Charles Wright Mills, un classico per trovare il regno della libertà
Saggi. Scritta alla fine negli anni Cinquanta, "L'immaginazione sociologica" è un’opera che mantiene intatta la forza analitica nella denuncia della sottomissione dello «scienziato sociale» alle élite dominanti
Riccardo Mazzeo, 4.9.2014 il Manifesto
È piuttosto raro che libri fondamentali ma esorbitanti dalle mode o da filoni recuperati e rilanciati da particolari editori (come numerosi testi antropologici citati da Edgar Morin ne L’uomo e la morte nel 1951 e ripubblicati, in questi anni, da Adelphi) giungano a una nuova edizione dopo più di mezzo secolo, ed è quindi con grande ammirazione che ho salutato la ripubblicazione da parte de Il Saggiatore di un testo cardinale del pensiero del Novecento come L’immaginazione sociologica di Charles Wright Mills, che era uscito nel 1959 e che viene ora ripoposto da il Saggiatore.
È degno di nota anche che l’evento non sia dipeso né da un anniversario né da qualche congiuntura favorevole al rilancio del libro. Vero è che Zygmunt Bauman ne ha sottolineato il valore e la forza dirompente nel suo ultimo libro La scienza della libertà, ma le due opere sono uscite di recente in Italia quasi in contemporanea e quindi si può escludere qualunque influenza che non fosse la pregnanza del testo di Wright Mills in sé e per sé.
Cercherò quindi di spiegare perché la riedizione sia preziosa e utile per i lettori di oggi e quali ne siano le motivazioni.

Wright Mills, morto a soli 46 anni, è stato una delle voci più critiche delle componenti artefatte e illusorie della democrazia del suo Paese: «Gli Stati Uniti di oggi sono democratici essenzialmente nella forma e nella retorica dell’aspettativa. Nella sostanza e nella pratica sono molto spesso non democratici, e ciò appare in modo chiarissimo in determinati campi. L’economia delle grandi società non è gestita né sotto forma di assemblee di cittadini né mediante un complesso di poteri responsabili verso coloro che subiscono direttamente le conseguenze della loro attività. Lo stesso può dirsi sempre più per la macchina militare e per lo stato politico». Non era ottimista riguardo alle probabilità che i sociologi potessero «salvare il mondo» ma riteneva che, dato che comunque potrebbe essere possibile riuscirvi, essi avessero in ogni caso il dovere di tentare l’impresa di «risistemare gli affari umani secondo gli ideali di libertà e di ragione».
Ma soprattutto era capace di «antivedere» alcune problematiche allora inimmaginabili, in un tempo che riponeva una fiducia senza riserve nella tecnica di cui si coglievano unicamente le valenze salvifiche: «Non dobbiamo forse, nella nostra epoca, prepararci alla possibilità che la mente umana, come fatto sociale, si deteriori qualitativamente e si abbassi ad un livello culturale inferiore, senza che molti se ne accorgano, sopraffatti come siamo dalla massa delle piccole invenzioni tecnologiche? Non è forse questo uno dei significati della frase “razionalità senza ragione”? Del termine “alienazione umana”? (…)L’accumularsi degli espedienti tecnologici nasconde questo significato: coloro che se ne servono, non li capiscono; coloro che li inventano, non comprendono molto di più. Ecco perché non possiamo, se non con molti dubbi e riserve, prendere l’abbondanza tecnologica come indice di qualità umana e di progresso culturale».
La sociologia, per seguire la propria vocazione, deve alzare lo sguardo oltre la «riserva» del proprio territorio e interessarsi alle altre scienze umane: la storia («per molti problemi (…) possiamo ottenere informazioni adeguate soltanto nel passato»), la psicanalisi («Il prossimo passo degli studi psicanalitici sarà di fare largamente e pienamente per le altre zone istituzionali ciò che Freud ha cominciato a fare così splendidamente per le istituzioni di parentado di un tipo scelto») e naturalmente il cinema, l’arte, la letteratura eccetera. Basti pensare che fra il 1940 e il 1950 aveva letto l’opera omnia di Balzac («ed ero stato profondamente colpito dal fatto che si fosse assunto volontariamente il compito di “coprire” tutte le principali classi e tutti i principali tipi della società dell’epoca che voleva far propria».
Forse l’epitome più fedele e acuta di Wright Mills è stata data proprio da Bauman ne La scienza della libertà: «distinse autorevolmente l’immaginazione sociologica dalla sociologia e mostrò come la pratica di quest’ultima non abbia alcuna necessaria connessione con la prima. Wright Mills fornì argomenti irrefutabili a sostegno del perseguimento di un’immaginazione sociologica che cercasse di imbastire una conversazione con le donne e gli uomini (per) mostrare come i “guai personali” siano inestricabilmente legati a “questioni pubbliche”. L’immaginazione sociologica rende ciò che è personale politico [(E), al pari della narrativa e del giornalismo, rende possibile lo sviluppo di una “qualità della mente” che permette alle donne e agli uomini di capire e raccontare ciò che accade loro, ciò che sentono e ciò a cui aspirano».
Benedetto Vecchi, 4.9.2014 il Manifesto
Quando esce, il suo nome è già noto ed è associato a due saggi che hanno terremotato il paludato mondo delle cosiddette scienze sociali statunitensi. Negli anni Cinquanta, Charles Wright Mills aveva, infatti, messo sotto accusa la formazione e i meccanismi di selezione delle élite al potere e l’ascesa dei «colletti bianchi», quel ceto medio che occupava il centro della scena sociale, spodestando dal podio il self made man, figura mitica attraverso la quale gli Stati Uniti erano presentati il regno delle infinite possibilità di successo. Lo scandalo delle sue opere veniva dal fatto che Wright Mills, in pieno maccartismo, non esitava a citare Karl Marx e a sostenere che negli scritti dell’economista marxista Paul Sweezy ci sono molti elementi utili a differenza di quanto invece si poteva e si può trovare trovare negli scritti degli eredi del liberale John Stuart Mill. Alle accuse di essere un comunista mimetico, Wright Mills rispondeva sarcasticamente che se interrogato non avrebbe avuto remore a definirsi un wobbly, evocando la breve e tuttavia importante esperienza di sindacalismo rivoluzionario che nei primi venti anni del Novecento, prima cioè che intervenisse la politica di annientamento dell’Iww (Industrial workers of world), aveva espresso le posizioni politiche più radicali nella sfera pubblica statunitense. E altrettanto provocatoriamente da lì a pochi anni scriverà una serie di ritratti dei «marxisti» più significativi del Novecento, mentre nel 1960 sosterrà, con un lungo e discusso saggio, la rivoluzione cubana, considerata una possibile alternativa sia al capitalismo che al socialismo di stato di stampo sovietico.
I saggi sulle élite e sui colletti bianchi avevano quindi trasformato un promettente studioso in una figura centrale nella sociologia statunitense. La pubblicazione de L’immaginazione sociologica (ora riproposta dal Saggiatore, pp. 244, euro 13) nel 1959 può quindi essere considerata la parte conclusiva del trittico iniziato con il testo sulle élite. Con questo libro, Wright Mills si dà un obiettivo ambizioso e per raggiungerlo sa che deve misurarsi non solo con «scuole di pensiero» che fanno il cattivo e buon tempo nelle facoltà statunitensi, ma anche con il potere sociale che esprimono grazie al fatto che sono diventate le ancelle del potere economico e politico.
Da una parte c’è il funzionalismo di Talcott Parson – definito ironicamente da Wright Mills la «Grande Teorizzazione» -, dall’altra l’empirismo radicale di Paul Lazarsfeld. Il primo riteneva che le scienze sociali dovessero sviluppare modelli di interpretazioni della realtà astraendosi dai rapporti di forza presenti nella società capitaliste: modelli che dovevano eliminare ogni specificità storica, ogni differenza esistente tra realtà segnate da un alto tasso di eterogeneità per poi essere applicati indifferentemente sia a società capitaliste che quelle stigmatizzate come «sottosviluppate».
Verso la «Grande teorizzazione» Wight Mills usa parole sprezzanti verso lo stile criptico che la contraddistingue, presentando pagine di esilarante lettura laddove propone involuti brani tratti dai libri di Parson per poi sintetizzarli in poche righe. L’oscurità della «Grande teorizzazione» è dunque da considerare un ordine del discorso, direbbe il diligente ammiratore di Michel Foucault, che legittima il potere costituito.
Tra biografia e storia
L’altro bersaglio polemico è l’empirismo radicale Lazarsfeld, il sociologo austriaco coautore di uno dei più importanti analisi sulla disoccupazione — I disoccupati di Marienthal — e trasferitosi negli Stati Uniti nel 1933, diventando uno delle figure di primo piano della Columbia University (la stessa dove insegnava Wright Mills) e della sociologia americana. Rispetto alla centralità dei fatti e l’irrilevanza della teoria prospettate da Lazarsfeld, Wright Mills sostiene invece che l’«immaginazione sociologica» è indispensabile, perché consente di cogliere sia le tensioni, i sentimenti individuali, mettendoli però in relazione con lo sviluppo storico e le relazioni allargate che accompagnano il suo stare in società: «l’immaginazione sociologica — scrive Wright Mills — ci permette di afferrare la biografia e storia e il loro mutuo rapporto nell’ambito della società». Inoltre, per relazioni sociali lo studioso americano intende anche il ruolo che hanno le divisioni in classe nello vita individuale, la «composizione sociale» delle élite, nonché il tipo di lavoro che i singoli svolgono. Anche in questo caso, l’ironia e il sarcasmo la fanno da padrone, in particolare modo quando il lettore è invitato a svolgere un esperimento mentale per cercare come sia possibile definire la totalità di una realtà sociale, elevando a modello generale ciò che accade in una piccola e provinciale cittadina, presentando come un aggregato statistico di comportamenti, ignorandone storia, stratificazione sociale e «razziale», flussi migratori, il ruolo svolto dalla religione come anche dell’amministrazione politica locale e da quella federale. In altri termini, le «scienze sociali» devono operare affinché il «presente si presenti come storia», evocando il titolo di un testo che Paul Sweezy scrisse per contrastare la normalizzazione della produzione culturale statunitense dopo l’impegno pubblico degli intellettuali a favore delle riforme sociali e politiche proposte durante il New Deal.
La centralità assegnata alla storia fa sì che Wright Mills, e siamo nel 1959, parli espressamente dell’avvento del postmoderno — la «Quarta epoca» — visto che ogni formazione sociale prende forma, si sviluppa per poi declinare, lasciando il posto ad un’altra formazione sociale. Da questo punto di vista emerge una inaspettata «attualità» del suo invito a contestualizzare storicamente la realtà sociale, senza nessuna concessione a un relativismo e a un generico pluralismo teorico. Wright Mills è uno studioso del capitalismo, ne vuole cogliere le invarianti ma anche le discontinuità. Ma emerge anche la sua inattualità, laddove considera l’«ethos burocratico» come una caratteristica del postmoderno prossimo a venire, vista invece la centralità che l’individuo proprietario ha assunto nelle società contemporanee. Non una società abitata da «robot docili» affiliati a una organizzazione vincolata a un ethos burocratico, bensì uomini e donne che vedono nella rescissione dei suoi legami sociali il preludio a una libertà radicale. Va però detto che L’immaginazione sociologica, nella sua inattualità, è pur sempre un godibile antidoto verso la retorica retorica individualista del neoliberismo, laddove ne svela il carattere ideologico, performativo dei rapporti sociali.
Autonomie universitarie
È su questo crinale che il volume rivela infine sentieri di ricerca che andrebbero ripresi. La denuncia del ruolo delle «scienze sociali» come discipline volte a costruire il consenso al potere costituito, la denuncia del carattere ottundente della parcellizzazione del sapere che caratterizzava e caratterizza la produzione culturale hanno infatti una forza persuasiva in controtendenza rispetto a quando accade nelle facoltà universitarie al di là e al di qua dell’Atlantico, dove la tendenza a definire «oggettivi» criteri di valutazione e a misurare la qualità della ricerca scientifica e sociale in base al loro utilizzo economico la fanno da padrone. Interessante sono quindi le pagine sull’autonomia dell’università dai poteri economici e politici: elemento tutt’ora indispensabile per garantire l’indipendenza dello studioso e per arginare la tendenza a misurare in base ai profitti derivanti, direttamente come proprietà intellettuale o indirettamente come innovazione, dalla produzione culturale.
Dunque un libro che andrebbe riletto non per cercare lumi sul presente, ma per acquisire un’attitudine critica rispetto la realtà capitalistica, facendo così i conti con le trasformazione che l’hanno caratterizzato. Non per rivendicare una immacolata autonomia dello studioso, ma per sviluppare un’attitudine woobly, partigiana nella produzione culturale. L’unica che consente davvero di conoscere la realtà.
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