venerdì 19 settembre 2014

Un carteggio di De Roberto tra la Sicilia e Milano

«Si dubita sempre delle cose più belle». Parole d'amore e di letteraturaFederico De Roberto: Si dubita sempre delle cose più belle, cure di Sarah Zappulla Muscarà e di Enzo Zappulla, Bompiani, pagine 2.132, e 35

Risvolto
Il corposo carteggio bilaterale fra Federico De Roberto e la nobildonna Ernesta Valle Ribera, ribattezzata Renata (perché "rinata" all'amore) o Nuccia (diminutivo di "femminuccia"), copre un lungo arco di tempo in un intricato, pertinace intreccio di temi intimi e letterari. Un'ardente storia d'amore che ci rivela aspetti ignorati dell'austero e schivo autore de "I Viceré" e insieme della vita mondana, sociale, culturale dei due poli fra cui si snoda, Milano e Catania, dalla fine dell'Ottocento ai primi del Novecento. Meta prediletta di De Roberto, al pari dei sodali Verga e Capuana, sospinti da un senso d'irrequietezza, da un'aspirazione a più vasti orizzonti, Milano rappresenta, e il carteggio ne è ampia testimonianza, la capitale dei poteri mediatici, finanziari, culturali, la città più progredita, operosa, ricca di vivacità artistica e di brulicanti iniziative, con le sue prestigiose case editrici (i Fratelli Treves, Galli), le grandi testate giornalistiche (il "Corriere della Sera", la rivista "La Lettura"), i rinomati teatri (la Scala, il Manzoni, il Filodrammatici, il Lirico, l'Eden), gli eleganti ritrovi (il Biffi, il Cova, il Savini, il Caffè dell'Accademia), gli elitari salotti (di donna Vittoria Cima, di Virginia Borromeo, della stessa Ernesta Valle Ribera). È lì che gli sono consentite assidue frequentazioni con i maggiori esponenti dell'intellighentia dell'epoca, giornalisti, scrittori, editori.

I palpiti di De Roberto per «Renata» 
Settecento lettere in sei anni. Gioie e tormenti di una passione sbocciata a Milano 
Giovedì 18 Settembre, 2014 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
Sotto la voce Spasimo , titolo di un giallo passionale di Federico De Roberto, potrebbe essere rubricato anche il lungo carteggio tra lo scrittore siciliano e la gentildonna Ernesta Valle Ribera. Nello stesso anno, 1897, dell’uscita in volume del romanzo, ed esattamente il 29 maggio, i due si conoscono, nel salotto milanese di casa Borromeo, e si innamorano. «Da quel giorno, voglio dire da quella sera, cominciò la mia felicità», annoterà qualche mese dopo De Roberto. Lei è la ventunenne moglie dell’avvocato messinese Guido Ribera, madre di un bambino di 5 anni e titolare, nell’abitazione di via Romagnosi 3, di uno dei più prestigiosi salotti della mondanità intellettuale cittadina del tempo, in cui circolano giornalisti, scrittori, editori del calibro di Eugenio Torelli Viollier, Luigi Albertini, Domenico Oliva, Giuseppe Giacosa, Ugo Ojetti, Arrigo Boito, Emilio e Giuseppe Treves... Lui, trentaseienne, è l’affermato autore de I viceré , poco meno di un decennio prima introdotto dall’amico Verga negli ambienti che contano del capoluogo lombardo, collaboratore del «Corriere» da circa un anno. 
Con i suoi poderosi e volitivi baffi a manubrio e con l’immancabile monocolo nell’occhio destro che gli ha fatto guadagnare l’appellativo scherzoso di Lord Caramella, il 4 ottobre De Roberto redige le tappe del calendario amoroso: il primo, il secondo, il terzo incontro in cinque giorni, il passaggio dal voi al tu (dopo un mese e mezzo!), i luoghi della passione più o meno clandestina: non solo via Romagnosi, ma via Jacini, via Pietro Verri, Porta Volta, Crescenzago... Due giorni dopo, il 6, Federico si trova già sul piroscafo «Birmania», che da Genova lo porta verso la sua Catania, e anche da lì scrive all’amata evocando le loro madeleines . 
Tutto ciò lo veniamo a sapere scorrendo l’epistolario dei due amanti, che durerà fino al 1903, intensissimo nei primi cinque anni, poi lievemente diradato via via che la passione tende a intiepidirsi: è un corpus ingente, di 764 epistole, custodito nella Biblioteca regionale di Catania e che ora emerge integralmente grazie alle cure di Sarah Zappulla Muscarà e di Enzo Zappulla (Si dubita sempre delle cose più belle , Bompiani, pagine 2.132, e 35). Un carteggio di spasimi e di tormenti per la lontananza, di baci e di carezze a distanza, con il lasciarsi, il pensarsi e il ritrovarsi, di enfatiche e vibranti accensioni sensuali («tutta nuda nell’anima come l’ho vista e tenuta e baciata e bevuta e goduta tutta nuda nel corpo adorato e divino»), con gli scorci familiari e la vita quotidiana, le strategie, i timori — più che vere e proprie paure — di essere stanati: il marito di lei, per altro, sembra a tratti serenamente consapevole e ogni tanto entra nella corrispondenza per rivolgersi all’«Egregio amico». Senza dimenticare la tormentosa officina scrittoria di De Roberto, decisamente soggetta all’instabilità ondivaga della sua salute fisica e morale, accampata spesso a mo’ di giustificazione (o di alibi?) per le mancate promesse di raggiungere Ernesta, ribattezzata, nel codice amoroso, Renata (ovvero «rinata» all’amore), Nuccia, da un non proprio elegante «femminuccia», e ancora: Anima, Creatura sacra, Dolce Amor mio... 
Più dell’amore, in realtà, poté la madre di lui, donna Marianna Asmundo Ferrara, che viene citata dal figlio con devozione e quasi con ansia adolescenziale, e la cui ombra lunga appare pressoché ad ogni pagina: è lei che in definitiva, lamentandosi della lontananza, gli impone di tornare a Catania: «perché è già molto tempo che sei fuori casa, perché viene l’inverno e tu sai che d’inverno ho bisogno di compagnia». Il tono è tassativo e Rico non riesce a sottrarsi al proprio «dovere» (starsene a Catania con lei), sicché le lettere sono un continuo tira e molla tra l’ardore amoroso e il senso di colpa filiale. 
Il volume è ottimamente annotato per quanto riguarda le notizie storiche e bio-bibliografiche, ma è un peccato che per conoscere esattamente i pochi estremi ricostruibili della vita di Ernestina Emilia bisogna arrivare alla nota 1 della lettera 29: è lì che veniamo a sapere che la protagonista delle lettere è nata a Ventimiglia nel 1876, figlia di Giuseppe Valle, un impiegato di Valle Lomellina, e di Adelaide Corradi. Nulla sappiamo della sua cultura, ma è un fatto che De Roberto, malgrado tutta la misoginia che gli conosciamo, le si rivolge con estrema considerazione intellettuale, chiedendole consigli sul proprio lavoro ed accogliendoli non di rado, distratto com’è dai pressanti impegni giornalistici e dalle delusioni che ne derivano: a partire dalla promessa di Albertini, non mantenuta, di essere chiamato a Milano come redattore de La Lettura , il mensile che a partire dal 1901 verrà varato dal «Corriere» sotto la direzione di Giuseppe Giacosa e con l’aiuto di Alberto Albertini, fratello del direttore, che assumerà il ruolo previsto per De Roberto. 
La rottura con Albertini, che Renata accusa di ingratitudine e villania, sopraggiunge nel 1902 (anche se la collaborazione si protrae stancamente fino al 1911), contribuendo non poco alla depressione di De Roberto e al definitivo tramonto della speranza di trasferirsi a Milano con una ragione professionale da far valere al cospetto della severa madre. Siamo ormai lontani dall’effervescenza degli anni precedenti, quando lo scrittore inviava alla sua Nuccia pacchi di libri da leggere, da Maupassant a Dostoevskij, da Zola a Tolstoj, sollecitandone pareri e impressioni. Letture che entravano a vivificare il suo work in progress , che costituisce uno dei motivi più interessanti del carteggio: a partire dalla prefazione alle novelle de Gli Amori , arditamente dedicata proprio a R.V., cioè alla signora Ribera-Valle, come terrà a precisare ironicamente il marito di lei in una lettera allo scrittore, ipotizzando tra i due almeno una «disquisizione letteraria» sul tema. 
A proposito dell’officina, va anche segnalato il continuo accenno, dal 14 gennaio 1900, a quel «gran romanzo sociale», L’Imperio , ideale prosecuzione de I viceré , progetto a cui De Roberto lavora da anni e che adesso («se mi rimetterò in carreggiata») vorrebbe riprendere, vincendo la depressione e la malinconia, pur senza grandi speranze di farcela: «E questa è la mia vita, propriamente degna d’essere strozzata con tutt’e due le mani, se non fosse il ricordo, la visione, il pensiero e la speranza di Nuccia». Il romanzo, si sa, resterà in forma di abbozzo e uscirà postumo nel 1929. Ci sono poi le aspirazioni e le ambizioni teatrali, su cui Renata dà il meglio di sé, consigliando a Rico, in preda alla «follia del dubbio» a proposito della riduzione di Spasimo , di trasformare quel dramma «troppo pensato» in un testo più «parlato»: De Roberto le riconoscerà di averlo spronato più di chiunque altro a «correggere il difetto», rendendo il tutto «più rapido e movimentato ». 
Va da sé che a far da sfondo alle lettere ci sono da una parte la Catania delle chiacchiere e delle passeggiate oziose a cui De Roberto si sente «inchiodato» e dall’altra la Milano intellettuale e mondana. I teatri: la Scala, il Manzoni, il Filodrammatici, il Lirico... I ritrovi più eleganti: il Biffi, il Cova, il Savini, i salotti con quella ritualità di ipocrisie e di sotterfugi, di detto e non detto, ma anche di sfrontatezza, da cui poteva nascere, talvolta, un vero delirio amoroso.


Il De Roberto innamorato 
Per Croce lo scrittore dei «Vicerè» fu uomo sentimentalmente arido e glaciale: ma l’epistolario con Ernesta Valle, conosciuta a milano nel salotto Borromeo, ce lo descrive in tutto il suo ardore e nelle fibrillazioni di un Edipo feroce
Massimo Raffaeli, il Manifesto 12.10.2014
Aveva detto di lui Bene­detto Croce, in una delle sue più cele­bri stron­ca­ture, che un inge­gno così pro­saico era inca­pace sia di illu­mi­nare l’intelletto sia di far bat­tere il cuore. Croce si rife­riva ovvia­mente all’occhio vitreo che sor­ve­glia la mac­china de I Viceré sot­ta­cendo le parti che in quel grande con­ge­gno poli­fo­nico tra­scen­dono la prosa esatta o gla­ciale del natu­ra­li­smo e omet­tendo oltre­tutto di citare le zone di inven­tiva più sbri­gliata che segnano, quando non intac­cano, la più vasta e dise­guale pro­du­zione di Fede­rico De Roberto, a comin­ciare da un romanzo, una crime story tra­ve­stita da love story o vice­versa, dal titolo emble­ma­tico, Spa­simo, del 1896. Infatti De Roberto, per para­dosso spe­cu­lare, fu un uomo non sol­tanto afflitto in vita sua dagli insuc­cessi com­mer­ciali e da una ambi­gua rice­zione cri­tica, ma anche un indi­vi­duo di carat­tere emo­tivo, insi­curo, sen­ti­men­tal­mente irri­solto, sog­getto a disturbi neu­ro­ve­ge­ta­tivi e psi­co­so­ma­tici fino alla morte soprag­giunta per trauma da sve­ni­mento, nel luglio del ’27, quando aveva appena ses­san­ta­sei anni e da tempo era tor­nato a Cata­nia, per sem­pre disil­luso e scet­tico, con­ten­tan­dosi di scrit­ture late­rali ed eru­dite da cui comun­que fuo­ru­sci­vano, a sbalzo o per sopras­salto di un’arte sovrana, schegge di asso­luta per­fe­zione quali per esem­pio la novella La paura, oggi cele­brata come un capo­la­voro e, sia pure fir­mata da un mite patriota, come un poten­ziale mani­fe­sto di antimilitarismo. 
Fatto sta che fino all’ultimo, e durava dai suoi dieci anni, quel genio del romanzo ita­liano aveva avuto l’esistenza ipo­te­cata, di fatto coar­tata e mas­sa­crata, da Marianna Asmundo sua madre, pre­co­ce­mente vedova di Fede­rico senior, nobil­donna dal fisico minuto ma di indole tanto impe­riosa e pos­ses­siva da imporre a Fede­rico junior una tutela che costui rice­veva insieme con i sin­tomi – sono parole sue – di una vera e pro­pria iste­ria al maschile. Dun­que gli anni di appren­di­stato a Milano, fra il 1888 e il ’97, cul­mi­nati nell’amicizia con Luigi Alber­tini e la col­la­bo­ra­zione al Cor­riere della sera, non erano stati solo un ten­ta­tivo di accre­di­ta­mento let­te­ra­rio e pro­fes­sio­nale, sol­le­ci­tato dai tra­scorsi dei mae­stri veri­sti (e su tutti, a lui sem­pre caris­simo, da Gio­vanni Verga), ma anche la fuga dal giogo materno e nel frat­tempo la ricerca di una pro­pria indi­vi­dua­zione affet­tiva e sen­ti­men­tale. La quale, breve e bru­ciante, con un lungo stra­scico di nostal­gia e rim­pianto, avvenne nell’imminenza del ritorno a Cata­nia e coin­volse una donna incon­trata nel salotto di Casa Bor­ro­meo, Erne­sta Valle, spo­sata all’avvocato mes­si­nese Guido Ribera, dallo scrit­tore imme­dia­ta­mente detta, con nom de plume, «Renata» a con­tras­se­gno di una rina­scita car­nale e spirituale. 
Per lo più postumo a un amore che dovette essere spon­ta­neo, reci­proco e squas­sante, è il car­teg­gio ora con­te­nuto in un volume pon­de­roso, «Si dubita sem­pre delle cose più belle» Parole d’amore e di let­te­ra­tura (a cura di Sarah Zap­pulla Muscarà e Enzo Zap­pulla, Bom­piani, «Saggi», pp. 2.132, euro 35.00). Resi­duato fra le carte dero­ber­tiane custo­dite alla Biblio­teca Uni­ver­si­ta­ria di Cata­nia, l’epistolario si com­pone pre­ci­sa­mente di 764 pezzi (rela­ti­va­mente più nume­rosi, circa di un terzo, quelli a firma di Erne­sta Valle) che i cura­tori anno­tano con sobria pun­tua­lità senza mai pre­va­ri­care un con­ti­nuum epi­sto­lare che, per essere colto nel pro­fondo, va per­corso al ritmo di una emo­ti­vità, tipica dei colpi di ful­mine, a tratti per­sino osses­siva. Dolce, ricet­tiva, acco­gliente è «Renata» (let­trice e ammi­ra­trice di lui già prima dell’innamoramento) tanto da essere una sponda ovvero una spar­ring ideale, quanto è invece esu­be­rante e incal­zante Fede­rico che per solito usa la let­tera come un dia­rio di bordo asso­ciando le espres­sioni pro­prie di un inna­mo­rato (nel qual caso ardente e volen­tieri ardito, insi­nuante) a noti­zie su incon­tri, occa­sioni di lavoro, pro­blemi eco­no­mici o fami­liari e spe­cial­mente let­ture e scritture. 
Redatto grosso modo fra il 1897 e il 1903 con appen­dici caden­zate fino al 1916, si tratta di un pri­va­tis­simo jour­nal come è ben detto nella intro­du­zione: «Mania­cale la pedan­te­ria con cui De Roberto informa l’amante di tutto, fin nei minimi det­ta­gli, quasi un ‘dia­rio di bordo’, gre­mito di rei­te­rate indi­ca­zioni tem­po­rali care a un’ossessiva litur­gia delle ricor­renze. Ulte­riore con­ferma dello scru­polo osses­sivo del docu­mento, dell’indagine minu­ziosa, delle ricer­che d’archivio, dell’analisi spie­tata che ne sor­reg­gono gli scritti». In effetti «Si dubita sem­pre delle cose più belle» è una miniera a cielo aperto, una auto­bio­gra­fia di De Roberto attra­verso le let­tere fis­sata in un fran­gente deci­sivo, ma il volume è prova ulte­riore della qua­lità filo­lo­gica e cri­tica di quanti, nelle uni­ver­sità sici­liane, atten­dono da tempo agli studi sullo scrit­tore cata­nese e ne pro­pi­ziano una rice­zione inte­gral­mente rin­no­vata oltre l’interdetto di Croce e gli apporti bene­me­riti, dav­vero pio­nie­ri­stici, di Luigi Bal­dacci, Vit­to­rio Spi­naz­zola, Mario Lava­getto e Carlo A. Madri­gnani: e qui vanno men­zio­nati, oltre a Sarah Zap­pulla Muscarà, ottima edi­trice del car­teg­gio, senz’altro Nun­zio Zago, Natale Tede­sco, Paolo M. Sipala, Giu­seppe Traina e quell’Antonio Di Grado che, con La vita, le carte, i tur­ba­menti di Fede­rico De Roberto gen­ti­luomo (Bonanno 2007), ci ha dato di recente la pic­cola bib­bia dei let­tori derobertiani. 
Quanto all’importanza del car­teg­gio, baste­rebbe men­zio­nare la let­tera del 3 giu­gno 1902 dove lo scrit­tore si pro­fonde sulla reda­zione del romanzo che avrebbe dovuto chiu­dere la tri­lo­gia inau­gu­rata da L’illusione nel 1891, pro­se­guita tre anni dopo dalla pub­bli­ca­zione de I Viceré, l’epopea della fami­glia Uzeda di Fran­ca­lanza, cam­pioni di tra­sfor­mi­smo, la cui con­clu­sione avrebbe dovuto essere appunto L’Imperio (romanzo par­la­men­tare sull’ultimo degli Uzeda, il depu­tato Con­salvo, dall’autore defi­nito un libro «ter­ri­bile»), un testo con­ce­pito nel 1893-’95, rifo­cil­lato di appunti e scene dal vero cat­tu­rate nel sog­giorno a Roma fra il 1908 e il ’13, mai por­tato a ste­sura defi­ni­tiva e infatti uscito postumo solo nel 1929. È scritto in quella let­tera: «Ho preso pure il vec­chio mano­scritto del romanzo che doveva far seguito ai Viceré. (…) Fac­cio que­sto ten­ta­tivo di ritorno all’arte senza fede e senza nep­pure altra spe­ranza che quella di rica­vare, chi sa quando, un migliaio di lire dal lavoro di chi sa quanto tempo. E que­sta è la mia vita, pro­pria­mente degna d’essere stroz­zata con tutt’e due le mani, se non fosse il ricordo, la visione, il pen­siero e la spe­ranza di Nuccia».
Ma «Nuc­cia», cioè la dolce Erne­sta e cioè «Renata», è già lon­tana e pros­sima a uscire gra­dual­mente dalla sua vita. A lui resta la soli­tu­dine di Cata­nia, l’astenia e i disturbi su cui è tor­nata a invi­gi­lare la dit­ta­tura edi­pica di sua madre Marianna, per­ché gli ultimi anni di Fede­rico De Roberto sono quelli di un deserto sen­ti­men­tale su cui non pos­sono più nulla né i ricordi né il nostal­gico rim­pianto di un amore che fu grande e però impos­si­bile: un ex fasci­sta che si era lau­reato con una tesi su di lui, Vita­liano Bran­cati, se lo ricor­derà molti anni dopo come un uomo per­pe­tua­mente solo, a spasso per via Etnea con un’aria di cor­tese indif­fe­renza, la cara­mella all’occhio destro, chiuso den­tro la sua «pesante arma­tura di one­stà», la stessa che Bene­detto Croce aveva pur­troppo scam­biato per una sua ingua­ri­bile, ata­vica, ari­dità sentimentale.

Il De Roberto innamorato che non conoscete
Pubblicato da Bompiani il carteggio tra l'autore de “I viceré” e l'amante Renata Valle Ribera. A cura di Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla
Alessandra Bernocco 

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