sabato 25 ottobre 2014

I problemi dell'architettura contemporanea. Alastair Donald in Italia

L’architettura è depressa 

Rassegne. Un'anticipazione della conferenza dell'urban designer che parlerà al Future Forum, il festival della cultura dell'innovazione. Appuntamento il 27 a Napoli, il 28 a Udine

Alastair Donald, il Manifesto 25.10.2014 

 Quest’anno cade il cen­te­simo anni­ver­sa­rio della pub­bli­ca­zione del Mani­fe­sto dell’Architettura Futu­ri­sta di Anto­nio Sant’Elia. Con­te­neva un vee­mente attacco di Filippo Tom­maso Mari­netti, nei con­fronti di que­gli archi­tetti ridotti a «rovi­stare in un gro­vi­glio di vec­chie for­mule», ed era illu­strato dai dise­gni visio­nari della «Città Nuova» di Sant’Elia e del suo col­la­bo­ra­tore Mario Chiat­tone. Era un’impulsiva chia­mata alle armi, nella con­vin­zione che un cam­bia­mento radi­cale fosse pos­si­bile e neces­sa­rio.

Per­se­guita con libertà e auda­cia, l’architettura rac­chiu­deva la pro­messa di tra­sfor­mare il mondo delle cose in una pro­ie­zione diretta del mondo dello spi­rito. La loro era un’attitudine al rischio, fon­data sulla fidu­cia nel lan­ciarsi «alla ricerca di nuove fron­tiere». Cre­de­vano che una tale sfida all’immobilismo intel­let­tuale avrebbe potuto ren­dere l’architettura libera di spe­ri­men­tare nuove idee e un futuro diverso: «Ogni gene­ra­zione deve costruire la pro­pria città», soste­neva Sant’Elia.
Cento anni dopo la chia­mata alle armi di Sant’Elia, qual è il discorso radi­ca­liz­zante della nostra epoca? Risulta evi­dente l’attuale esau­ri­mento dell’architettura e dell’urbanistica, il dra­stico ridursi delle loro pos­si­bi­lità future. Ciò che è diven­tato sem­pre più chiaro, negli ultimi anni, è che la moder­nità, la ragione e la nozione stessa di pro­gresso, sono state sot­to­po­ste a un intenso attacco da parte di coloro che respin­gono l’aspirazione a tra­sfor­mare il mondo.
La sto­ria dell’ultimo secolo di moder­nità è la sto­ria del declino e col­lasso dell’architettura che si era data una mis­sione di tra­sfor­ma­zione. Oggi gli archi­tetti rara­mente sfi­dano le diret­tive. Sono tutti troppo inclini a seguire acri­ti­ca­mente i pro­grammi e i vin­coli delle poli­ti­che pub­bli­che, le loro linee guida ostili alla par­te­ci­pa­zione dei cit­ta­dini alle scelte. È un’architettura che si adatta ai vin­coli ambien­tali senza rico­no­scere che, così facendo, le esi­genze dell’umanità ven­gono poste in subor­dine rispetto alla natura – o senza rite­nere che, per sta­bi­lire ciò, sarebbe neces­sa­rio almeno un dibat­tito.
Senza un dibat­tito simile né una genuina bat­ta­glia delle idee, l’architettura può solo con­ti­nuare a sof­frire di un atteg­gia­mento cor­ro­sivo e auto­di­strut­tivo. Sei anni fa, con una dichia­ra­zione memo­ra­bile, l’ambientalista bri­tan­nico George Mon­biot ha sug­ge­rito che dovremmo ren­dere le per­sone così depresse riguardo alle con­di­zioni del pia­neta, da farle rima­nere tutto il giorno a letto, ridu­cendo così l’utilizzo da parte loro di com­bu­sti­bili fos­sili. Pochi pos­sono arri­vare a tanto, ma nella cul­tura pro­mossa dai teo­rici dello svi­luppo soste­ni­bile (cioè che un eccesso di atti­vità umana sia dan­noso) parole come crea­ti­vità e inno­va­zione rischiano, in ambito archi­tet­to­nico, di essere con­di­zio­nate dalla pre­oc­cu­pa­zione per la soprav­vi­venza.
Dove Sant’Elia spro­nava a «lan­ciare le menti aperte alla ricerca di nuove fron­tiere», oggi l’atteggiamento difen­sivo degli archi­tetti indica come una virtù il rispetto dei vin­coli e l’esercizio della mode­ra­zione. Lo scrit­tore cana­dese Chris Tur­ner invita a inter­pre­tare le limi­ta­zioni come delle oppor­tu­nità, per tro­vare solu­zioni che dai vin­coli pos­sono trarre mag­giore sti­molo. La scrit­trice bri­tan­nica Sofie Pel­sma­kers si chiede: «l’attenzione al cal­colo delle emis­sioni di car­bo­nio può sof­fo­care la crea­ti­vità archi­tet­to­nica?», ma con­clude anch’essa che i vin­coli ambien­tali pos­sono rap­pre­sen­tare un utile spro­ne­per la crea­ti­vità, dando vita a un nuovo lin­guag­gio ambien­tale. Per­so­nal­mente credo che tutto que­sto indi­chi sola­mente il crollo della fidu­cia degli archi­tetti nella pro­pria libertà crea­tiva: per­ché mai un qua­lun­que archi­tetto, sicuro di sé, dovrebbe desi­de­rare meno pos­si­bi­lità?
L’accettazione dell’etica della soste­ni­bi­lità sta­bi­li­sce limiti, obiet­tivi poco ambi­ziosi, esalta la pre­cau­zione come modus ope­randi degli archi­tetti. Se, come è stato dichia­rato, rici­clare è «uno dei mas­simi gene­ra­tori di inno­va­zione crea­tiva» di que­sto secolo, allora le barac­co­poli come Dha­ravi a Mum­bai pos­sono essere pre­miate per la loro crea­ti­vità e cele­brate come incre­di­bil­mente inno­va­tive per il riu­ti­lizzo dei mate­riali, piut­to­sto che rico­no­sciute come il pro­dotto dello sforzo di soprav­vi­venza di coloro che vivono in con­di­zioni estreme di sot­to­svi­luppo.
In realtà, si sta riscri­vendo lo stesso signi­fi­cato di inno­va­zione. Potrebbe essere vero, come ha soste­nuto un opu­scolo pub­bli­cato dal Bri­tish Coun­cil, che i «desi­gner e gli inge­gneri sono i riso­lu­tori dei pro­blemi meno risolti al mondo». Ma la ten­denza a ridurre l’innovazione a sem­plice «riso­lu­zione di pro­blemi», indica quanto il ter­mine stia esau­rendo il pro­prio inte­resse. Nel pas­sato, l’innovazione era intesa non tanto come un eser­ci­zio di riso­lu­zione dei pro­blemi, quanto come l’utilizzo delle nuove sco­perte da parte dei desi­gner, in moda­lità che sod­di­sfa­ces­sero il cre­scente desi­de­rio di pro­gresso sociale ed este­tico. La capa­cità della società di spo­stare sem­pre più avanti gli oriz­zonti della cono­scenza e della scienza, ha per­messo pro­gressi deci­sivi – fos­sero l’elettricità e la luce elet­trica, la pro­du­zione indu­striale o l’energia nucleare.
Negli ultimi decenni si è svi­lup­pata una rela­zione più pro­ble­ma­tica con la cono­scenza e la ricerca. Il socio­logo Ulrich Beck è pur­troppo iso­lato quando ci avverte che nell’epoca moderna la «fonte di peri­colo non è più l’ignoranza, ma la cono­scenza». Ma se la ricerca, la spe­ri­men­ta­zione aperta e l’assumersi rischi sono ora con­si­de­rati peri­co­losi, allora non c’è da mera­vi­gliarsi che l’innovazione sia ridotta ad una riso­lu­zione dei pro­blemi, nel rispetto di para­me­tri rigo­ro­sa­mente defi­niti. Con l’affermarsi di una simile ten­denza, non sor­prende che in archi­tet­tura un approc­cio imma­gi­na­tivo e impron­tato alla libertà di pen­siero sia stato ampia­mente sosti­tuito da una crea­ti­vità con­di­zio­nata da limiti atten­ta­mente sta­bi­liti. L’essenza della libertà crea­tiva è per­duta.
È venuto il tempo di sfi­dare l’architettura com­pro­messa, quella nata dal para­dosso con­tem­po­ra­neo dei ridotti oriz­zonti urbani. Al con­tra­rio, dovremmo cer­care una nuova sen­si­bi­lità uma­ni­stica nell’architettura, che rifiuti di pie­garsi alla con­ser­va­zione, alla regola e alla media­zione, che si esprima al con­tra­rio per otte­nere obiet­tivi ambi­ziosi e incen­trati sull’uomo, votati alla sco­perta, alla spe­ri­men­ta­zione e all’innovazione.
Per otte­nere ciò c’è biso­gno di dis­senso, pen­siero cri­tico e ricerca aperta, che costi­tui­scano il fon­da­mento per una nuova dina­mica metropolitana.

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