Un bilancio dei problemi che assillano il pianeta: la scomparsa del lavoro, la natalità incontrollata, l’eclissi della razionalità
Giovanni Sartori Corriere La Lettura
La debolezza delle regoledi Ernesto Galli della Loggia Corriere 7.9.14
Con la presenza nelle proprie file di un numero rilevante di persone provenienti da Europa e Usa la sfida che il cosiddetto Stato Islamico e il terrorismo jihadista lanciano all’Occidente non è più solo, e tanto, una sfida di carattere militare. È una sfida diretta a quello che forse è stato negli ultimi decenni il principale luogo comune culturale che ha dominato le élite e quindi le opinioni pubbliche di questa parte del mondo.
È una sfida al multiculturalismo. All’idea cioè che debbano (e quindi possano) esistere società con una molteplicità di culture anche diversissime: basta che vi siano regole capaci di assicurarne la pacifica convivenza. Dando così per scontati due assunti che invece non lo sono per nulla: a) che le regole (per esempio la parità dei sessi o l’habeas corpus ) siano in qualche modo neutrali, universalmente accettate e accettabili, e non siano invece, come sono, il prodotto di valori storici propri di certe culture ma non di altre; e b) che le società siano tenute insieme principalmente dalle regole, dai codici e dalle Costituzioni, piuttosto che da legami identitari profondi, dalla condivisone innanzi tutto psicologica ed emotiva dei valori storici di cui sopra. Per capirci: se ogni cittadino di questa parte del mondo ha un soprassalto di repulsa nel vedere un crocifisso fatto a pezzi o una sinagoga data alle fiamme, non è perché ci sia una legge che vieti queste cose, ma per ragioni che con ciò non hanno nulla a che fare, e che semmai sono la premessa necessaria di una tale legge. Le regole, le leggi, funzionano, per l’appunto, solamente se premesse del genere esistono.
Le società occidentali attuali, viceversa, sembrano essersi fatte un punto d’onore nel progressivo indebolimento dei loro valori identitari, del legame con la tradizione culturale, dunque con la storia, sostituiti da una vera e propria fissazione, all’opposto, sulle regole e su chi e come le amministra (dai giudici ai tribunali). Da tempo, in tal modo, esse appaiono sempre più avviate sulla strada dell’astrattezza e del formalismo, in una parola dell’irrealtà. Non a caso: per ambire a qualche consistenza, infatti, il sogno multiculturale ha bisogno di una società senza valori e senza storia, bensì costituita e retta solo da regole universali assurte esse, in quanto tali, al rango di valori supremi. Con le conseguenze sulla dimensione stessa del «politico», nonché sulla consistenza della cultura politica e la capacità di decidere delle loro leadership , che sono sotto gli occhi di tutti.
L’intera politica dell’immigrazione e dell’accoglienza praticate dai Paesi dell’Europa occidentale — un’immigrazione proveniente in prevalenza dalla grande area della cultura islamica — si è ispirata al sogno multiculturale di cui sto dicendo. Un sogno che comporta come primo risultato la convinzione che nulla bisogna fare affinché chi giunge nei nostri Paesi sia indotto a integrarsi assimilandone i tratti culturali, cioè gli unici che possono produrre anche il rispetto delle loro regole (sì da ottenere in tal modo — ma solo in tal modo — anche la piena cittadinanza in un tempo ragionevole).
Il caso limite che indica dove possa portare una prassi del genere è quello della Gran Bretagna, dove alle comunità islamiche è stata riconosciuta senza troppi problemi la cittadinanza, ma insieme, paradossalmente, anche la facoltà di auto amministrarsi dando loro la possibilità di applicare al proprio interno addirittura le regole della sharia . Con la conseguenza, per esempio, di cui si è saputo di recente, di autorità di polizia spinte a chiudere gli occhi su una catena di crimini gravissimi (pedofilia, stupri, avviamento alla prostituzione, traffico di esseri umani), verificatisi all’interno di una di queste comunità, per il timore che perseguirli avrebbe significato tirarsi addosso l’accusa di etnocentrismo, di pregiudizio culturale, magari di islamofobia o chissà cos’altro. Come meravigliarsi allora se proprio dalla Gran Bretagna proviene il maggior numero di persone con passaporto europeo — non necessariamente di origine islamica, ci sono anche dei convertiti — accorse ad arruolarsi nelle schiere del Califfato di Al Baghdadi? Ma la Gran Bretagna è solo la parte di un tutto. La Gran Bretagna siamo noi con le nostre società. Società che ormai credono illegittimo in qualunque ambito non dico imporre, ma neppure suggerire, criteri di comportamento sulla base di ciò che è bene e ciò che è male, e al massimo affidano questo compito solo al codice penale (seppure…); che svalutano sistematicamente qualunque cosa sia considerata parte di una tradizione (dalla fede religiosa all’eredità culturale); che sembrano sempre più convinte che neppure più la natura costituisca un limite per checchessia. Ebbene, i combattenti europei sotto le bandiere dello Stato Islamico, in specie quelli che arrivano dalle nostre società, ci mandano a dire che, declinati a questo modo, i valori di libertà e di tolleranza che noi ci ostiniamo a credere così attraenti e desiderabili da tutti — anche da chi approda tra noi provenendo dai più lontani altrove — a una parte del mondo e alle sue culture, invece, non piacciono per nulla. Anzi, non pochi di coloro che ne fanno parte li considerano quanto di più ostile possa esistere al loro più intimo modo di essere, quanto di più contrario al modo in cui essi concepiscono una collettività umana: fino al punto di impugnare un coltello per sgozzare chi in qualche modo rappresenta quei valori che sono i nostri.
Non è allora venuto il momento di chiederci in quanti altri casi la nostra libertà produca in realtà solo odio e disprezzo? Di domandarci una buona volta perché ciò accade, se per avventura non ci sia qualcosa nel progetto multiculturale che non funziona? Non è per nulla detto, infatti, che le culture siano nate per intendersi. Forse, anzi, è tragicamente vero il contrario; così come sicuramente è vero che a cambiare le cose non bastano né i sogni né tanto meno i buoni sentimenti.
L’inizio del Secolo asiatico
di Dario Di Vico Corriere 6.9.14
Mai a Cernobbio l’Asia si era fatta sentire con questa forza. Ogni anno sono presenti al workshop Ambrosetti uno o più economisti cinesi ma il dibattito è rimasto prevalentemente sul terreno delle ricognizioni e delle ricette economiche. Ieri invece Kishore Mahbubani, ex ambasciatore ed accademico di Singapore, ha lanciato alla platea la sfida del «secolo asiatico» usando toni perentori, in qualche passaggio anche provocatori. Il messaggio, alla fine, non poteva essere più secco: «Cari amici occidentali, vi dovete rassegnare alla novità: questo alla fine sarà il secolo asiatico». E’ terminata l’era della dominazione occidentale della storia mondiale, che non vuol dire «la fine dell’Occidente» ma la chiusura di un ciclo storico basato sul primato assoluto di americani ed europei. «Ci sono oggi altre civiltà di successo e il Pil cinese a breve supererà quello statunitense. Sarebbe la prima volta in 200 anni».
Il mondo visto da Singapore è in rapido mutamento, diventa poliarchico e mai come adesso sarebbe decisivo rafforzare la personalità delle istituzioni internazionali di governance. «Gli americani - ha continuato imperterrito Mahbubani - hanno invece sempre preferito avere organismi deboli, segretari generali dell’Onu fragili e influenzabili. Chissà se quando capiranno di non essere più la potenza economica numero uno, allora cambieranno idea. Comunque cari amici, non potete più continuare a spartirvi tranquillamente tra americani ed europei le presidenze del Wto, del Fondo Monetario e della Banca Mondiale. Quell’epoca è finita, tocca ad altri».
La prospettiva del secolo asiatico è resa credibile non solo dalla straordinaria avanzata delle economie emergenti sull’onda della globalizzazione ma anche dai processi di riforma avviati dai leader lungimiranti che, a parere di Mahbubani, oggi guidano India, Cina e Indonesia. «Non è più possibile che l’Europa abbia il 7% della popolazione, il 25% del Pil e il 50% della spesa sociale mondiale. E’ un equilibrio che non si tiene più». Così come c’è bisogno di elaborare una politica nuova, da parte dell’Occidente, nei confronti del mondo islamico. «Va capito e abbracciato. La civiltà occidentale non può apparire agli occhi dei musulmani solo quella che lancia bombe». Deve essere, invece, capace di parlare alle nuove classi medie dei Paesi asiatici che vogliono copiare i valori occidentali, «ma smettete di dare lezioni dopo quello che è accaduto a Guantanamo, ci vuole un dialogo bi-univoco sui valori e non lezioni dalla cattedra. L’ascolto deve essere reciproco».
Mahbubani ha citato l’influenza del Giappone nel Sud-est asiatico come un caso positivo di esportazione «del virus della modernizzazione». E poi rivolto agli imprenditori italiani presenti in sala l’ambasciatore ha tirato fuori dal cilindro anche una proposta: «Scegliete un Paese del Nord Africa e fatene un test di questo tipo di dialogo e di avanzamento della modernizzazione. Se volete, vi suggerisco anche quale: la Tunisia».
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