrating War. Modern and Contemporary Perspectives» (Il Mulino/Duncker & Humblot, 2013).


Il fronte labirinticoImmaginari bellici. Il primo conflitto mondiale e la nascita della pedagogia di massa fino alla palingenesi sociale nel libro «La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-1918» di Marco Mondini

Claudio Vercelli, il Manifesto 26.9.2014 

Le guerre sono fatte di san­gue e di parole, di mace­rie e di discorsi, di eventi e di raf­fi­gu­ra­zioni, di sto­rie e di miti. Distin­guere la mate­ria­lità dei fatti dalla loro resa in ter­mini d’immaginazione comune, tanto più quando tutto si è con­su­mato, e per sem­pre, non è cosa facile: le due cose si ali­men­tano vicen­de­vol­mente, così come la Grande guerra ha abbon­dan­te­mente dimo­strato. L’intervento in essa non è stato solo dei corpi, quelli delle decine di milioni di uomini che furono mobi­li­tati e, in non poca parte, stra­ziati, così come delle popo­la­zioni civili che vis­sero un lun­ghis­simo regime di coer­ci­zione, ma anche delle menti e, quindi delle fan­ta­sie.
L’immaginario col­let­tivo ne risultò quindi defi­ni­ti­va­mente segnato. Prima di tutto per­ché la dimen­sione con­ti­nen­tale dei com­bat­ti­menti, la loro osses­siva ripe­ti­ti­vità, il fatto che il con­flitto debor­dasse da subito anche in altre regioni, diverse da quelle euro­pee, oltre all’essere come una gigan­te­sca spu­gna, che fago­ci­tava com­bat­tenti da una grande parte del mondo, per la prima volta coniugò il ter­mine «moder­nità» con apo­ca­lisse e bar­ba­rie gene­ra­liz­zata. Di fatto segnò per molti il pas­sag­gio dalla visione per­so­na­li­stica, loca­li­stica e cir­co­lare dell’esistenza ad una sua espe­rienza tel­lu­rica e nel mede­simo tempo labi­rin­tica, fon­data sullo stra­vol­gi­mento dei sensi e della con­ce­zione di sé. 

La «nazione condivisa»Mori­rono i com­bat­tenti ma morì anche l’idea che lo svi­luppo umano fosse il pro­dotto di un pro­cesso pro­gres­sivo, verso il meglio. Poi per­ché, all’interno di uno sce­na­rio gigan­te­sco e, nel mede­simo tempo, ango­sciante, l’intervento degli appa­rati della comu­ni­ca­zione, dalla pro­pa­ganda fino alle forme più sua­denti, dif­fuse e incon­trol­la­bili dell’informazione col­let­tiva, fu un fatto diri­mente, che con­corse a deter­mi­nare aspetti degli stessi anda­menti bel­lici.

Per più versi, la Prima guerra mon­diale venne com­bat­tuta con­tem­po­ra­nea­mente su mol­te­plici fronti, uno dei quali, di pri­ma­ria gran­dezza, era quello della costru­zione di un imma­gi­na­rio bel­lico con­di­viso. La stessa sto­rio­gra­fia, a distanza di tempo dai fatti, nel rico­struirli non è sfug­gita alle logi­che sot­tese ad un impianto dove la neces­sità di garan­tire la coe­renza ad una cor­nice ideo­lo­gica pre­e­si­stente ha fre­quen­te­mente fatto pre­mio su altri ordini di prio­rità.
Se non altro per­ché la memo­ria della guerra ita­liana del 1915–1918 scontò da subito il seque­stro che di essa ne ave­vano fatto prima il nazio­na­li­smo e quindi il regime fasci­sta (il con­flitto della «nazione pro­le­ta­ria», la «trin­ce­ro­cra­zia», la «vit­to­ria muti­lata»), per poi subire la ver­sione con­sen­sua­li­sta domi­nante nella prima sta­gione repub­bli­cana (dove tor­na­vano i temi della cosid­detta «quarta guerra d’indipendenza», del lascito risor­gi­men­tale e della con­cor­dia nazio­nale). Apo­lo­gie che sareb­bero state messe infine in scacco dalla ricerca sto­rica nata negli anni della con­te­sta­zione, basata sul ribal­ta­mento dei pre­ce­denti para­digmi e sulla costru­zione di una con­tro­nar­ra­zione, orien­tata dal punto di vista delle classi subal­terne, tanto effi­cace quanto non priva di inge­nuità e sem­pli­fi­ca­zioni.
Di que­ste sta­gioni ideo­lo­gi­che, depo­si­ta­rie, sia pure a distanza di decenni, e ognuna a suo modo, di diverse mito­lo­gie, cer­tune bel­li­ci­ste altre paci­fi­ste, che si erano accom­pa­gnate ai com­bat­ti­menti stessi e che poi si sono ripe­tute nel corso del tempo, oggi, nella ricerca scien­ti­fica, non è forse rima­sto molto. Come poco per­mane dello sguardo stra­niero sulla guerra ita­liana, sospeso tra super­fi­ciale giu­di­zio nel merito della pre­sunta mar­gi­na­lità del nostro tea­tro mili­tare e pre­giu­di­zio pre­ven­tivo sull’operato ita­liano.
Que­stioni, quelle sto­ri­che e sto­rio­gra­fi­che, che Marco Mon­dini, nel suo robu­sto stu­dio su La guerra ita­liana. Par­tire, rac­con­tare, tor­nare 1914–1918 (il Mulino, Bolo­gna 2014, pp. 458, euro 28), affronta di petto. In un volume che per la sua interna costru­zione pre­senta molte ana­lo­gie con la bella rico­stru­zione della lotta di Libe­ra­zione fir­mata una decina d’anni fa da Santo Peli con La Resi­stenza in Ita­lia. Mon­dini, docente di sto­ria con­tem­po­ra­nea a Padova, ricer­ca­tore presso l’Istituto sto­rico italo-germanico di Trento e stu­dioso del feno­meno bel­lico e del suo impatto sugli equi­li­bri poli­tici come sulla società civile, da tempo si cimenta con que­sti ordini di pro­blemi.
Par­tendo dai reper­tori, fal­sati e fuor­vianti, di una guerra a lungo con­se­gnata ai pae­saggi buco­lici – quelli delle mon­ta­gne — , ossia ad «uno sguardo turi­stico sugli eventi», così come ad una debor­dante reto­rica del «sacri­fi­cio», due imma­gini per nulla anti­te­ti­che, anzi per più aspetti com­ple­men­tari, il volume destrut­tura e poi rico­strui­sce la com­plessa mac­china della mito­lo­gia bel­lica ita­liana attra­verso il rap­porto tra nar­ra­zione in presa diretta, nelle sue infi­nite forme (diari, reso­conti uffi­ciali, docu­men­ta­zione indi­vi­duale, testi­mo­nianze), e riscon­tri fat­tuali. Nel pre­sup­po­sto che l’una, la nar­ra­zione, e l’altra, il dato ogget­tivo, siano spesso ine­stri­ca­bili poi­ché intrec­ciati. Il punto di incon­tro è la que­stione capi­tale della costru­zione del con­senso di massa, allora come oggi, intorno a imprese che per la loro durata, per l’impegno e le risorse richie­ste, non avreb­bero avuto seguito se non aves­sero otte­nuto un qual­che assenso di quella parte della col­let­ti­vità che da subito fu chia­mata a sop­por­tarne il peso e gli effetti con­creti.
La guerra esordì non come fatto ine­lut­ta­bile bensì in quanto oppor­tu­nità par­te­ci­pa­tiva. Che poi si sia tra­sfor­mata ben pre­sto in un dispo­si­tivo esa­spe­rante, un giogo mor­tua­rio, nulla toglie all’aspetto che di essa fu da molti accolto, quello dell’occasione di cam­biare le carte in tavola, rom­pendo gli equi­li­bri «bor­ghesi». Il minu­zioso lavoro di Mon­dini diventa quindi anche incur­sione nell’osceno di massa. Ovvero, nei cri­teri, nei modi, nei pas­saggi, nei tran­siti, negli stessi inter­stizi che disin­te­grano la divi­sione tra il pri­vato delle indi­vi­dua­lità e il pub­blico della mobi­li­ta­zione col­let­tiva. Lad­dove l’oscenità indica soprat­tutto l’esaltazione, attra­verso la mar­ti­ro­lo­gia, del corpo come campo stesso della bat­ta­glia, che porta su di sé i segni del corag­gio come della rovina, dell’eroismo come della paura, della imme­de­si­ma­zione come del rigetto. 

Dall’idea alla realtàL’autore è molto distante sia dal «capo­ret­ti­smo» degli anni Set­tanta (quello che leg­geva la guerra come mera sopraf­fa­zione ai danni delle classi subal­terne da parte di un eser­cito gui­dato da gene­rali san­gui­nari, fel­loni e infin­gardi) sia dal neo­pa­triot­ti­smo oggi in voga, di cui l’attuale pre­si­dente della Repub­blica ne è l’espressione più netta, che mischia reto­rici richiami all’Europa, il per­si­stente monito sulla pre­sunta incom­piu­tezza dell’Italia come nazione e la defe­renza obbli­gata nei con­fronti del «sacri­fi­cio» di un’intera gene­ra­zione. Poi­ché l’uno e l’altro approc­cio sono parte inte­grante della stessa mito­lo­gia della guerra, che essa sia svolta in chiave apo­lo­ge­tica o cri­tica.

Nella Grande guerra l’Italia entrò, durante il 1915, avendo avuto il tempo per pre­di­sporsi, dopo che essa si era tra­sfor­mata da con­flitto di sfon­da­mento e di movi­men­ta­zione a con­fronto sta­tico. Di fatto, la popo­la­zione aveva potuto meta­bo­liz­zarne una qual­che idea, ben­ché fosse molto lon­tana dalla con­cre­tezza del fronte, come invece poi sarebbe suc­cesso all’atto pra­tico. La guerra, ovvero la sua imma­gine tra­slata, cele­brata come il Pan­theon delle virtù, era peral­tro parte inte­grante nella con­si­de­ra­zione di sé di una parte della col­let­ti­vità nazio­nale quanto meno di quei gruppi emer­genti che anda­vano affer­man­dosi sulla scena sociale, poli­tica e cul­tu­rale.
Mar­cava non solo l’egemonia delle vec­chie classi diri­genti ma anche il ruolo di un ceto medio che doveva pren­dere forma e che nell’esperienza bel­lica, prima idea­liz­zata come avven­tura poi con­di­visa come con­di­zione esi­sten­ziale, avrebbe tro­vato un vero e pro­prio calco antro­po­lo­gico. Ricon­durla ad un sem­plice moto nazio­na­li­stico risulta quindi, per molti aspetti, ridut­tivo o comun­que non suf­fi­ciente. L’immaginario di società for­te­mente pola­riz­zate sul piano delle divi­sioni sociali, ancora lon­tane da un uni­fi­ca­zione cul­tu­rale e lin­gui­stica, che sarebbe soprav­ve­nuta solo molti decenni dopo, anche gra­zie alla dif­fu­sione dei modelli di con­sumo, tro­vava allora nelle mito­lo­gie guer­riere come nella reto­rica dell’atto dovuto, entrambe varia­mente decli­nate, una sorta di punto di coa­gulo e di sintesi. 

Una rap­pre­sen­ta­zione collettivaIl peri­me­tro della «patria» cor­ri­spon­deva quindi con quello del ricorso alle armi. Quest’ultimo, a sua volta, si iden­ti­fi­cava con la par­te­ci­pa­zione ad uno sforzo col­let­tivo che, nel rimando alla forza legit­tima e legale, per­ché espres­sione della poli­tica di potenza dello Stato con­tro un qual­che «nemico» esterno, rag­giun­geva il suo com­pi­mento. Il lascito napo­leo­nico dell’esercito di coscritti, dove si era cit­ta­dini se si mar­ciava a schiere com­patte, aveva attra­ver­sato tutto l’Ottocento e si riflet­teva ora, nella cogni­zione di se stessi come parte di una tota­lità.

L’emancipazione pos­si­bile non era quella che pas­sava attra­verso l’eguaglianza sociale ma per il tra­mite dell’uniformità di un eser­cito che avrebbe cele­brato, sulla punta delle baio­nette, la «guerra libe­ra­trice» e la «nazione redenta». La vera palin­ge­nesi sociale cor­ri­spon­deva al lava­cro di san­gue, di cui il Risor­gi­mento, in una sorta di falsa linea di con­ti­nuità, costi­tuiva ideo­lo­gi­ca­mente la pre­messa. Da ciò, anche, la guerra come affare media­tico oltre che come evento mate­riale. Un dato, que­sto, che già nella cam­pa­gna di Libia era venuto affer­man­dosi, mani­po­lando il rap­porto tra fatti e raf­fi­gu­ra­zioni lad­dove i grandi gruppi edi­to­riali ave­vano svolto un ruolo fon­da­men­tale nella mobi­li­ta­zione degli «spi­riti» col­let­tivi.
Anche da que­sti aspetti emerge, quindi, il carat­tere di peda­go­gia di massa che la Grande guerra assunse ben pre­sto, supe­rando gli ora­mai angu­sti spazi della caserma. Il pro­cesso di nazio­na­liz­za­zione delle masse in Ita­lia trovò un polo volu­ta­mente debole nella scuola ele­men­tare obbli­ga­to­ria ed uno invece forte nella mobi­li­ta­zione col­let­tiva che con il 1915 segnò una parte signi­fi­ca­tiva della col­let­ti­vità. Che il fasci­smo ne avesse poi rac­colto i frutti, por­tando a com­pi­mento, a modo suo, l’idea auto­ri­ta­ria della nazione, era quindi fatto non obbli­gato ma nean­che così casuale. In una linea di con­ti­nuità che sus­si­ste a tutt’oggi, tra le pie­ghe di un comune sen­tire, che non rie­sce a con­ce­pire la cit­ta­di­nanza se non in chiave di sudditanza.


La voce di chi combattè sul campo
Marco Mondini fa parlare i militari: emerge un quadro delle esasperazioni sociali, delle miopie politiche e delle loro ricadute sulla societàdi Mauro Campus Il Sole Domenica 12.10.14

Nell'immaginario popolare, la Grande Guerra italiana è il momento in cui "i voti della nazione" sarebbero stati esauditi. E anche se questa communis opinio ha a che fare con la mistica con la quale i fatti furono presentati dal governo del tempo, ciò non scalfisce la dimensione di "svolta" generalmente attribuita alla Prima guerra mondiale. Svolta immaginata o reale, ma pur sempre svolta in termini di peso che il Regno d'Italia ambiva a conquistare nella politica internazionale, svolta nell'immagine di nazione coesa che la guerra doveva accreditare, svolta nell'organizzazione e nell'affidabilità di una macchina bellica che fino ad allora aveva dato pessima prova di sé. Ma il topos di una cesura storica propiziatrice della sparizione dalla faccia dell'Europa degli imperi Austro-Ungarico e Ottomano, quelli che Mazzini chiamava "i due Mostri", e quindi dell'attuazione delle idealità risorgimentali, continua a essere una certezza nello schema narrativo della Storia d'Italia.
Ciò che è meno sviluppato nella narrazione abituale è quanto quel conflitto accelerò il passaggio a una modernità i cui tratti rimasero la quinta del XX secolo italiano. Non la modernità delle ambizioni da grande potenza rappresentata dal mitizzato impegno di una nazione in armi, ma una modernità minata da una politica incapace di assumere nel suo orizzonte un'idea di Paese e del suo posto nel mondo. Dopo il 1918 tutti concordavano che le cose non sarebbero state più le stesse, sebbene la forma che il mondo postbellico assunse fosse concepita e criticata al l'ombra di quello che svaniva con la guerra. E se l'Italia occupò quel posto al tavolo che considerava quasi un diritto naturale, ancora una volta le ambiguità e gli infiniti tatticismi di una politica logorata, che applicava a un periodo di crisi profonda della storia europea criteri superati, vanificarono parte di quello sforzo unitario magnificato dalla retorica e che così nella retorica affondò. A complicare la gestione di una transizione difficile non era solo l'affollarsi di nuovi protagonisti, ma l'affermarsi di un nuovo contesto internazionale per molti versi poco, o per niente, desiderato dall'establishment italiano. Non erano solo degli attori fino allora considerati (a torto) marginali, ma questioni sistemiche immediatamente intuibili, come il dissolversi degli elementi di stabilità al centro del continente, la pervasività del complesso industriale nel l'orientare le scelte belliche, la sensazione diffusa di un'incombente Finis Europae. Quest'universo di suggestioni, completato dal mutamento del discorso pubblico, dall'alterazione dell'asse di potere, dalla riorganizzazione sociale e geografica che scaturì dal conflitto e dal disordine che ciò portò nel sistema internazionale, contribuiva a rafforzare la certezza di chi credeva che intorno al 1910 la condizione umana fosse irreversibilmente mutata.
Muovendosi con sicurezza in questo immane complesso di problemi, Marco Mondini ricostruisce nel suo ultimo libro le ragioni, i modi, le strategie della Grande guerra italiana, e lo fa attraverso un montaggio che allinea tutti i protagonisti politici, intellettuali e militari di un quadriennio fondamentale. L'impianto narrativo che l'autore assicura a una vicenda così determinante della vita nazionale fornisce molti spunti di riflessione inediti, e lo fa in maniera distesa, con una scrittura punteggiata di una messe di riferimenti al dibattito europeo dell'epoca che sono, da soli, l'asse portante e la ragione sufficiente di una ricerca innovativa. È forse questo il maggior contributo di un libro che, traducendo in una dimensione accessibile un ventennio di studi, contribuisce a smantellare parte dei luoghi comuni di cui ogni discorso sull'Italia della Grande Guerra si nutre specie nell'anno del centenario.
Il volume di Mondini non è dedicato a una piana analisi cronologica degli eventi o a un esame dei problemi specifici delle fasi della guerra italiana e, se non mancano neppure esaurienti ricostruzioni dei problemi che informarono le scelte di una classe politica esausta, ciò avviene per chiarire i più generali sviluppi e le ricadute sociali della vicenda bellica. Questo perché, per ordire la sua narrazione, l'autore dà ampio spazio alle basi materiali e morali su cui le decisioni belliche furono assunte; esamina i miti a cui si fece ricorso per coagulare consenso; spiega attraverso un uso intelligente della memorialistica come la guerra fu subita da chi la combatté. E, attraverso un'analisi delle forze e dei sentimenti che il conflitto mobilitò, il libro descrive le passioni e gli affetti, le idee e le ideologie, la situazione politica e il sentire degli uomini. Il risultato è la costruzione di un'interpretazione persuasiva della Grande Guerra, capace di collocare nella giusta luce l'importanza del fronte italiano nel teatro europeo, di valutare con obiettività il peso del sacrificio umano che fu pagato dalla Nazione, e, quindi, di rimettere ordine nel mare di semplificazioni che tempestano la storiografia degli anniversari. Così, per descrivere i tre passaggi in cui l'autore divide il quadriennio (partire, raccontare, tornare), a parlare sono i protagonisti, soprattutto i militari, che la guerra la fecero davvero e che si trovarono a gestire il naufragio umano e politico della "crisi della vittoria". Ne emerge un quadro nitido del sentimento nazionale e delle esasperazioni sociali che la guerra generò, specie nell'incapacità di unire e includere. Un ritratto impietoso delle miopie politiche e delle loro immediate ricadute sociali; la rappresentazione di come certe questioni di politica estera siano un elemento in grado di turbare profondamente l'ordine interno di uno Stato e, in definitiva, nel caso dell'Italia del 1919, la descrizione di un ingranaggio spezzato, di uno Stato divenuto incapace di funzionare proprio nel momento del pubblico riconoscimento dell'anelato status di Potenza.

Nessun commento: