giovedì 4 settembre 2014

Torna "L'immaginazione sociologica" di Charles Wright Mills

Charles Wright Mills: L’immaginazione sociologica, il Saggiatore

Risvolto
L’immaginazione sociologica, secondo Wright Mills, è la capacità di riflettere su se stessi come soggetti liberi e non vincolati da tutte quelle influenze sociali che, in realtà, condizionano inconsapevolmente ogni gesto della vita quotidiana. È l’atteggiamento mentale che permette allo studioso di vedere oltre il proprio ambiente e la propria personalità, al fine di meglio comprendere le strutture e le relazioni in una data società.

Charles Wright Mills, un classico per trovare il regno della libertà
Saggi. Scritta alla fine negli anni Cinquanta, "L'immaginazione sociologica" è un’opera che mantiene intatta la forza analitica nella denuncia della sottomissione dello «scienziato sociale» alle élite dominanti
Riccardo Mazzeo, 4.9.2014 il Manifesto
È piut­to­sto raro che libri fon­da­men­tali ma esor­bi­tanti dalle mode o da filoni recu­pe­rati e rilan­ciati da par­ti­co­lari edi­tori (come nume­rosi testi antro­po­lo­gici citati da Edgar Morin ne L’uomo e la morte nel 1951 e ripub­bli­cati, in que­sti anni, da Adel­phi) giun­gano a una nuova edi­zione dopo più di mezzo secolo, ed è quindi con grande ammi­ra­zione che ho salu­tato la ripub­bli­ca­zione da parte de Il Sag­gia­tore di un testo car­di­nale del pen­siero del Nove­cento come L’immaginazione socio­lo­gica di Char­les Wright Mills, che era uscito nel 1959 e che viene ora ripo­po­sto da il Saggiatore.
È degno di nota anche che l’evento non sia dipeso né da un anni­ver­sa­rio né da qual­che con­giun­tura favo­re­vole al rilan­cio del libro. Vero è che Zyg­munt Bau­man ne ha sot­to­li­neato il valore e la forza dirom­pente nel suo ultimo libro La scienza della libertà, ma le due opere sono uscite di recente in Ita­lia quasi in con­tem­po­ra­nea e quindi si può esclu­dere qua­lun­que influenza che non fosse la pre­gnanza del testo di Wright Mills in sé e per sé.
Cer­cherò quindi di spie­gare per­ché la rie­di­zione sia pre­ziosa e utile per i let­tori di oggi e quali ne siano le motivazioni.
Innan­zi­tutto si tratta di un libro intenso e appas­sio­nato di uno «scien­ziato sociale» che già allora coglieva per un verso la mis­sione fon­da­men­tale della socio­lo­gia, poi­ché «non si può com­pren­dere la vita dei sin­goli se non si com­prende quella della società, e vice­versa», l’allargamento di pro­spet­tiva che sarebbe stato reso espli­cito dalla glo­ba­liz­za­zione allora solo in nuce («la sto­ria che incide oggi su ogni uomo è sto­ria mon­diale»), e i rischi di tra­di­mento della mis­sione dei socio­logi che sono oggi sem­pre più inclini a barat­tare la nobiltà del com­pito di allar­gare la con­sa­pe­vo­lezza della verità e della ragione al più vasto numero pos­si­bile di per­sone con i trenta denari di un avan­za­mento di car­riera, dell’immissione nei cir­cuiti finan­zia­ria­mente pro­fi­cui delle fon­da­zioni o delle con­su­lenze pagate dai potenti, o sem­pli­ce­mente con la ras­si­cu­ra­zione di uno sta­tus tanto più solido quanto più ste­rile offerto dall’autoreferenzialità, dal dia­logo tra «pari» in un gergo per ini­ziati, nella dimen­sione ari­da­mente «scien­ti­fica» dei teo­rici che discu­tono fra di loro della gente comune dimen­ti­cando che sarebbe loro dovere par­lare pro­prio alla gente comune per miglio­rare la loro condizione.
Wright Mills, morto a soli 46 anni, è stato una delle voci più cri­ti­che delle com­po­nenti arte­fatte e illu­so­rie della demo­cra­zia del suo Paese: «Gli Stati Uniti di oggi sono demo­cra­tici essen­zial­mente nella forma e nella reto­rica dell’aspettativa. Nella sostanza e nella pra­tica sono molto spesso non demo­cra­tici, e ciò appare in modo chia­ris­simo in deter­mi­nati campi. L’economia delle grandi società non è gestita né sotto forma di assem­blee di cit­ta­dini né mediante un com­plesso di poteri respon­sa­bili verso coloro che subi­scono diret­ta­mente le con­se­guenze della loro atti­vità. Lo stesso può dirsi sem­pre più per la mac­china mili­tare e per lo stato poli­tico». Non era otti­mi­sta riguardo alle pro­ba­bi­lità che i socio­logi potes­sero «sal­vare il mondo» ma rite­neva che, dato che comun­que potrebbe essere pos­si­bile riu­scirvi, essi aves­sero in ogni caso il dovere di ten­tare l’impresa di «risi­ste­mare gli affari umani secondo gli ideali di libertà e di ragione».
Ma soprat­tutto era capace di «anti­ve­dere» alcune pro­ble­ma­ti­che allora inim­ma­gi­na­bili, in un tempo che ripo­neva una fidu­cia senza riserve nella tec­nica di cui si coglie­vano uni­ca­mente le valenze sal­vi­fi­che: «Non dob­biamo forse, nella nostra epoca, pre­pa­rarci alla pos­si­bi­lità che la mente umana, come fatto sociale, si dete­riori qua­li­ta­ti­va­mente e si abbassi ad un livello cul­tu­rale infe­riore, senza che molti se ne accor­gano, sopraf­fatti come siamo dalla massa delle pic­cole inven­zioni tec­no­lo­gi­che? Non è forse que­sto uno dei signi­fi­cati della frase “razio­na­lità senza ragione”? Del ter­mine “alie­na­zione umana”? (…)L’accumularsi degli espe­dienti tec­no­lo­gici nasconde que­sto signi­fi­cato: coloro che se ne ser­vono, non li capi­scono; coloro che li inven­tano, non com­pren­dono molto di più. Ecco per­ché non pos­siamo, se non con molti dubbi e riserve, pren­dere l’abbondanza tec­no­lo­gica come indice di qua­lità umana e di pro­gresso culturale».
La socio­lo­gia, per seguire la pro­pria voca­zione, deve alzare lo sguardo oltre la «riserva» del pro­prio ter­ri­to­rio e inte­res­sarsi alle altre scienze umane: la sto­ria («per molti pro­blemi (…) pos­siamo otte­nere informazioni ade­guate sol­tanto nel pas­sato»), la psi­ca­na­lisi («Il pros­simo passo degli studi psi­ca­na­li­tici sarà di fare lar­ga­mente e pie­na­mente per le altre zone isti­tu­zio­nali ciò che Freud ha comin­ciato a fare così splen­di­da­mente per le isti­tu­zioni di paren­tado di un tipo scelto») e natu­ral­mente il cinema, l’arte, la let­te­ra­tura ecce­tera. Basti pen­sare che fra il 1940 e il 1950 aveva letto l’opera omnia di Bal­zac («ed ero stato pro­fon­da­mente col­pito dal fatto che si fosse assunto volon­ta­ria­mente il com­pito di “coprire” tutte le prin­ci­pali classi e tutti i prin­ci­pali tipi della società dell’epoca che voleva far propria».
Forse l’epitome più fedele e acuta di Wright Mills è stata data pro­prio da Bau­man ne La scienza della libertà: «distinse auto­re­vol­mente l’immaginazione socio­lo­gica dalla socio­lo­gia e mostrò come la pra­tica di quest’ultima non abbia alcuna neces­sa­ria con­nes­sione con la prima. Wright Mills fornì argo­menti irre­fu­ta­bili a soste­gno del per­se­gui­mento di un’immaginazione socio­lo­gica che cer­casse di imba­stire una con­ver­sa­zione con le donne e gli uomini (per) mostrare come i “guai per­so­nali” siano ine­stri­ca­bil­mente legati a “que­stioni pub­bli­che”. L’immaginazione socio­lo­gica rende ciò che è per­so­nale poli­tico [(E), al pari della nar­ra­tiva e del gior­na­li­smo, rende pos­si­bile lo svi­luppo di una “qua­lità della mente” che per­mette alle donne e agli uomini di capire e rac­con­tare ciò che accade loro, ciò che sen­tono e ciò a cui aspirano».

 
Charles Wright Mills e il sapere ridotto in frantumiSaggi. Riproposta dal Saggiatore «L’immaginazione sociologica» del teorico statunitense, assente nelle librerie da decenni. Un libro ancora attuale nella sua capacità di svelare e denunciare i limiti della parcellizzazione nella produzione culturale
Benedetto Vecchi, 4.9.2014 il Manifesto

Quando esce, il suo nome è già noto ed è asso­ciato a due saggi che hanno ter­re­mo­tato il palu­dato mondo delle cosid­dette scienze sociali sta­tu­ni­tensi. Negli anni Cin­quanta, Char­les Wright Mills aveva, infatti, messo sotto accusa la for­ma­zione e i mec­ca­ni­smi di sele­zione delle élite al potere e l’ascesa dei «col­letti bian­chi», quel ceto medio che occu­pava il cen­tro della scena sociale, spo­de­stando dal podio il self made man, figura mitica attra­verso la quale gli Stati Uniti erano pre­sen­tati il regno delle infi­nite pos­si­bi­lità di suc­cesso. Lo scan­dalo delle sue opere veniva dal fatto che Wright Mills, in pieno mac­car­ti­smo, non esi­tava a citare Karl Marx e a soste­nere che negli scritti dell’economista mar­xi­sta Paul Sweezy ci sono molti ele­menti utili a dif­fe­renza di quanto invece si poteva e si può tro­vare tro­vare negli scritti degli eredi del libe­rale John Stuart Mill. Alle accuse di essere un comu­ni­sta mime­tico, Wright Mills rispon­deva sar­ca­sti­ca­mente che se inter­ro­gato non avrebbe avuto remore a defi­nirsi un wob­bly, evo­cando la breve e tut­ta­via impor­tante espe­rienza di sin­da­ca­li­smo rivo­lu­zio­na­rio che nei primi venti anni del Nove­cento, prima cioè che inter­ve­nisse la poli­tica di annien­ta­mento dell’Iww (Indu­strial wor­kers of world), aveva espresso le posi­zioni poli­ti­che più radi­cali nella sfera pub­blica sta­tu­ni­tense. E altret­tanto pro­vo­ca­to­ria­mente da lì a pochi anni scri­verà una serie di ritratti dei «mar­xi­sti» più signi­fi­ca­tivi del Nove­cento, men­tre nel 1960 sosterrà, con un lungo e discusso sag­gio, la rivo­lu­zione cubana, con­si­de­rata una pos­si­bile alter­na­tiva sia al capi­ta­li­smo che al socia­li­smo di stato di stampo sovie­tico.
I saggi sulle élite e sui col­letti bian­chi ave­vano quindi tra­sfor­mato un pro­met­tente stu­dioso in una figura cen­trale nella socio­lo­gia sta­tu­ni­tense. La pub­bli­ca­zione de L’immaginazione socio­lo­gica (ora ripro­po­sta dal Sag­gia­tore, pp. 244, euro 13) nel 1959 può quindi essere con­si­de­rata la parte con­clu­siva del trit­tico ini­ziato con il testo sulle élite. Con que­sto libro, Wright Mills si dà un obiet­tivo ambi­zioso e per rag­giun­gerlo sa che deve misu­rarsi non solo con «scuole di pen­siero» che fanno il cat­tivo e buon tempo nelle facoltà sta­tu­ni­tensi, ma anche con il potere sociale che espri­mono gra­zie al fatto che sono diven­tate le ancelle del potere eco­no­mico e poli­tico.
Da una parte c’è il fun­zio­na­li­smo di Tal­cott Par­son – defi­nito iro­ni­ca­mente da Wright Mills la «Grande Teo­riz­za­zione» -, dall’altra l’empirismo radi­cale di Paul Lazar­sfeld. Il primo rite­neva che le scienze sociali doves­sero svi­lup­pare modelli di inter­pre­ta­zioni della realtà astraen­dosi dai rap­porti di forza pre­senti nella società capi­ta­li­ste: modelli che dove­vano eli­mi­nare ogni spe­ci­fi­cità sto­rica, ogni dif­fe­renza esi­stente tra realtà segnate da un alto tasso di ete­ro­ge­neità per poi essere appli­cati indif­fe­ren­te­mente sia a società capi­ta­li­ste che quelle stig­ma­tiz­zate come «sot­to­svi­lup­pate».
Verso la «Grande teo­riz­za­zione» Wight Mills usa parole sprez­zanti verso lo stile crip­tico che la con­trad­di­stin­gue, pre­sen­tando pagine di esi­la­rante let­tura lad­dove pro­pone invo­luti brani tratti dai libri di Par­son per poi sin­te­tiz­zarli in poche righe. L’oscurità della «Grande teo­riz­za­zione» è dun­que da con­si­de­rare un ordine del discorso, direbbe il dili­gente ammi­ra­tore di Michel Fou­cault, che legit­tima il potere costituito.
Tra bio­gra­fia e storia

L’altro ber­sa­glio pole­mico è l’empirismo radi­cale Lazar­sfeld, il socio­logo austriaco coau­tore di uno dei più impor­tanti ana­lisi sulla disoc­cu­pa­zione — I disoc­cu­pati di Marien­thal — e tra­sfe­ri­tosi negli Stati Uniti nel 1933, diven­tando uno delle figure di primo piano della Colum­bia Uni­ver­sity (la stessa dove inse­gnava Wright Mills) e della socio­lo­gia ame­ri­cana. Rispetto alla cen­tra­lità dei fatti e l’irrilevanza della teo­ria pro­spet­tate da Lazar­sfeld, Wright Mills sostiene invece che l’«immaginazione socio­lo­gica» è indi­spen­sa­bile, per­ché con­sente di cogliere sia le ten­sioni, i sen­ti­menti indi­vi­duali, met­ten­doli però in rela­zione con lo svi­luppo sto­rico e le rela­zioni allar­gate che accom­pa­gnano il suo stare in società: «l’immaginazione socio­lo­gica — scrive Wright Mills — ci per­mette di affer­rare la bio­gra­fia e sto­ria e il loro mutuo rap­porto nell’ambito della società». Inol­tre, per rela­zioni sociali lo stu­dioso ame­ri­cano intende anche il ruolo che hanno le divi­sioni in classe nello vita indi­vi­duale, la «com­po­si­zione sociale» delle élite, non­ché il tipo di lavoro che i sin­goli svol­gono. Anche in que­sto caso, l’ironia e il sar­ca­smo la fanno da padrone, in par­ti­co­lare modo quando il let­tore è invi­tato a svol­gere un espe­ri­mento men­tale per cer­care come sia pos­si­bile defi­nire la tota­lità di una realtà sociale, ele­vando a modello gene­rale ciò che accade in una pic­cola e pro­vin­ciale cit­ta­dina, pre­sen­tando come un aggre­gato sta­ti­stico di com­por­ta­menti, igno­ran­done sto­ria, stra­ti­fi­ca­zione sociale e «raz­ziale», flussi migra­tori, il ruolo svolto dalla reli­gione come anche dell’amministrazione poli­tica locale e da quella fede­rale. In altri ter­mini, le «scienze sociali» devono ope­rare affin­ché il «pre­sente si pre­senti come sto­ria», evo­cando il titolo di un testo che Paul Sweezy scrisse per con­tra­stare la nor­ma­liz­za­zione della pro­du­zione cul­tu­rale sta­tu­ni­tense dopo l’impegno pub­blico degli intel­let­tuali a favore delle riforme sociali e poli­ti­che pro­po­ste durante il New Deal.
La cen­tra­lità asse­gnata alla sto­ria fa sì che Wright Mills, e siamo nel 1959, parli espres­sa­mente dell’avvento del post­mo­derno — la «Quarta epoca» — visto che ogni for­ma­zione sociale prende forma, si svi­luppa per poi decli­nare, lasciando il posto ad un’altra for­ma­zione sociale. Da que­sto punto di vista emerge una ina­spet­tata «attua­lità» del suo invito a con­te­stua­liz­zare sto­ri­ca­mente la realtà sociale, senza nes­suna con­ces­sione a un rela­ti­vi­smo e a un gene­rico plu­ra­li­smo teo­rico. Wright Mills è uno stu­dioso del capi­ta­li­smo, ne vuole cogliere le inva­rianti ma anche le discon­ti­nuità. Ma emerge anche la sua inat­tua­lità, lad­dove con­si­dera l’«ethos buro­cra­tico» come una carat­te­ri­stica del post­mo­derno pros­simo a venire, vista invece la cen­tra­lità che l’individuo pro­prie­ta­rio ha assunto nelle società con­tem­po­ra­nee. Non una società abi­tata da «robot docili» affi­liati a una orga­niz­za­zione vin­co­lata a un ethos buro­cra­tico, bensì uomini e donne che vedono nella rescis­sione dei suoi legami sociali il pre­lu­dio a una libertà radi­cale. Va però detto che L’immaginazione socio­lo­gica, nella sua inat­tua­lità, è pur sem­pre un godi­bile anti­doto verso la reto­rica reto­rica indi­vi­dua­li­sta del neo­li­be­ri­smo, lad­dove ne svela il carat­tere ideo­lo­gico, per­for­ma­tivo dei rap­porti sociali.
Auto­no­mie universitarie

È su que­sto cri­nale che il volume rivela infine sen­tieri di ricerca che andreb­bero ripresi. La denun­cia del ruolo delle «scienze sociali» come disci­pline volte a costruire il con­senso al potere costi­tuito, la denun­cia del carat­tere ottun­dente della par­cel­liz­za­zione del sapere che carat­te­riz­zava e carat­te­rizza la pro­du­zione cul­tu­rale hanno infatti una forza per­sua­siva in con­tro­ten­denza rispetto a quando accade nelle facoltà uni­ver­si­ta­rie al di là e al di qua dell’Atlantico, dove la ten­denza a defi­nire «ogget­tivi» cri­teri di valu­ta­zione e a misu­rare la qua­lità della ricerca scien­ti­fica e sociale in base al loro uti­lizzo eco­no­mico la fanno da padrone. Inte­res­sante sono quindi le pagine sull’autonomia dell’università dai poteri eco­no­mici e poli­tici: ele­mento tutt’ora indi­spen­sa­bile per garan­tire l’indipendenza dello stu­dioso e per argi­nare la ten­denza a misu­rare in base ai pro­fitti deri­vanti, diret­ta­mente come pro­prietà intel­let­tuale o indi­ret­ta­mente come inno­va­zione, dalla pro­du­zione cul­tu­rale.
Dun­que un libro che andrebbe riletto non per cer­care lumi sul pre­sente, ma per acqui­sire un’attitudine cri­tica rispetto la realtà capi­ta­li­stica, facendo così i conti con le tra­sfor­ma­zione che l’hanno carat­te­riz­zato. Non per riven­di­care una imma­co­lata auto­no­mia dello stu­dioso, ma per svi­lup­pare un’attitudine woo­bly, par­ti­giana nella pro­du­zione cul­tu­rale. L’unica che con­sente dav­vero di cono­scere la realtà.

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