Bruno Maida:
Il mestiere della memoria. Storia dell'Associazione nazionale ex deportati politici, 1945-2010, Ombre Corte, Verona, pagg. 256, € 23,00
Risvolto
Sorta pochi mesi dopo il rimpatrio dai Lager nazisti, l'Associazione
nazionale ex deportati politici (Aned) diede la possibilità a tanti di
loro di tornare alla vita, anche attraverso la condivisione fisica di
quell'esperienza. Furono, infatti, le sezioni dell'Associazione a
offrire gli spazi entro i quali la loro memoria si sarebbe definita, tra
il dolore della parola e il dovere della testimonianza. Lottando
tenacemente contro la diffusa tentazione a rimuovere il passato recente,
nell'Italia della ricostruzione essi dovettero porsi alcuni
interrogativi sui meccanismi e sulle gerarchie della trasmissione
culturale, sulla funzione della testimonianza intergenerazionale, sulla
capacità di realizzare una memoria per il futuro la cui efficacia
potesse essere misurata non solo nella sua dimensione pubblica e
immediata, ma nella possibilità di stratificarsi e di sedimentarsi nella
società e nella cultura del paese. Grazie a questo, l'Aned è stata e
rimane un importante strumento di pedagogia democratica e
costituzionale.
Quella qui narrata e ricostruita per la prima volta, è la storia di
questa associazione, delle donne e degli uomini che la costituirono, e
per i quali può valere la definizione - come Primo Levi ha scritto di se
stesso - di "persone normali di buona memoria".
Bruno Maida è ricercatore di Storia contemporanea presso il Dipartimento
di Studi Storici dell'Università di Torino. Ha pubblicato tra l'altro:
Non si è mai ex deportati. Una biografia di Lidia Beccaria Rolfi (Utet,
2008) e La Shoah dei bambini. La persecuzione dell'infanzia ebraica in
Italia 1938-1945 (Einaudi, 2013).
I deportati dell’Aned nei campi di sterminio nazisti La memoria preservatadi Massimo Bucciantini Sole Domenica 19.10.14
A
metà del libro c'è un paragone che non ti aspetti, che rompe con la
ricostruzione rigorosamente cronologica che l'autore ha voluto dare. E
forse è per questo che resta impresso, a tal punto che ti sarebbe
piaciuto che questo lavoro avesse preso inizio proprio da lì. Da quel
funerale. Dal funerale di uno dei maggiori scrittori e poeti americani
morto come un cane, in completa solitudine. «Due anni prima, nella
totale indigenza, non aveva avuto neanche un lenzuolo per avvolgere in
un sudario il corpo senza vita dell'amata moglie Virginia. Il funerale
non fu accompagnato da più di dieci persone e la tomba, nel cimitero Old
Western Burying Ground di Baltimora, fu un blocco di arenaria senza
nome». L'8 ottobre 1849 era una giornata fredda e umida e la cerimonia
non durò che qualche minuto. Tre minuti esatti dicono i suoi biografi.
Non uno di più. Quell'uomo si chiamava Edgar Allan Poe, e ci vollero
ventisei anni prima che l'autore dello Scarabeo d'oro e delle Avventure
di Gordon Pym ottenesse onorata sepoltura, degna del suo nome.
La
vicenda è raccontata nel capitolo che s'intitola Politiche della memoria
e può essere esemplare per il tema affrontato – il bisogno primario di
non dimenticare e le strategie di comunicazione necessarie perché questo
bisogno resti vivo e si diffonda. Anche se qui non si tratta della
memoria di una singola vita ma di un fatto collettivo, della sua storia e
del sistema di valori a essa connessi. Questo libro è la storia di
un'associazione. Il suo acronimo è Aned e sta per Associazione nazionale
ex deportati politici. Ed è la storia di una battaglia condotta dalle
donne e dagli uomini che la costituirono. Di una battaglia per la
memoria durata decenni e che ha inizio nell'agosto del 1945,
all'indomani del ritorno in Italia dei primi sopravvissuti dai campi di
concentramento e di sterminio nazisti. Ovvero delle circa 13mila persone
– su un totale di oltre 23mila deportati – che tra l'agosto del 1945 e
il marzo dell'anno seguente riuscirono a fare ritorno nelle proprie
case, e di cui facevano parte all'incirca 800 ebrei dei quasi 7mila
finiti nei Lager del Terzo Reich. È la prima parte la più bella del
libro. E forse non poteva essere diversamente: perché sono i momenti
della precarietà, in questo caso delle difficoltà del reinserimento in
una vita "normale", quelli più coinvolgenti e più densi di
interrogativi. E Maida lo fa attingendo a documenti di archivio e fonti
inedite, con la sensibilità e quel giusto distacco che sono qualità
ambedue necessarie a chi fa il mestiere dello storico.
Il sollievo e
la felicità durarono poco. «I reduci dovettero confrontarsi
immediatamente con una società che non era in grado o non era pronta per
ascoltare». Tra le testimonianze, una in particolare colpisce per la
scelta oculata delle parole e per la lucidità con cui viene messo a nudo
il problema. Ed è quella di don Andrea Gaggero, deportato a Mauthausen:
«Lo shock subìto era dovuto allo scontro tra l'incandescenza creata
dalla deportazione e il mondo reale», quel mondo reale che si credeva
più accogliente, più benevolente, ora che si era riacquistata la
libertà. Ma questo scontro così violento non dette luogo a
manifestazioni esteriori. Il silenzio fu il tratto dominante di quel
ritorno: il silenzio di solitudine degli ebrei sopravvissuti, ma anche
degli internati militari che sembravano incarnare la disfatta dell'8
settembre. E poi, sopra tutto e tutti, c'era il silenzio pesante dei
giornali, delle procedure burocratiche e delle istituzioni, «persino
delle carte geografiche sulle quali non comparivano i nomi dei luoghi di
internamento». «Lo Stato fu assente nelle strutture di assistenza,
nelle leggi (in quelle da abrogare e in quelle da approvare), nel
riconoscimento materiale e morale di quelle esperienze». Un'esclusione e
una marginalizzazione che si manifestavano con l'assenza, ad esempio,
di un'assistenza sanitaria specifica. Ma che si esprimevano in modo più
sottile e forse in modo ancora più doloroso nella vita di tutti i
giorni, nel linguaggio quotidiano, con l'assenza di alcune parole –
«parole soffocate», le chiama Maida –, parole che mai o raramente
venivano pronunciate o scritte. Come quella di "deportato", che negli
anni del primo dopoguerra non era neppure prevista nei moduli da
compilare per la richiesta di una pensione d'invalidità, sostituita
dalla voce "reduce", di chiara derivazione militare, che inglobava
tutti, cancellando così specificità, identità ed esperienze molto
diverse. Si capisce dunque come la nascita di luoghi d'incontro, di
piccole comunità, diventasse una sorta di camera di compensazione che
consentì a molti di riappropriarsi della propria esistenza e di
reinserirsi con minor fatica nel mondo reale. Inizia così la storia
dell'Aned. Prima a Torino, poi a Milano, a Roma, Genova, Padova,
Firenze, Vicenza, Udine, Treviso, Bolzano, Trento, Venezia. Nel 1948 si
contavano 600-700 soci. «Erano gruppi aurorali, gruppi limitati di
persone che si incontravano e cercavano di dare vita a una testimonianza
fisica e a una presenza solidaristica e assistenziale, la cui mancanza
avrebbe lasciato gli ex deportati in un completo isolamento». Anche se
fin da subito l'obiettivo prioritario fu quello di "uscire" all'esterno e
far conoscere a più persone possibile la loro esperienza vissuta, in
modo che la deportazione ottenesse un riconoscimento pubblico e il
sacrificio di tante vite si trasformasse in valore collettivo a
fondamento della ritrovata democrazia. Così, tra il 1947 e il 1948, la
sezione di Cuneo decideva di allestire una prima esposizione di cimeli
del Lager. A Torino, riallacciandosi al valore simbolico rappresentato
dal milite ignoto, si organizzò «il funerale del deportato ignoto». Nel
1955, a Fossoli, in ricordo del campo da dove migliaia di uomini e donne
vennero rinchiusi per poi essere trasferiti nei Lager nazisti, si tenne
la prima mostra nazionale sulla deportazione, che poi diventò
itinerante, toccando ben quaranta città italiane. Nell'ottobre del 1973 a
Carpi venne inaugurato, alla presenza delle più alte cariche dello
Stato, il Museo Monumento al Deportato politico e razziale. L'attenzione
verso la scuola fu uno dei tratti qualificanti della politica messa in
atto dall'Associazione. A cominciare dall'esame dei libri di testo, con
il compito di «denunciare all'opinione pubblica quelli che dicono il
falso o ancora adesso subdolamente inneggiano al passato regime». Per
poi proseguire, fin dalla metà degli anni Cinquanta (a Genova e in
Piemonte), nel tentativo di "entrare" nella scuola e stabilire un primo
contatto tra i sopravvissuti alla Shoah e gli studenti. Ottenendo, però,
quasi sempre dei dinieghi da parte di presidi e provveditori, molti dei
quali provenienti da un passato fascista o parafascista.
Il clima
mutò a partire dalla metà degli anni Sessanta. La fortuna editoriale del
Diario di Anne Frank e di Se questo è un uomo, l'eco mediatico che ebbe
la cattura e il processo ad Adolf Eichmann, il successo di una canzone
come Auschwitz (Canzone del bambino nel vento) scritta da Francesco
Guccini nel 1964, furono i segnali più evidenti che qualcosa stava
cambiando. L'interesse per queste tematiche cresceva e contribuì a far
conoscere l'attività dell'associazione in gran parte del Paese.
E poi
si arriva al presente. Ma anche questo presente, in certi casi, parte
da lontano, come l'istituzione del Giorno della Memoria che forse molti
non sanno fu una proposta sostenuta dall'Aned già dagli anni Sessanta.
Questo
libro non è solo la storia di un'associazione. È anche uno spicchio di
storia dell'Italia repubblicana. Ci racconta quanti sforzi sono
necessari per provare a costruire la memoria pubblica in un Paese
smemorato come il nostro. Quali percorsi seguire, quali strategie
adottare, quali ostacoli superare. E oggi, con l'avanzare di nuovi
fondamentalismi e dopo che i grandi affreschi di popolo sono stati tutti
frantumati, è uno spicchio che non va dimenticato.
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