martedì 2 settembre 2014

L'ennesimo percorso dalla scienza all'utopia

Miguel Abensour Sens & TonkaMiguel Aben­sour: Uto­pi­ques II, L’homme est un ani­mal uto­pi­que, Sens&Tonka

Risvolto
L’objet de ce livre, c’est précisément de montrer que le foisonnement de l’utopie à travers les âges représente rien moins que la volonté toujours renouvelée de donner à l’émancipation un nouveau visage. Alors que les uns s’emploient à dissocier l’utopie de la politique, les autres à tout rabattre sur la politique, l’idée centrale des différentes écoles utopistes, l’idée d’Association, dément ces simplifications : elle est en réalité une idée politique qui rejoint l’inspiration de la vraie démocratie. 
Ainsi, l’utopie s’interroge sur les nouveaux moyens de réaliser l’idée d’émancipation et de dépasser ce qui se pose à chaque fois comme horizon indépassable.
Si bien que l’homme apparaît alors véritablement comme un animal utopique.

Miguel Abeansour e il fascino indiscreto dell’utopia
Saggi. «L’homme est un animal utopique» di Miguel Abeansour. Tra rivolta e legittimazione dello status quo. In questo scritto del filosofo francese l’utopia viene analizzata alla luce dei sentimenti ambivalenti che continua ad alimentare Mario Pezzella, 26.8.2014 il Manifesto

All’inizio di que­sto libro — Uto­pi­ques II, L’homme est un ani­mal uto­pi­que, Sens&Tonka — , che fa parte di una tri­lo­gia dedi­cata all’utopia, il filo­sofo fran­cese Miguel Aben­sour ricorda come que­sto ter­mine fosse caduto in discre­dito al ter­mine del secolo pas­sato: schiac­ciato da fine della sto­ria, deco­stru­zione e post­mo­derno, il pen­siero uto­pico era con­si­de­rato un rot­ta­ma­bile resi­duo. Tra l’altro, veniva accu­sato del misfatto di com­pli­cità con i fune­sti tota­li­ta­ri­smi del Nove­cento. Non erano forse uto­pie di tra­sfor­ma­zione glo­bale l’Uomo Nuovo della rivo­lu­zione sovie­tica, ma anche il Regno mil­le­na­rio del nazi­smo?
Aben­sour pro­pone una diversa con­ce­zione dell’utopia, basan­dosi soprat­tutto sul pen­siero di Emma­nuel Lévi­nas e Wal­ter Ben­ja­min e dan­done una inter­pre­ta­zione cri­tica e radi­cale. Di Ben­ja­min sono riprese soprat­tutto le con­si­de­ra­zioni con­te­nute nei due expo­sés intro­dut­tivi alla grande opera su Parigi, capi­tale del XIX secolo. In essi Ben­ja­min coglie il volto ambi­va­lente o se vogliamo ambi­guo dell’utopia, il suo oscil­lare tra fan­ta­sma­go­ria e rivolta, tra mito e risve­glio rivo­lu­zio­na­rio. La rice­zione di un’imma­gine di sogno, che appar­tenga al col­let­tivo di un’epoca o al sin­golo pen­sa­tore uto­pico come Fou­rier, è neces­sa­ria­mente com­plessa e richiede un inter­vento con­sa­pe­vole dell’interprete: «Invece di con­ge­dare o dis­sol­vere l’utopia, si tratta piut­to­sto della sua impe­gna­tiva sepa­ra­zione dalle imma­gini mitico-arcaiche, di libe­rarne infine le vir­tua­lità eman­ci­pa­trici, di assi­cu­rarne la sal­vezza… Il sogno preso tra due impulsi con­trari, il sonno o il risve­glio, si tra­sforma in momento, in scena anta­go­ni­sta». All’immagine di sogno del col­let­tivo e di un’epoca sto­rica occorre appli­care quella stessa disci­plina erme­neu­tica che Freud appli­cava ai sogni dell’individuo, con­si­de­rando le con­den­sa­zioni e gli spo­sta­menti che subi­sce il desi­de­rio cen­su­rato e rimosso: non però per abo­lire la dimen­sione del desi­de­rio, ma per tro­vare la via della sua pos­si­bile rea­liz­za­zione pra­tica e politica.
Un pro­dotto sociale

Con le imma­gini di sogno «la col­let­ti­vità cerca di eli­mi­nare e di tra­sfi­gu­rare l’imperfezione del pro­dotto sociale» (Ben­ja­min), cerca cioè di pre­sen­tare il pro­prio tempo come quello del com­pi­mento della sto­ria, in cui ogni con­flitto è ces­sato o ine­si­stente, come se nel pre­sente si attuasse la «sto­ria ori­gi­na­ria… una società senza classi». In ogni imma­gine di sogno si pre­senta dun­que una con­trad­di­zione costi­tu­tiva: da un lato esse con­ten­gono un nucleo uto­pico, che pro­mette la fine della sto­ria, del dolore e dello sfrut­ta­mento; dall’altro tale fine è solo imma­gi­na­ria e con­nessa a dop­pio filo al pro­gresso del capi­tale, che in realtà con­ti­nua a pro­durre astra­zione e sepa­ra­zione.
Il desi­de­rio della società senza classi e senza ser­vitù, di per sé rivo­lu­zio­na­rio, viene così pas­si­viz­zato e ricon­dotto a una dimen­sione mitica, in cui perde la sua carica cri­tica poten­ziale; risol­ven­dosi nella feli­cità feti­ci­sta pro­messa dalle merci, diviene fan­ta­sma­go­ria. Il capi­tale non potrebbe man­te­nere il suo potere solo con lo sfrut­ta­mento del lavoro e la vio­lenza costrit­tiva; deve rias­su­mere in sé la potenza dell’immagine di sogno, tra­sfor­marla in uto­pia del capi­tale. Que­sta include però un «lato infer­nale», l’eterna ripe­ti­zione della mede­sima man­canza, la con­ferma del non poter essere.
Se la verità della merce e del capi­tale è la cre­scente e pro­gres­siva astra­zione del valore di scam­bio e del tempo di lavoro domi­nato, ogni sin­golo feno­meno deve appa­rire come l’inverso: eter­na­mente asser­tivo e festivo. Il desi­de­rio è esso stesso «messo al lavoro» dal capi­tale e in tal modo la sua carica sov­ver­siva è inca­te­nata. La fan­ta­sma­go­ria opera la sua pas­si­viz­za­zione. Essa man­tiene, neu­tra­lizza e distorce un desi­de­rio poten­zial­mente ever­sivo della situa­zione data, deter­mina la sua «rivo­lu­zione pas­siva».
Con­tro di que­sta, il pas­sag­gio dall’immagine di sogno all’immagine dia­let­tica dis­so­cia ciò che il capi­tale ha fuso nella sua unità appa­rente, separa l’utopia con­creta – il pos­si­bile che non è ancora — dalla sua tra­sfi­gu­ra­zione fan­ta­sma­go­rica. Non esi­ste feno­meno sociale che non sia tagliato dalla con­trad­di­zione tra alte­rità e ripe­ti­zione, tra l’immagine di sogno spro­fon­data nella fasci­na­zione magica e il suo risve­glio ad imma­gine dia­let­tica, fra l’utopia che sup­pone la distru­zione del domi­nio e quella che con­ferma l’ordine esi­stente. Il risve­glio implica la cri­tica di tale fusio­na­lità fan­ta­sma­go­rica, la scis­sione degli ele­menti in con­flitto, la scom­po­si­zione dell’unità fit­ti­zia: e quindi la libe­ra­zione dell’impulso rivo­lu­zio­na­rio che restava addor­men­tato nell’immaginario.
Dif­fe­renze incolmabili

A que­sto lavoro cri­tico, Aben­sour asso­cia l’epo­ché feno­me­no­lo­gica pra­ti­cata da Emma­nuel Lévi­nas e la sua visione onto­lo­gica di un altri­menti che essere. In un senso insieme poli­tico e onto­lo­gico, que­sto ter­mine desi­gna una radi­cale alte­rità, e l’intenzione di tra­scen­dere a ogni costo la situa­zione data. Si tratta di un esodo dal domi­nio, che Lévi­nas ha indi­cato col ter­mine di eva­sione, e che nell’interpretazione di Aben­sour diventa una ine­lu­di­bile moda­lità esi­sten­ziale: «Carat­te­ri­stico dell’utopia non è tanto il pro­porre un ordine nuovo, quanto il pro­ce­dere a un dislo­ca­mento di ciò che è e che pare natu­rale, sotto il nome schiac­ciante di “reale”». Lo scarto uto­pico diviene un’interferenza pro­dut­tiva nell’ordine sim­bo­lico del capi­tale, una messa in que­stione del suo sta­tuto inal­te­ra­bile.
Certo, esi­ste una ten­denza mito­lo­giz­zante dell’utopia, che può per­dersi nella pre­fi­gu­ra­zione tota­li­ta­ria di un Uomo Nuovo. Ma esi­ste anche un’utopia dia­let­tica, che è piut­to­sto, ogni volta, la ripro­po­si­zione di una dif­fe­renza non col­ma­bile, di un non-luogo, che attiva l’immaginazione e il desi­de­rio. Nei tre libri dedi­cati all’utopia, Aben­sour ne riper­corre la sto­ria con­creta: Ben­ja­min viene posto a con­fronto con Tom­maso Moro, Leroux, Fou­rier, Saint-Simon, Mor­ris, che com­pa­iono come i crea­tori della sua tra­di­zione e delle sue pos­si­bili varianti.
L’epo­ché uto­pica di Lévi­nas tende secondo Aben­sour all’incontro con l’altro uomo «nella sua uni­cità di incom­pa­ra­bile», sospen­dendo ogni rela­zione con l’altro come «parte del mondo» e cioè come essere domi­nato e sog­getto a una rela­zione di padro­nanza. Que­sta ten­sione uto­pica verso l’altro è certo il cul­mine dell’intenzione etica di Lévi­nas, ma per Aben­sour essa ha anche un carat­tere inten­sa­mente poli­tico. È ciò che lo stesso Lévi­nas defi­ni­sce come prin­ci­pio an-archico, in senso let­te­rale: ten­ta­tivo di costruire un essere-in-comune con l’altro, senza il rife­ri­mento a un prin­ci­pio sim­bo­lico sovraor­di­nato e immutabile.

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