martedì 23 settembre 2014

Prima delle foibe: gli sloveni in Italia e il fascismo

Venuti a galla Scritti di metodo, di polemica, di critica
Boris Pahor: Venuti a galla. Scritti di metodo, di polemica, di critica, Diabasis, Parma, pagg. 210, € 16,00

Risvolto

Boris Pahor in questo libro ripercorre una storia che, oltre a essere autobiografica, è la storia di un popolo, di una lingua e dei suoi maggiori interpreti. Partendo dalle prime esperienze in lingua slovena fino ad arrivare ai grandi poeti e prosatori del Novecento, Pahor ci conduce per mano, tramite la poesia e la prosa slovena di quegli anni, attraverso i suoi ricordi dolorosi, dall’incendio delle sedi e delle organizzazioni della comunità slovena di Trieste nel 1920, all’internamento in vari campi di concentramento. L’amicizia con il grande pensatore-poeta Edvard Kocbek e con il pittore Augusto Cernigoj sono poi narrati con la leggerezza e la maestria che solo Pahor sa trasmetterci come nei suoi libri precedenti. Un libro che ci fa conoscere al meglio questo grande scrittore e anche un monito alle generazioni future sull’ignominia degli eccidi dei popoli e della loro cultura.    


Il fronte invisibile della guerra 

Nelle celebrazioni del primo conflitto andrebbe ricordata anche la popolazione slovena che viveva sul suolo divenuto italiano Dopo il ’18 il fascismo cancellò la loro identità 

21 set 2014 Il Sole 24 Ore Di Boris Pahor 


Non solo il centenario. C’è anche il vissuto. Avevo due anni nel 1915, quando la guerra arrivò a Trieste; la mia cittadinanza era allora austrungarica e rimase tale fino al 1918. In quel periodo contrassi la criminale spagnola, l’influenza così chiamata che, tra l’immenso numero delle sue vittime, portò via la mia sorellina di quattro anni, Marica. In più c’era la fame, più tremenda che durante il secondo conflitto mondiale. E poi l’atmosfera di morte, l’odore che ne impregnava l’aria. 
Lo scrittore francese, Albert Camus, nato anche lui nel 1913, scriveva di essere venuto al mondo col rullo dei tamburi. Ma da noi un anno più tardi si cominciarono a sentire nei muri le vibrazioni degli obici che l’artiglieria italiana scaricava in massa sul litorale carsico e sulle sue retrovie. Continuò nel Goriziano, nella valle della Soca, cioè dell’Isonzo, e delle sue montagne. Capimmo però l’avanzare dello scacchiere bellico solo più tardi, a scuola, durante le lezioni di storia. Il peso delle conseguenze, invece, lo sentimmo immediatamente sulla nostra pelle già nel primissimo dopo guerra, a partire dagli anni Venti. Fu come se fossimo capitati sotto una calotta scura che copriva tutta la regione dal mare alle Alpi e che ci avvolse a partire dall’immane rogo della Casa di cultura slovena, il Narodni Dom, il 13 luglio del 1920, nel centro della città e in seguito degli altri due centri culturali nei distretti periferici sempre della città di Trieste. Così iniziò il genocidio della cultura slovena, le carceri per gli oppositori al Duce, la condanna a morte per quattro giovani antifascisti nel 1930 da parte del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. Ma già quattro anni prima, nel 1926, una Commissione "scientifica" aveva italianizzato 2.140 cognomi slavi, ottenendo, secondo il presidente della Commissione, centomila cognomi italiani con un solo decreto. Pulizia etnica romana in pieno XX secolo europeo. 
Alle medie scoprimmo, sempre sui libri di storia, che ottenuta l’unità, non riuscì a far breccia il pensiero di Carlo Cattaneo, che proponeva lo Stato confederale. Si volle un Regno unitario, anzi, direi di colonismo interno, per attuare il quadro definito da Dante nel canto IX dell’Inferno: «Da Pola presso del Carnaro / ch’Italia chiude e i suoi termini bagna». Si comprendeva nei confini, cioè, l’intero arco alpino che affluiva all’Italia per evidente conformazione geografica, ma che non teneva conto della popolazione di lingua slovena, degli austriaci tirolesi e dei franco provenzali che lo abitavano. Disinteressandosi di questo aspetto si attuava il disegno di una grande potenza. 
Solo al liceo italiano – perché le nostre scuole slovene erano state cancellate dal fascismo, come ogni espressione della nostra identità – abbiamo compreso che l’Italia aveva destinato al sacrificio un numero incredibile di combattenti per iniziare una conquista dell’Europa contro mano, partendo dall’Adriatico verso il Nord. Sarà Mussolini a tentare di continuare questa occupazione all’inverso, tra il 1941-43, con l’aiuto di Hitler. Purtroppo ci accorgemmo dopo che lo stesso Mazzini, teorico del problema nazionale e amico degli Slavi, era d’accordo sul fatto che l’Italia si espandesse comprendendo l’arco alpino, anche se era abitato da gente che parlava altre lingue. Mazzini sosteneva «anche nostra è Postojna o Carsia ora sottoposta amministrativamente a Ljubljana». Lo diceva nel 1860, quando a Postojna e sul Carso non si parlava certo italiano. Mazzini ribatteva: «Non si può fondare una teoria assoluta della nazionalità sulla condizione unica della lingua... ma ci devono essere le affinità, le tradizioni, i costumi, le condizioni geografiche». Tutti elementi che sul Carso e a Postojna erano di matrice slovena. Tanto è vero che anche all’epoca il Triglav, monte sulle Alpi Giulie – presente nell’attuale stemma e sulla bandiera sloveni – oggetto di conquista italiana, era per la popolazione slovena tutta, e anche a Postojna quindi, il simbolo della patria, come dice il canto: «O, Triglav moj dom, kako si krazan / O Triglav, casa mia (patria mia) come sei splendido». 
Allora, se faccio la somma di tutte queste suggestioni e mi trovo in mezzo alla celebrazione del centenario della Prima guerra mondiale, mi domando: quanti giovani italiani e sloveni sono al corrente di verità enumerate così en passant? E se non lo sono, perché? Ed essendone all’oscuro, cosa capiscono del passato? E, in concreto, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si è incontrato con il presidente sloveno, Borut Pahor, prima in Italia, a Redipuglia, poi in Slovenia, a Sveta Gora (Monte Santo), per onorare i morti. Bene, atti di pietà. Ma né loro due, né la stampa ha parlato di ciò che i due popoli hanno subito, né perché si è combattuto. Tutto è stato quietamente composto nel migliore dei modi. Per quanto mi riguarda, come essere umano, come umanista e come scrittore, prima di essere sloveno, mi augurerei che le scolaresche, che vanno in pellegrinaggio ogni 10 febbraio per il Giorno del Ricordo a Basovizza, vengano informate che su quel fronte caddero anche sloveni, popolazione che in seguito il fascismo tentò di annullare. L’onorevole presidente Napolitano durante la celebrazione del centenario parlando in Slovenia con i suoi vicini definì l’avvenimento come un incontro di amicizia. Bello, da applaudire. Ma mi piacerebbe che in nome dell’amicizia venisse distribuito nelle scuole superiori della Repubblica il risultato della Commissione italo slovena di cultura e di Storia che fa chiarezza su quanto accadde ai due popoli anche negli anni della guerra e nel periodo postbellico. I risultati di quel rapporto, che i due governi anni fa avevano promosso, sono stati lasciati nel cassetto. Toglierli da lì, ecco il modo migliore non solo di onorare il centenario della Grande guerra, ma anche in maniera più giusta il Giorno del Ricordo del 10 di febbraio. Meglio ancora, come sostiene Predrag Matvejevic´, sarebbe poi chiamarlo Giorno dei Ricordi. 
Sessanta a oggi lo. Quello che oggi chiamiamo cittadinanza è il prodotto giuridico degli anacronismi e delle contraddizioni dello jus sanguinis e dello jus soli. Nel diritto del sangue troviamo l’eco delle strutture patriarcali a tutela del patrimonio, ma anche il concetto di razza, di famiglia e di gerarchia. Nel diritto del suolo c’è l’eco degli imperialismi di ogni epoca, il mito del possesso a costo dell’assalto, ma anche quello della crescita infinita, che non potendo estendere i confini del suolo cerca avidamente il limite delle risorse. La politica deve immaginare un modello di appartenenza civica che vada oltre, verso un sistema di appartenenza guidato dallo jus voluntatis. La profezia politica sul metodo dello stare insieme riguarda il fatto che i sistemi di potere che conosciamo sono tutti gerarchici, soprattutto se sono democratici, perché fondarsi sulla distribuzione e separazione dei poteri significa aver bisogno di innumerevoli gerarchie d’ambito nelle quali si ridiventa sudditi tante volte quanti sono i decisori sociali di cui bisogna attendere le deliberazioni. È doveroso immaginare oggi un sistema di governo che non si basi su strutture gerarchiche, ma su logiche di rete, riportando la funzione sociale al suo vero scopo: esprimere la relazione sociale. 
«Avrete solo i diritti che siete in grado di difendere», mi disse un giorno un ex sindacalista scopertosi liberista alla fine della carriera e passato con lo zelo del neofita a far da consulente all’ennesima destra al governo. Esprimeva un’idea belluina della costruzione dei valori sociali, un conflitto dove qualunque conquista sarebbe stata esposta a una costante rimessa in discussione. Molti sono convinti che qualunque cosa chiamiamo diritto esista solo finché non ce lo facciamo portare via da qualcuno più forte di noi. Invece, poiché un consesso civile non può essere regolato dalla legge della giungla, i diritti sono dei deboli per definizione, perché solo così sono diritti di tutti. È attraverso le lotte dei deboli che le società cambiano e crescono, perché i forti non hanno interesse alcuno a modificare lo stato delle cose. La profezia politica deve progettare la protezione dei deboli che rigenereranno con i loro bisogni la società e deve attrezzarsi sin d’ora per capire per quali diritti dovremmo tutti combattere in futuro.

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