domenica 19 ottobre 2014
Fine del conflitto generazionale o dissolvimento della dialettica generazionale nella crisi?
Proprio mentre Renzi scatena gli animal spirits delle generazioni più giovani verso i loro padri cinquantenni, questo libro sembra sostenere una tesi diversa. In realtà, lo scannamento generazionale - che serve a coprire il vero conflitto di classe - è rivolto prevalentemente verso la generazione dai 50 in su. Quelli sotto questa età, sono tuti egualmente schiantati e dunque molto più simili tra loro. Non gli resta - non ci resta - che inebetirci nel consumo e nell'illusione dell'autenticità [SGA].
Marco Aime, Gustavo Pietropolli Charmet: La scomparsa dei riti di passaggio, Einaudi
Risvolto
Adulti che vivono come adolescenti,
adolescenti che sembrano già adulti.
In un mondo in cui non esistono piú
i conflitti generazionali,
come si fa a diventare grandi?
Nella materia liquida di questo tempo
che indebolisce ogni gerarchia, i conflitti
tra le generazioni sembrano passati
di moda. Genitori e figli si trovano
vicini all'improvviso, tanto nei comportamenti
quanto nel modo di guardare
il mondo, in famiglie che, invece
di essere allargate, sono «allungate». Al
posto del classico rapporto di subalternità,
compare cosí una condizione piú
complice e paritaria, che in alcuni casi
si trasforma in vera e propria amicizia.
Un fatto all''apparenza positivo, ma che
nasconde una questione cruciale: non
è sulla frattura condivisa tra giovani e
adulti che si struttura l'identità?
In questo libro Marco Aime e Gustavo
Pietropolli Charmet affrontano la
progressiva svalutazione di quei riti di
passaggio, come la leva militare o il fidanzamento,
che scandivano fino a ieri
lo sviluppo del nostro ruolo sociale, e
le sue conseguenze. Perché, se l'autorità
dei genitori tende all'estinzione, la
scuola perde d'importanza e l'ingresso
nel mondo del lavoro pare sempre piú
un miraggio, quando arriva il momento
delle responsabilità?
Padri assenti, figli disorientati La fatica di diventare grandi
Un antropologo e uno psicanalista denunciano in un libro che la nostra società ha abolito i «riti di passaggio»
di Giuseppe Culicchia La Stampa 19.10.14
Viviamo
in un’epoca in cui, non solo in Italia, non solo in Europa, non solo in
Occidente, le città sono sempre più pensate alla stregua di luoghi
d’intrattenimento: come scriveva all’alba del nuovo millennio Bruce
Bégout in Zeropoli. Las Vegas, città del nulla (Bollati Boringhieri
2002), l’urbe nel deserto del Nevada è organizzata in funzione del
divertimento e dello shopping, e prevede un’animazione che non conosce
soste, come usa dire h24, con architetture va da sé assai kitsch capaci
di mixare seduzione commerciale e immaginario infantile, «offerta
rituale al dio Divertimento e cimitero di insegne, trasfigurazione del
banale e infinita variazione sul tema, sublimazione del grottesco al di
là del bello e del brutto, Sogno Americano».
Ed è proprio a questo
modello di città non più fortezza o polo commerciale o industriale ma
vero e proprio parco giochi in stile Disneyland, nel frattempo esportato
nel resto del globo con la complicità di costruttori e «archistar», che
fa pensare La fatica di diventare grandi, sottotitolo La scomparsa dei
riti di passaggio, volume scritto per Einaudi dall’antropologo torinese
Marco Aime e dallo psicanalista e psichiatra veneziano Gustavo
Pietropolli Charmet. Il tema ricorre ormai da lustri non solo tra gli
specialisti delle summenzionate discipline ma anche tra ordinarie pierre
all’ora dell’apericena e casalinghe più o meno disperate: ormai gli
adulti vivono come adolescenti, e gli adolescenti sembrano già adulti.
Basta farsi un giro su Facebook o al più vicino centro commerciale, gli
esempi non si contano. Al punto che non di rado ormai non pochi figli si
preoccupano dei rispettivi genitori, ovviamente separati o in via di.
Non perché questi ultimi abbiano superato l’ottantina o siano invalidi,
ma perché dall’alto dei loro, anzi dei nostri quaranta o cinquant’anni
non ci limitiamo a vestirci e acconciarci da ragazzini, ma ci
comportiamo davvero come tali. Di modo che la prole, magari neppure
maggiorenne, si rivela capace di dispensarci consigli non richiesti,
tipo: «Papà, ma non lo vedi che quella che tu chiami la tua nuova
fidanzata è una ragazzina narcisista che ti sta solo usando?». Ecco.
Marco
Aime, che prende le mosse dal concetto stesso di tempo, rileva come
rispetto a qualche decennio fa, quando lo status degli anziani era
ridimensionato dalla loro espulsione dal ciclo produttivo, le cose siano
cambiate – gli ultra-sessantenni oggi sono ancora attivi, e detengono
la maggior parte del patrimonio – e sottolinea come in realtà sia sempre
stato importante evidenziare le differenze tra giovani e adulti. Non a
caso, in ogni epoca e in ogni società sono nati riti di passaggio che
segnavano la fine di un’età e l’inizio della successiva, e che erano
allo stesso tempo una frattura e un segno di continuità all’interno di
un quadro sociale condiviso. Da qui le prove iniziatiche a cui da sempre
sono stati sottoposti gli adolescenti.
Ma come sostiene
l’antropologo africanista Max Gluckman, più le società diventano
complesse, meno sono ritualizzate. E dunque, in casa nostra, ecco
l’eclissarsi di riti di passaggio quali il servizio militare, il
fidanzamento e il matrimonio. Preceduti dalla comparsa di una nuova
categoria sociale: i «giovani». Buoni per fare la guerra – vedi la
nascita di organizzazioni quali la Hitlerjugend o i Balilla negli anni
Trenta del Novecento – oppure per fare shopping, così come vuole fin
dagli anni Sessanta la cosiddetta civiltà dei consumi. Con i jeans e la
minigonna, per la prima volta nella storia dell’Umanità i giovani
marcavano una differenza rispetto al mondo degli adulti. Poi la
mutazione, colta già da Giorgio Gaber. Vedi I padri tuoi: «Che sembrano
studenti un po’ invecchiati non hanno mai creduto nel mito del mestiere
del padre e nella loro autorità». Compare così sulla scena il
personaggio del genitore «amico» dei figli, all’insegna di un’indulgenza
programmatica che arriva al «facciamoci una canna assieme» e prevede
che il padre o la madre si precipitino a scuola per aggredire gli
insegnanti rei di aver dato un brutto voto o di aver punito il
figlio/amico. Intanto, la tivù ha del tutto abdicato al ruolo pedagogico
per diventare pura fonte d’intrattenimento. Quanto alle moderne
tecnologie, quanti sono gli adulti che dipendono dai figli, quando si
tratta di usarle?
«Meno regole e meno punizioni»: ecco il motto dei
nuovi genitori secondo Pietropolli Charmet. Dal padre etico, che aveva
funzioni educative e di controllo, si è passati al padre che accudisce:
salvo poi constatare come il figlio soffra non poco a causa dell’assenza
o dell’evanescenza del padre medesimo. E se da un lato la pubertà
arriva in anticipo rispetto a un tempo, abbreviando l’infanzia e dando
luogo alla cosiddetta «adultizzazione precoce», dall’altro si assiste al
rinvio del matrimonio e della procreazione. Con l’affermarsi della
dipendenza nei confronti dei prodotti di consumo: «Può capitare di
imbattersi in adolescenti che, animati da un desiderio ingordo di merce,
cerchino disperatamente di mitigare i bisogni affettivi profondi
spostandoli sulla raccolta frenetica e compulsiva di cose inanimate».
Tutte cose che non sfuggono alle menti raffinate che stanno dietro i
loghi delle varie corporation. Insomma: viene altresì in mente,
inoltrandosi tra queste generazioni confuse, Alexis de Tocqueville,
quando scriveva a proposito del tipo di oppressione da cui sono
minacciati i popoli democratici: «Al di sopra della massa, si erge un
potere immenso e tutelare, che si fa carico solo di assicurare i
divertimenti collettivi […] E’ un potere assoluto, dettagliato,
regolare, preveggente e dolce. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se,
come questa, avesse lo scopo di preparare gli uomini all’età virile;
ma, al contrario, non vuole che fissarli irrevocabilmente
nell’infanzia».
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