Piketty: «La democrazia deve avere il controllo sul capitale»
Secondo lo studioso, evitata l’apocalisse marxista, occorre che le società riprendano potere sull’interesse privato, ma senza protezionismi
di Thomas Piketty Corriere della Sera 4 settembre 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA
La questione della distribuzione delle ricchezze è oggi una delle più rilevanti e dibattute. Ma che cosa si sa, davvero, del suo sviluppo sul lungo termine? La dinamica dell’accumulazione del capitale privato comporta inevitabilmente una concentrazione sempre più forte della ricchezza e del potere in poche mani, come pensava Marx nel XIX secolo? Oppure le dinamiche equilibratrici della crescita, della concorrenza e del progresso tecnico determinano, nelle fasi avanzate del processo economico, una riduzione spontanea delle disuguaglianze e un’armonica stabilizzazione dei beni, come pensava Kuznets nel XX secolo? Che cosa sappiamo realmente del processo di distribuzione dei redditi e dei patrimoni dal XVIII secolo in poi, e quali lezioni possiamo trarne per il XXI? Sono queste le domande alle quali tento di rispondere. Diciamolo subito: le risposte da me suggerite sono imperfette e incomplete. Ma sono fondate su dati storici e comparativi più ampi rispetto a quelli offerti da tutti i lavori precedenti, e trovano posto entro un quadro teorico rinnovato che consente di comprendere meglio le tendenze e i meccanismi messi in campo. La crescita moderna e la diffusione delle conoscenze hanno permesso di evitare l’apocalisse marxista, ma non hanno modificato le strutture profonde del capitale e delle disuguaglianze, o non nella misura in cui si è immaginato potessero farlo nei decenni di ottimismo del secondo dopoguerra. Quando il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita del prodotto e del reddito — come accadde fino al XIX secolo e come rischia di accadere di nuovo nel XXI — il capitalismo produce automaticamente disuguaglianze insostenibili, arbitrarie, che rimettono in questione dalle fondamenta i valori meritocratici sui quali si reggono le nostre società democratiche.
Tuttavia, esistono strumenti in grado di far sì che la democrazia e l’interesse generale riprendano il controllo del capitalismo e degli interessi privati, senza peraltro fare ricorso a misure protezionistiche e nazionalistiche. Questo libro tenta di avanzare proposte in tal senso, appellandosi agli insegnamenti che si possono trarre dalle esperienze storiche. Il racconto di tali esperienze costituisce la trama principale dell’opera. Un dibattito senza fonti? Per lungo tempo i dibattiti intellettuali e politici sulla distribuzione delle ricchezze sono stati caratterizzati da troppi pregiudizi e pochissimi fatti. Sarebbe certo sbagliato sottovalutare l’importanza delle conoscenze intuitive che ciascuno, nella propria epoca, in assenza di qualsiasi quadro teorico e di qualsiasi statistica significativa, ha sviluppato in materia di redditi e patrimoni. Vedremo per esempio come il cinema e la letteratura, in particolare il romanzo del XIX secolo, abbondino di informazioni assai precise sui livelli di vita e di ricchezza dei differenti gruppi sociali, e soprattutto sulla struttura profonda delle disuguaglianze. (...) I romanzi di Jane Austen e di Balzac, in particolare, ci offrono quadri assai esaurienti della distribuzione delle ricchezze nel Regno Unito e in Francia nel periodo 1790-1830. I due narratori dispongono di una conoscenza profonda della gerarchia dei patrimoni in vigore alla loro epoca. Ne sanno cogliere i segreti confini, ne conoscono le implacabili conseguenze sulla vita degli uomini e delle donne di allora. Ne ripercorrono le implicazioni con una potenza evocativa che nessuna statistica, nessuna dotta analisi, saprebbero uguagliare. (...) Rimettere la questione della distribuzione al centro dell’analisi economica La questione è importante, e non solo per ragioni storiche.
A partire dagli anni Settanta del XX secolo le disuguaglianze all’interno dei Paesi ricchi — in particolare negli Stati Uniti, dove nel primo decennio del XXI secolo la concentrazione dei redditi ha raggiunto, o leggermente superato, il livello record del decennio tra il 1910 e il 1920 — si sono di nuovo accentuate: per cui diventa essenziale comprendere bene perché e come esse siano diminuite la prima volta. È vero che la crescita fortissima dei Paesi poveri ed emergenti, in particolare della Cina, costituisce un notevole potenziale fattore di riduzione delle disuguaglianze a livello mondiale, così com’è accaduto per la crescita dei Paesi ricchi durante i Trente glorieuse. Ma è anche vero che tale processo solleva forti inquietudini in seno ai Paesi emergenti, e ancor più tra i Paesi ricchi. Tra l’altro, gli squilibri impressionanti osservati negli ultimi decenni sui mercati finanziari, petroliferi e immobiliari possono suscitare comprensibili dubbi circa il carattere ineluttabile del «percorso di crescita equilibrata» descritto da Solow e Kuznets, secondo il quale tutto deve presumibilmente crescere allo stesso ritmo. La domanda che preoccupa è: non sarà che il mondo del 2050 o del 2100 finirà nelle mani dei trader, degli alti dirigenti e dei detentori di patrimoni rilevanti, o dei Paesi produttori di petrolio, o della Banca della Cina, o addirittura dei paradisi fiscali che faranno da copertura, in un modo o nell’altro, a tutti costoro?
E secondo noi sarebbe assurdo non porla, continuando a pensare, per principio, che la crescita sia per sua natura a lungo termine «equilibrata». In un certo modo, oggi, agli inizi del XXI secolo, ci troviamo nella stessa situazione degli osservatori del XIX secolo: assistiamo a trasformazioni impressionanti, ed è ben difficile sapere fin dove potranno portare e come si presenterà la distribuzione delle ricchezze nell’arco di qualche decennio, tra un Paese e l’altro e all’interno del medesimo Paese. Gli economisti del XIX secolo hanno avuto un merito immenso: hanno posto il problema della distribuzione al centro dell’analisi, e hanno cercato di studiarne le tendenze sul lungo periodo. Le loro risposte non sono sempre state soddisfacenti, ma almeno rispondevano a delle buone domande. Invece, oggi, non abbiamo alcuna ragione di credere nel carattere automaticamente equilibrato della crescita. Oggi è più urgente che mai rimettere la questione delle disuguaglianze al centro dell’analisi economica e tornare a porre le domande lasciate senza adeguata risposta nel XIX secolo. Per troppo tempo il problema della distribuzione delle ricchezze è stato trascurato dagli economisti, in parte a seguito delle conclusioni ottimistiche di Kuznets, in parte a causa di un’eccessiva simpatia della professione per i modelli matematici semplicistici, i cosiddetti modelli «a parametri rappresentativi». E, per rimettere la questione della distribuzione al centro dell’analisi, bisogna cominciare con il raccogliere il massimo numero di dati storici, in modo da capire meglio gli sviluppi del passato e le tendenze del presente. Perché è stabilendo con pazienza fatti e costanti, è confrontando le esperienze dei diversi Paesi, che possiamo sperare di individuare meglio i meccanismi in gioco e chiarirci le idee per il futuro. (traduzione diSergio Arecco)
Il libro scomodo che ha diviso i commentatori in Francia e Usa di Stefano Montefiori Corriere 4.9.14
PARIGI — Il successo internazionale del libro dell’economista francese Thomas Piketty non ha precedenti. Le 952 pagine di storia delle diseguaglianze e di critica al capitalismo contemporaneo sono diventate nel corso di quest’anno le più citate (anche se magari non sempre lette) da media, esperti, politici, soprattutto dopo la trionfale tournée dell’autore negli Stati Uniti, quando il columnist del «New York Times» David Brooks gli ha dedicato un editoriale dal titolo The Piketty Phenomenon evocando (con ironia) la Beatlemania. Piketty ha raccolto gli elogi incondizionati dei premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz, le critiche del «Wall Street Journal» e del «Financial Times» (quest’ultimo protagonista di una contesa sui dati proposti da Piketty), l’approvazione dell’«Economist». L’accoglienza nel mondo anglosassone ha generato un ritorno di interesse anche in Francia, dove il volume era uscito sei mesi prima suscitando meno clamore. In patria alcune voci a destra sono state severe (Nicolas Bavarez aveva dato a Piketty del «Karl Marx da sotto-prefettura») ma soprattutto Piketty, ex consigliere economico di Ségolène Royal, da sempre schierato a sinistra, è sembrato infastidire i suoi compagni, la gauche di governo, quella del presidente della Repubblica. In campagna elettorale Hollande aveva promesso una «rivoluzione fiscale» ampiamente ispirata agli studi di Piketty sulle diseguaglianze, ma una volta eletto ha abbandonato il progetto. Le ricette — ormai ribattezzate Pikettynomics — prevedevano la trattenuta alla fonte (in Francia si paga dopo) e una tassazione progressiva dei redditi e dei capitali insieme, ma il presidente le ha ben presto accantonate. Anzi, la crisi di governo degli ultimi giorni e la nascita dell’esecutivo Valls II ha reso ancora più distanti le posizioni di Hollande e Piketty, che già non stimava il presidente («vale poco», è il suo giudizio). L’idea di fondo del Capitale nel XXI secolo attira consensi più delle soluzioni che ne discendono: Piketty critica una struttura economica del capitalismo ridiventata ottocentesca, dopo due guerre mondiali che avevano distrutto grandi fortune e creato enormi opportunità. Oggi, secondo Piketty, siamo tornati a un’era in cui non vale la pena lavorare, perché il mondo si fonda sui patrimoni accumulati senza fatica e non sui redditi frutto di merito e talento. Fin qui, l’interesse è grande, in America e in Europa. Quando però si passa ai rimedi concreti proposti da Piketty, le cose si complicano. Specie in Francia, dove il governo potrebbe tenere conto del suo lavoro e non lo fa. Il partito è spaccato, l’ala sinistra responsabile della fronda è stata cacciata dall’esecutivo. Piketty, profeta inascoltato in patria, conferma la sua avversione a Hollande. «Che penso dei deputati socialisti che si sono ribellati? Avrebbero dovuto farlo prima».

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