martedì 23 settembre 2014

La mostra su Escher al Chiostro del Bramante


ESCHER


a cura di Marco Bussagli - Chiostro del Bramante, Roma, dal 20/09/2014 al 22/02/2015


Tra geometria e trompe-l'oeil. Roma riscopre il genio Escher

Al Chiostro del Bramante centocinquanta opere dell'inimitabile incisore olandese, a ripercorrere il suo caleidoscopio dove l'artista si confonde con l'intellettuale e con il matematico. Fino al 22 febbraio

di Valentina Bernabè Repubblica 22 settembre 2014

Escher  L’arte di immaginare mondi impossibili

Da oggi al Palazzo Reale di Milano 200 opere del più grande incisore del ’900

LEA MATTARELLA Restampa 24 6 2016
La fantasia al potere. O forse no. Non è facile definire l’arte di Maurits Cornelis Escher, maestro dell’incisione, nato nel 1898 e scomparso nel 1972, dopo aver dimostrato, e non soltanto a parole, che “lo stupore è il sale della terra”. Succede di tutto sui suoi fogli stampati: ci sono scale da cui non si può né scendere né salire, oggetti in continua trasformazione, superfici specchianti che dovrebbero essere sottoposte alla macchina della verità. La mostra aperta al Palazzo Reale di Milano fino al 22 gennaio 2017, curata da Marco Bussagli e Federico Giudiceandrea, è una vera e propria corsa nell’immaginazione più sfrenata, sottoposta però alle regole della scienza, della contemplazione della natura, della matematica e del rigore. Elementi che siamo abituati a pensare come inconciliabili
Escher ce li restituisce in un’inaspettata unità, sotto forma di visione. E per quanto sia autore di opere che sono diventate vere e proprie icone della contemporaneità, il maestro olandese sembra non esaurire mai le cartucce della sua arma della meraviglia. Così anche le 200 opere qui esposte divise in sei sezioni riescono a sorprendere in questo nuovo allestimento. E se le guardi pensando a quanto abbiano anticipato pensieri e immagini che sono alla base delle nuove tecnologie digitali, ti rendi anche conto del loro potenziale profetico. Tutto inizia con un viaggio in Italia, nel pieno rispetto della tradizione della pittura nordica. L’olandese Escher arriva da queste parti con i suoi genitori all’età di 22 anni. Allora è un allievo di Jesserun de Mesquita, maestro dell’art nouveau che gli insegnerà a usare la linea in maniera espressiva e a guardare la natura come qualcosa di vitale, in continua trasformazione. Finiti i suoi studi ad Harleem, rieccolo visitare di nuovo il Bel Paese, incantandosi di fronte alle 17 torri di San Gimignano che gli sembrano un sogno, qualcosa di irreale. È proprio in questo modo che interpreterà tutti i suoi paesaggi: in un perfetto equilibrio tra la precisione del dettaglio e l’atmosfera onirica.
Nel 1923, dopo il matrimonio con Jetta avvenuto a Viareggio, decide di trasferirsi a Roma. Tra gli artisti italiani che lo affascinano ci sono due irregolari come Francesco Borromini e Giovan Battista Piranesi. L’oscurità delle
Carceri
di quest’ultimo si rivela una fonte inesauribile di idee per le invenzioni prospettiche di Escher, per gli archi disegnati per unire, in storie d’amore impossibili, muri che si trovano su piani diversi, per la genesi di paradossi e enigmi. E non è un caso che alcune stampe di Piranesi troveranno poi un posto d’onore nello studio dell’artista a Chateau d’Oex in Svizzera, dove Escher si era trasferito nel 1936 a causa del clima sfavorevole dovuto all’inasprirsi del fascismo. Nel frattempo Escher farà in tempo a guardare con attenzione anche al Futurismo: le vertiginose prospettive dall’alto di certe sue vedute probabilmente risentono della suggestione dell’aeropittura e la ripetizione di una stessa immagine, nonché una certa astrazione di carattere geometrizzante, possono riferirsi alle esperienze di Giacomo Balla.
Fin dalle prime opere qui esposte si vede come il genio di Escher sia attento a tutto ciò che lo circonda: ne La divisione delle acque mostra la sua attenzione verso il mondo di Hokusai. Per comprendere a fondo la sua arte che interpreterà il mondo in termini di horror vacui è interessante sapere che c’è un momento in cui la sua fantasia si è confrontata con l’idea del vuoto giapponese. Guardando le sue opere successive è evidente come quello stesso vuoto sia diventato deliberatamente pieno: ci sono opere in cui crea forme anche nello spazio bianco tra un’immagine e l’altra. Mosaico del 1957 è un capolavoro di invenzione in questo senso: non c’è un centimetro in cui non ci sia un animale fantastico che si incastri con il vicino. Tra le vedute italiane ecco Siena dove non c’è spazio per il cielo, accanto al colonnato di San Pietro inquadrato in un’immagine notturna che pare un’opera di Roy Liechtenstein. Molti dei lavori di Escher possono essere letti come anticipazione di una chiave pop, semplificata, della visione. Eppure tutto è estremamente complicato. L’olandese è maestro nella sintesi di ciò che senza di lui sembrerebbe contraddittorio. Il Colosseo, per esempio, Escher lo interpreta come un luogo esotico dove, più che immaginare le lotte dei gladiatori, ti sembra di poter ambientare le storie di Sheherazade.
Un altro momento di passaggio è quello della seconda visita all’Alhambra a Granada, avvenuta nel 1936. Qui Escher si lascia sedurre dalla tassellatura delle decorazioni moresche e inizia un nuovo viaggio tra particolare e infinito. Le continue Metamorfosi a cui dà vita vedono uccelli trasformarsi in pesci o in pezzature di terra coltivata, scacchiere su cui troneggiano particolari di edifici esistenti come il Duomo di Atrani. Lo specchio è un altro gioco dell’illusione con cui l’artista olandese si confronta: ci sono sfere specchianti e pozzanghere d’acqua dove gli alberi sembrano crescere al contrario. Non c’è nulla di impossibile in questo mondo dominato da bianco e nero su cui ogni tanto fa capolino un rosso, un arancio, un verde. L’invenzione si traveste con gli abiti che gli ha tagliato addosso il più abile sarto del reale. Escher a questo mondo fantastico, a questo inganno della vista e della mente ma non del cuore, ti ci fa veramente credere. Perché per primo, molto probabilmente, ci ha creduto lui.

Escher  L’arte di immaginare mondi impossibiliDa oggi al Palazzo Reale di Milano 200 opere del più grande incisore del ’900LEA MATTARELLA Restampa 24 6 2016
La fantasia al potere. O forse no. Non è facile definire l’arte di Maurits Cornelis Escher, maestro dell’incisione, nato nel 1898 e scomparso nel 1972, dopo aver dimostrato, e non soltanto a parole, che “lo stupore è il sale della terra”. Succede di tutto sui suoi fogli stampati: ci sono scale da cui non si può né scendere né salire, oggetti in continua trasformazione, superfici specchianti che dovrebbero essere sottoposte alla macchina della verità. La mostra aperta al Palazzo Reale di Milano fino al 22 gennaio 2017, curata da Marco Bussagli e Federico Giudiceandrea, è una vera e propria corsa nell’immaginazione più sfrenata, sottoposta però alle regole della scienza, della contemplazione della natura, della matematica e del rigore. Elementi che siamo abituati a pensare come inconciliabili
Escher ce li restituisce in un’inaspettata unità, sotto forma di visione. E per quanto sia autore di opere che sono diventate vere e proprie icone della contemporaneità, il maestro olandese sembra non esaurire mai le cartucce della sua arma della meraviglia. Così anche le 200 opere qui esposte divise in sei sezioni riescono a sorprendere in questo nuovo allestimento. E se le guardi pensando a quanto abbiano anticipato pensieri e immagini che sono alla base delle nuove tecnologie digitali, ti rendi anche conto del loro potenziale profetico. Tutto inizia con un viaggio in Italia, nel pieno rispetto della tradizione della pittura nordica. L’olandese Escher arriva da queste parti con i suoi genitori all’età di 22 anni. Allora è un allievo di Jesserun de Mesquita, maestro dell’art nouveau che gli insegnerà a usare la linea in maniera espressiva e a guardare la natura come qualcosa di vitale, in continua trasformazione. Finiti i suoi studi ad Harleem, rieccolo visitare di nuovo il Bel Paese, incantandosi di fronte alle 17 torri di San Gimignano che gli sembrano un sogno, qualcosa di irreale. È proprio in questo modo che interpreterà tutti i suoi paesaggi: in un perfetto equilibrio tra la precisione del dettaglio e l’atmosfera onirica.
Nel 1923, dopo il matrimonio con Jetta avvenuto a Viareggio, decide di trasferirsi a Roma. Tra gli artisti italiani che lo affascinano ci sono due irregolari come Francesco Borromini e Giovan Battista Piranesi. L’oscurità delle
Carceri
di quest’ultimo si rivela una fonte inesauribile di idee per le invenzioni prospettiche di Escher, per gli archi disegnati per unire, in storie d’amore impossibili, muri che si trovano su piani diversi, per la genesi di paradossi e enigmi. E non è un caso che alcune stampe di Piranesi troveranno poi un posto d’onore nello studio dell’artista a Chateau d’Oex in Svizzera, dove Escher si era trasferito nel 1936 a causa del clima sfavorevole dovuto all’inasprirsi del fascismo. Nel frattempo Escher farà in tempo a guardare con attenzione anche al Futurismo: le vertiginose prospettive dall’alto di certe sue vedute probabilmente risentono della suggestione dell’aeropittura e la ripetizione di una stessa immagine, nonché una certa astrazione di carattere geometrizzante, possono riferirsi alle esperienze di Giacomo Balla.
Fin dalle prime opere qui esposte si vede come il genio di Escher sia attento a tutto ciò che lo circonda: ne La divisione delle acque mostra la sua attenzione verso il mondo di Hokusai. Per comprendere a fondo la sua arte che interpreterà il mondo in termini di horror vacui è interessante sapere che c’è un momento in cui la sua fantasia si è confrontata con l’idea del vuoto giapponese. Guardando le sue opere successive è evidente come quello stesso vuoto sia diventato deliberatamente pieno: ci sono opere in cui crea forme anche nello spazio bianco tra un’immagine e l’altra. Mosaico del 1957 è un capolavoro di invenzione in questo senso: non c’è un centimetro in cui non ci sia un animale fantastico che si incastri con il vicino. Tra le vedute italiane ecco Siena dove non c’è spazio per il cielo, accanto al colonnato di San Pietro inquadrato in un’immagine notturna che pare un’opera di Roy Liechtenstein. Molti dei lavori di Escher possono essere letti come anticipazione di una chiave pop, semplificata, della visione. Eppure tutto è estremamente complicato. L’olandese è maestro nella sintesi di ciò che senza di lui sembrerebbe contraddittorio. Il Colosseo, per esempio, Escher lo interpreta come un luogo esotico dove, più che immaginare le lotte dei gladiatori, ti sembra di poter ambientare le storie di Sheherazade.
Un altro momento di passaggio è quello della seconda visita all’Alhambra a Granada, avvenuta nel 1936. Qui Escher si lascia sedurre dalla tassellatura delle decorazioni moresche e inizia un nuovo viaggio tra particolare e infinito. Le continue Metamorfosi a cui dà vita vedono uccelli trasformarsi in pesci o in pezzature di terra coltivata, scacchiere su cui troneggiano particolari di edifici esistenti come il Duomo di Atrani. Lo specchio è un altro gioco dell’illusione con cui l’artista olandese si confronta: ci sono sfere specchianti e pozzanghere d’acqua dove gli alberi sembrano crescere al contrario. Non c’è nulla di impossibile in questo mondo dominato da bianco e nero su cui ogni tanto fa capolino un rosso, un arancio, un verde. L’invenzione si traveste con gli abiti che gli ha tagliato addosso il più abile sarto del reale. Escher a questo mondo fantastico, a questo inganno della vista e della mente ma non del cuore, ti ci fa veramente credere. Perché per primo, molto probabilmente, ci ha creduto lui.

La matematica nascosta dietro i capolavori
Il maestro olandese aveva un rapporto molto stretto con numeri e geometria che ispirarono le sue composizioni
PIERGIORGIO ODIFREDDI 24/6/2016
Molti avranno visto per la prima volta il nome dell’artista Maurits Cornelius Escher nel titolo del bestseller di Douglas Hofstadter Gödel, Escher, Bach (Adelphi, 1984), unito a quello di un logico e di un musicista, e si saranno domandati quale potesse essere la connessione tra discipline così distanti fra loro. Se l’erano domandato anche i matematici accorsi nel 1954 al Congresso Internazionale di Amsterdam, durante il quale furono esposte molte litografie a contenuto geometrico del grafico olandese, che catturarono immediatamente l’attenzione della comunità.
Se c’è infatti stato un artista che ha mostrato una sensibilità per le problematiche matematiche è stato proprio Escher, che agli inizi procedette solitario sul suo cammino, e dopo il 1954 poté beneficiare del contatto e delle suggestioni fornitegli dai matematici stessi. Da un lato Roger Penrose, autore a sua volta del bestseller interdisciplinare La mente nuova dell’imperatore (Rizzoli, 1992). E dall’altro lato Donald Coxeter, protagonista della biografia Il re dello spazio infinito (Rizzoli, 2006).
Prima del 1954 Escher si era interessato del problema della divisione regolare del piano, del quale disse: «Non so immaginare cosa la mia vita sarebbe stata senza di esso. Mi ci imbattei durante le mie peregrinazioni: vidi un alto muro, lo scalai con difficoltà e mi ritrovai in una giungla. Dopo essermi aperto la via con grande sforzo giunsi alla porta della matematica, da cui si dipartivano cammini in ogni direzione».
Uno di questi cammini era appunto il ricoprimento del piano mediante tasselli, come in un gigantesco puzzle. A percorrerlo erano già stati gli Arabi, producendo capolavori come le decorazioni astratte dell’Alhambra. Escher li studiò nel corso di due visite, nel 1922 e 1936, e aggiunse al modello una nuova dimensione figurativa che riempì i suoi disegni di figure animate, specialmente pesci e uccelli, che si incastravano fra loro nelle maniere più variopinte.
Dopo il 1954 Escher esplorò le geometrie non euclidee, dietro suggerimento di Coxeter. Ciò che lo attrasse a questo argomento fu il fatto che, mentre le tassellature del piano euclideo sono sempre incomplete, quelle del piano iperbolico possono essere complete perché ne esistono modelli finiti. Il risultato furono quattro famosi esempi, i Limiti del cerchio (1959), il terzo dei quali è un capolavoro le cui copie numerate sono battute nelle aste per cifre che arrivano al milione di dollari.
Ma furono soprattutto gli sviluppi seguiti al suo incontro con Penrose a fargli produrre le sue opere più conosciute, dopo che il matematico gli mostrò una serie di oggetti paradossali. Ad esempio, i cubi reversibili, già noti ai Romani e sfruttati poi in maniera sistematica da Victor Vasarely. Il triangolo impossibile con tre angoli retti, scoperto negli anni ’30 da Oscar Reutersvärd. La scala ambigua, che sembra di poter salire sia di sopra che di sotto. E la scala senza fine, che sembra di poter salire o scendere in cerchio all’infinito.
Elaborando questi paradossi visivi Escher costruì i mondi fantastici di Convesso e concavo (1955), Belvedere (1958), Salire e scendere (1960) e Cascata (1961), che sono poi stati riprodotti all’infinito in poster e magliette, tramutando il raffinato e misterioso Escher in un artista di culto e di consumo.

Incubi gotici e scale infinite. L'architetto dell'impossibile
Libero
Andate a vederla e perdetevi. Se lo scopo di una recensione su una mostra deve essere quello di scoraggiare o incoraggiare il lettore a visitarla, questo è un invito esplicito ad acquistare il biglietto per entrare a Palazzo Reale e immergervi nel fantastico mondo di Escher.
Perdetevi nelle sue oltre 200 opere come fa il ragazzo nella Galleria di Stampe (1957) intento a guardare una stampa in cui è rappresentato il porto de La Valletta nell’isola di Malta, esposta in una galleria. L’immagine si ingrandisce sotto i suoi occhi, aumenta le sue dimensioni a tal punto da uscire dalla sua cornice fino a confondersi con il paesaggio esterno alla stampa e alla galleria; la sensazione è quella di essere rinviati dall’interno all’esterno e dall’esterno all’interno, in una specie di moto perpetuo in cui i piani si mescolano e si intersecano tanto da non poter più capire dove finisca l’interno e dove cominci l’esterno, e viceversa. Perdetevi nelle Mani che disegnano (1948), in cui si vedono due mani ognuna della quali disegna l’altra, o nel famoso triangolo impossibile del matematico Roger Penrose, nel nastro di Moebius o nel cubo tenuto in mano dal ragazzo seduto alla base della villa, anch’essa impossibile, nella litografia Belvedere (1958), realizzabile sul foglio ma non nello spazio.
Il fascino di Escher non invecchia e oltrepassa il tempo e i luoghi: nella mostra appena inaugurata a Milano - una retrospettiva pressoché completa - viene raccontata l’evoluzione del suo percorso creativo caratterizzato da una linearità rarissima e quasi perfetta: dagli anni della formazione decisamente influenzati dalle risorse artistiche, paesaggistiche e architettoniche dell’Italia in cui visse dal 1923 al 1935, allo snodo rappresentato dalla visita al monumento moresco dell’Alhambra, dalle tassellature alle superfici riflettenti, dalle metamorfosi ai paradossi geometrici, i temi si affacciano e si sviluppano con regolarità, approfondendosi e complicandosi fin quasi all’esaurimento, per poi a volte ritornare, anche a distanza di anni, inseriti in nuovi contesti.
Il tutto a raccontare di un artista visionario, poliedrico e Dall’alto, in senso orario: «Relatività», a fianco «Mano con sfera riflettente», sotto l’autoritratto di Escher datato 1924 e «Vincolo d’unione» contemporaneo ante litteram, che guarda al mondo dei numeri, della geometria e della matematica per rappresentare mondi simultanei e infiniti in uno spazio finito; più vicino agli scienziati che agli artisti (celebre il suo rifiuto stizzito a Mick Jagger che aveva chiesto il permesso di usare un suo lavoro per la copertina di un disco); poco stimato dai contemporanei, ma capace di affascinare chiunque si sia trovato di fronte a una sua opera.
L’arte uscita dal torchio del suo studio si è trasformata in scatole da regalo, francobolli e biglietti d’auguri; è entrata nel mondo dei fumetti, è finita sulle copertine degli lp di noti gruppi come i Pink Floyd; le sue strutture impossibili sono usate per alludere a situazioni paradossali e per stupire con architetture, nella realtà, irrealizzabili. Incisioni come Relatività (o Case di Scale) si ritrovano nel turbinio di rampe che vedono di volta in volta prima Mickey Mouse e poi i Simpson perdersi nel mondo di Escher. Situazioni escheriane sono impiegate in clip pubblicitarie come quella dell’Audi del 2007 basata su stampe famose come Cascata. Mano con Sfera Riflettente, Altro mondo e Belvedere sono utilizzati da Illy Caffè in una pubblicità del 2006. Nel film fantastico Labyrinth del 1986 con David Bowie, prodotto da George Lucas, una scena è costruita sull’immagine di Case di Scale. Anche le celebri rampe fatate del Castello di Hogwarts nella saga di Harry Potter sono la trasposizione dinamica di quest’opera, ripresa perfino in una delle scene più strabilianti di Una notte al museo III e nella pubblicità di Sky.
La mostra a Palazzo Reale, che sarà visibile fino al 22 gennaio 2017, si articola in sei sezioni nelle quali si trovano anche esperimenti scientifici, giochi e approfondimenti didattici che consentono ai visitatori di ogni età di comprendere le invenzioni spiazzanti, le prospettive impossibili, gli universi apparentemente inconciliabili che si armonizzano in una dimensione artistica unica. All’interno del percorso anche una straordinaria installazione creata appositamente per la mostra di Palazzo Reale da Studio Azzurro: in una stanza quadrata scorrono, a diverse altezze, quattro rampe di scale. Scale sognanti è una poetica istallazione - che suggerisce l’opera di Escher Relatività - dove un universo profondo affonda sotto i piedi del visitatore. Tra le scale compaiono piccoli animali, sfuggiti alle metamorfosi escheriane. L’esperienza interattiva catapulta il visitatore in uno spazio popolato d’immagini, ma d’un tratto le scale si fermano e gli animali scompaiono. Cade dall’alto un oggetto, tocca una scala e rimbalza, cade più in basso e tocca un’altra rampa, rimbalza di nuovo finché scompare lontano nel vuoto. Una voce, intanto, racconta una brevissima storia. Quando l'oggetto ricompare fluttuando di fronte allo spettatore, ruota come il satellite di un pianeta, si deforma attraverso una lente e poi nulla: solo allora le scale riprendono il moto.

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