sabato 6 settembre 2014

Tra Bertinotti e appelli improbabili, non smettiamo di farci male da soli

Quelle rilasciate a Repubblica, come quelle di qualche giorno fa, sono affermazioni - per altro già fatte ai tempi in cui era segretario del PRC - che confermano la debolezza culturale del Bertinotti autodidatta. Nel merito, non dovremmo nemmeno discuterne: non solo l'attenzione alla libertà individuale è un'acquisizione già consolidata nella nostra tradizione (già implicita nel modernismo di Marx, è stata elaborata in maniera particolare in Italia); ma quello dell individualismo liberale è un mito autoapologetico confutato dalla storiografia. La polemica di questi giorni, il fatto che stiamo a prendere sul serio Bertinotti, quindi, conferma semmai la subalternità culturale di gran parte della sinistra. E anche la nostra, visto che ci facciamo dettare anche i temi del dibattito interno.
Per la dialettica degli opposti, questa subalternità è presente anche nell'appello Il momento è ora!, con il quale alcuni dirigenti del PdCI vorrebbero ricostruire il Pci assieme ad altri dirigenti del Prc.
Certo, nella nostra situazione di disgregazione, questo appello rappresenta un passo in avanti apprezzabile, perché per la prima volta si fa una scelta di piattaforma politica: unità a partire da una omogeneità politico-culturale di fondo e sulla base di una linea di autonomia dal centrosinistra. E' dunque indice di una presa di coscienza: molti di quegli stessi quadri dirigenti che 6 anni fa  avevano impedito che l'iniziativa di "Comunisti Uniti" maturasse - perché non potevano guidarla loro e perché la consideravano "settaria", ovvero ostile alle alleanze con il PD -, sembrano infine aver capito, oggi, che la loro analisi di allora era sbagliata. Che queste alleanze sono cioè effettivamente impraticabili e che l'eccesso di governismo è stato un errore (vedi il giudizio sulla partecipazione dei comunisti al governo).
Al tempo stesso, però, nell'appello permangono purtroppo diversi margini di ambiguità che sarebbe opportuno correggere in tempo, pena la scarsa efficacia dell'appello stesso, e che proprio per questo non verrranno mai corretti.
La critica dell'opportunismo è messa sullo stesso piano della critica del settarismo, come a dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Come a dire, cioè, che al livello nazionale le alleanze non si fanno (anche perché il PD non le vuole...) mentre al livello locale si possono fare. Come avviene tuttora, senza che l'appello sollevi questo problema e addirittura con la copertura da parte dei firmatari dell'appello stesso.
L'appello parla poi della costruzione di una sinistra antiliberista nella quale forse si intende includere SEL. Sarebbe bene dirlo o escluderlo in maniera chiara, per evitare equivoci; perché se così fosse si aprirebbe immediatamente un ginepraio di contraddizioni: come si può, ad esempio, guardare agli elettori di SEL, la cui unica ragione di esistenza è la copertura del fianco sinistro del PD, e pensare di costruire un soggetto autonomo? Come ci si può rivolgere a loro ma anche a quelli del Movimento 5 Stelle? Si tratterebbe di due linee politiche inconciliabili.
Infine, l'auspicabile svolta autonomista nella linea politica è immediatamente contraddetta dal fatto che gran parte dei primi firmatari è stata fino a poco tempo fa impegnata e a volte è ancora impegnata, su posizioni teoriche e in esperienze politiche che hanno previsto, prevedono e prevederanno una collaborazione con il centrosinistra (come dimostra anche la continua interlocuzione con SEL e la partecipazione a esperienze amministrative in atto o in via di costruzione). Basta leggere l'elenco dei firmatari per vedere che questa strana resipiscenza di quadri che più a destra non si può è poco credibile.
Va detto che un altro punto debole è costituito dal fatto che questo appello arriva pressoché da un'unica area politica, sebbene oggi dispersa. La prospettiva di ricostruire un partito comunista rischia di tradursi dunque nella ricostituzione dell'area dell'ex Ernesto di diversi anni fa, tranne i fedelissimi di Grassi.
Proprio per cercare di estendere il più possibile il consenso di questa iniziativa - che potenzialmente potrebbe rappresentare un primo punto di partenza - sarebbe bene che i promotori si fermassero un momento e allargassero il tavolo di confronto ad altri soggetti, invece di presentare loro una piattaforma unilaterale già pronta. Il rischio di un'ulteriore occasione mancata, altrimenti, è molto forte [SGA].

La svolta di Bertinotti “Sono anche liberale e il Papa è un profeta”Resto comunista, ma vedo la nostra sconfitta storica Ora bisogna mescolarsi Non mi perdonano la crisi di Prodi: ci sono state anche rotture sul piano umanointervista di Tommaso Ciriaco Repubblica 5.9.14

ROMA «Dopo la sconfitta, abbiamo gli occhi più liberi per vedere quel che cresce nel campo dell’altro. Il pensiero liberale riesce a fare dell’individuo l’alfa e l’omega della misura del carattere democratico della società, mentre il capitalismo finanziario globale lavora all’annullamento dell’autonomia della persona». Ecco il nuovo Fausto Bertinotti: «A me tutto questo interessa, mentre un tempo lo consideravo come un elemento collaterale perché pensavo che l’eguaglianza stesse sopra. Resto comunista, ma vedo la nostra sconfitta storica».
È il tempo di mescolarsi con liberalismo e cattolicesimo politico?
«Sì, per ritornare sulla scena da protagonisti. Individuando ciò che è rimasto vivo nelle tre culture: nel marxismo l’eguaglianza, nel pensiero liberale il valore dei diritti individuali. Perché i Radicali fanno una battaglia di civiltà sulle carceri e noi no?».
Qualcuno dei tre pensieri ha perso meno degli altri?
«Forse la Chiesa ha perso di meno, è meno malconcia. Ha una leadership all’altezza della sfida. Il Pontefice pronuncia parole profetiche sulla guerra, capitalismo e immigrazione».
A proposito: il suo rapporto con la fede è cambiato?
«L’interesse per il cristianesimo è da sereno non credente».
E nel campo della sinistra c’è qualcuno che ha perso meno?
Il Pd?
«C’è chi ha perso, noi. E chi ha subito una mutazione genetica: così, però, fai finta di perdere e corri in soccorso del vincitore. Non è che l’Urss ha perso e c’è una piccola Urss...».
Non c’è il Pd a riunire gli eredi di queste culture?
«L’incontro può avvenire sul terreno della critica al capitalismo. Il Pd fallisce perché pensa di accompagnare la rivoluzione capitalistica. E sceglie la cultura della governabilità».
A sinistra non le perdonano la
crisi di Prodi. Le pesa?
«Il ‘98 non fu un errore: fummo preveggenti, si andava verso l’Europa di Maastricht. Mi rimprovero però una cosa, il nostro governo aveva una chance: c’era Jospin e agganciarlo sarebbe stato straordinario... Comunque, non me lo perdoneranno: sapevo di mordere nel corpo vivo della sinistra. Fu una vicenda dolorosissima, umanamente alcune rotture sono rimaste».
Prodi l’ha più sentito? E D’Alema?
«Con alcuni ho rapporti di amicizia, con altri no. Ma riguarda il privato».
La scena, in questa fase, è dominata da Renzi.
«È un grande surfista, il primo grande leader post moderno. Ma il renzismo è la piena accettazione di una sovranità di governo della Troika e della Bce».
Allora a che forza guarda chi, oggi, la pensa come lei?
«All’attesa della rivolta. Pacifica. Indignados, Occupy Wall Street, no-Tav, le primavere arabe… L’attesa è dei barbari senza barbarie: l’operaio di Secondigliano, il precario».
Questa visione la conduce all’astensione.
«Non è detto. Alle Europee ho votato Tsipras. Mi conduce a dire che il voto non è più la via maestra, non puoi aspettarti dal voto il cambiamento».
Intervistato dal direttore di Radio Radicale lei critica anche il sindacato.
«La concertazione è diventata la regola, i salari sono tra i più bassi d’Europa. La Fiom e alcune aree del sindacalismo extra confederale sono esperienze importanti, ma non cambiano la direzione di marcia dei confederali. E poi, perché gli 80 euro non sono stati conquistati dal sindacato? E perché non chiedere di estendere a tutti l’articolo 18?».
La provoco: è vero che da sindacalista non firmava contratti?
« Se mi chiedono in punto di morte, rispondo che sono stato un sindacalista. Ho passato una vita a firmare accordi. Anche brutti».



Paolo Ferrero, l’ultimo comunista da talk showdi Fulvio Abbate  il Fatto 6.9.14

Il piemontese Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, o ciò che ne resta in forma di federazione con il Pdci che un tempo avanzava ai cortei con il faccione di Cossutta a scanso di equivoci estremistici, è persona garbata e degna di massimo rispetto plebiscitario, dove il senso della tolleranza che gli viene forse anche dall’appartenenza alla comunità dei Valdesi, così averlo visto l’altra mattina in affanno tra gli ospiti di Agorà, Raitre, ci è sembrata cosa non buona né giusta. Ci ha ricordato addirittura la crudele barzelletta dell’ossobuco narrata, un tempo, dal compianto Gino Bramieri: c’è un signore che scommette di vincere anche la porzione dell’amico, alla fine è sua, peccato però quel giorno l’ossobuco non sia previsto nel menu, oh, maledizione!
Già, il punto non riguarda l’attendibilità degli argomenti offerti dal comunista Ferrero, (nei talk-show ciò che conta è la prontezza, non certo il ragionamento, il pubblico a casa, anzi, ricorderà soprattutto la battuta, meglio se grossolana, se così non fosse d’altronde un’ospite di scarsa consistenza politica come Alessandra Mussolini non avrebbe seguito e pacchi di ammiratori), temi che scrutano innanzitutto ciò che marxianamente, sia detto senza offesa, definiremmo la “struttura”, ossia lavoro, salario, capitale, e ancora occupazione, sindacato, pensioni, costo della vita, parametri economici, ecc.
COSÌ, come nel caso dell’uomo cui viene negato il premio dell’ossobuco della barzelletta in bianco e nero di Bramieri, allo stesso modo a Paolo Ferrero si negava d’esistere sul piano inclinato della discussione, nonostante l’evidente discrepanza qualitativa tra lui e alcuni suoi dirimpettai lì in studio: non penserai mica che possa esserci spareggio possibile tra Ferrero e Michel Martone, o con il pur amabile per maschera e contegno Ignazio Abrignani di Forza Italia, no? D’altronde anche la concretezza delle obiezioni del giornalista tedesco Udo Gumpel trovavano scarsa attenzione, un po’ per antipatia diffusa verso ogni forma di invito al senso di responsabilità e un po’ perché chi fa troppo il serio in televisione può essere visto perfino come zampirone caccia ascolti, peggio se straniero: e che cazzo ci vuole dire questo che viene da fuori?
Il mite Ferrero, a un certo punto, si è trovato perfino costretto ad abbandonare la sua risaputa misura – “tra poco smetto di essere educato” (sic) – nel caso non gli fosse stato consentito di replicare ai suoi cinici interlocutori, e qui forse, per onestà verso lo stato delle cose, ci sembra proprio il caso di aggiungere le nostre sensazioni sul sottotesto mediatico che riguarda ormai l’esistenza stessa delle opzioni di sinistra, se non addirittura comuniste, ovvero una sorta di immenso “ancora tu? ” Dove il successivo “... ma non dovevamo vederci più? ” è foriero, al di là delle oggettive responsabilità delle parti in causa, del grande adagio della semplificazione dialettica che probabilmente ci ucciderà tutti. Ferrero libero!

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