mercoledì 22 ottobre 2014

Il loro agente a Pechino. La Guerra Fredda culturale di Repubblica contro la Cina

Il Nobel prigionieroColpevole d’aver difeso i diritti umani, per Pechino Liu Xiaobo ormai è un fantasma Ma quattro anni dopo la solenne cerimonia di Oslo, lo è anche per l’Occidente Le poesie le scrive in cella, sul pavimento di pietra: con l’acqua, perché gli hanno tolto anche l’inchiostro Le giornate le passa a cucire le divise dei carcerieri. Non può vedere nessuno, neanche l’avvocato

di Giampaolo Visetti Repubblica 22.10.14

PECHINO NON possiede più niente. Le scarpe che calza sono dello Stato. Gli hanno tolto carta e inchiostro. Ogni giorno scrive poesie sul pavimento di pietra, bagnando un dito nella ciotola dell’acqua che beve. I versi, anche se in cella, sono liberi: evaporano in pochi istanti. Vietato invece leggere. La rieducazione ha deciso che il lavoro giusto per lui è il sarto. Liu Xiaobo a fine dicembre compirà 59 anni e trascorre le giornate a cucire le divise dei suoi carcerieri. Nella sua vita di prima insegnava filosofia. Si è poi scoperto poeta e ha promosso “Charta 08”, ultimo manifesto per la democrazia in Cina.
Nel 2009 era Natale quando lo hanno condannato: undici anni di carcere per «incitamento alla sovversione». Nel dicembre di dodici mesi dopo, a Oslo, la sua “sedia vuota” di Nobel per la pace fece paura anche a Pechino. «Una farsa e un crimine — dissero le autorità — orchestrati da gruppi di pagliacci stranieri per conto degli Usa». Altri quattro anni e quella “sedia rimasta vuota”, e quel Nobel, per la Cina non esistono.
Anche i “pagliacci” però rivelano di avere poca memoria. Di Liu Xiaobo, poeta divenuto sarto per aver chiesto libertà e aver dedicato il premio «alle anime morte di piazza Tienanmen», il mondo non parla più. «Lui però è vivo — dice l’amico Yang Jianli — e vuole resistere almeno fino al giorno in cui potrà uscire dal carcere».
Mancano sei anni e nella cella di Jinzhou, in Manciuria, possono essere lenti. Il suo “trattamento” è stato indurito. Nessun contatto con l’esterno, sospese le visite dell’avvocato. Un muro di vetro lo separa dalla moglie Liu Xia, la sola che ha il permesso di visitarlo una volta al mese. Èl’ultima punizione, per aver confidato di «ripassare a memoria ogni notte il discorso». Sogna di pronunciarlo quando finalmente potrà volare libero in Norvegia, per ritirare il riconoscimento che ancora lo attende.
Liu Xiaobo è un fantasma invisibile e dimenticato, su quell’aereo forse non salirà mai. Fuori dal carcere in cui è rinchiuso resta però un posto di blocco e due pattuglie impediscono a chiunque di avvicinarsi «per motivi di sicurezza ». Il nulla, ai regimi, non dà pace. Oltre cinquemila chilometri più a sud, alla periferia di Pechino, anche l’appartamento di tre stanze in cui ufficialmente è confinata Liu Xia, viene considerato un «luogo pericoloso». Certi drammi fanno sorridere: la moglie del Nobel, 55 anni, da febbraio non vive più nel malandato palazzo bianco. Restano tre agenti condannati a sorvegliare il suo spettro. Un’auto della polizia, nel cortile vuoto, controlla i documenti a chi passa. «Vivo qui — dice un vicino — mi conoscono. In quattro anni hanno registrato il mio nome migliaia di volte». Liu Xia da nove mesi è in ospedale. Per gli amici rischia di «finire sepolta viva in un manicomio».
Le ultime immagini, rubate durante pochi minuti di distrazione dei secondini, risalgono a gennaio. Appare con la testa rasata a zero, vestita con una vecchia felpa, magra, irriconoscibile rispetto alla bella donna imprigionata l’8 ottobre 2014. Il confino, un’ora dopo l’assegnazione del Nobel al marito. Xu Youyu, amico da venticinque anni, dice che «è ridotta nella povertà più totale» e che il potere cinese «vuole farla impazzire, o spingerla al suicidio ».
Su di lei non pende alcuna accusa. Sposare un ragazzo che poi vince un Nobel «per la sua lunga e non violenta lotta per i diritti fondamentali in Cina», è una colpa più che sufficiente. Per oltre tre anni, prima di finire in clinica chiedendo di morire, la mattina poteva uscire a fare la spesa. Perso il lavoro, finiti i soldi, si faceva accompagnare dalla madre pensionata. Percorrevano a stento i trecento metri fino ad un piccolo spaccio. Le scortavano sei agenti, a volte ragazzi buoni che si offrivano di saldare il conto di riso e foglie di cavolo.
«La signora Liu — dice la negoziante — sorrideva sempre ma si vedeva che le veniva da piangere. Diceva che la polizia le suggeriva di divorziare. Un funzionario telefonava per ricordarle che bisogna stare attenti a chi si sposa. L’ultima volta ha promesso che un giorno mi pagherà».
Sono passati quattro anni dal Nobel per la pace a Liu Xiaobo, venticinque dalla repressione degli studenti in piazza Tienanmen, e la realtà in Cina è questa: il dissidente è isolato in Manciuria e sottoposto a regime di carcere duro, sua moglie è agli arresti domiciliari in un ospedale di Pechino, curata per «esaurimento nervoso». Nessuno dei due è avvicinabile. Gli edifici in cui risultano reclusi sono sorvegliati giorno e notte. Non possono comunicare con il mondo esterno. Liu Xiaobo rifiuta di chiedere clemenza al presidente Xi Jinping. Liu Xia dice che la politica non l’ha mai interessata. Quando si incontrano si possono scambiare solo poesie d’amore: la censura pensa che non sono «anti-patriottiche».
La pena del Nobel scade nel 2020. Quella della moglie nessuno lo sa perché non è stata mai condannata. In un mondo normale, governi e opinioni pubbliche chiederebbero ogni giorno la libertà degli innocenti. Un regime che imprigiona chi esprime pacificamente le proprie idee verrebbe emarginato dalla comunità internazionale. Nel 2010 tale impegno, da parte dei Paesi democratici, fu solenne. La Cina invece viene oggi contesa tra quelle stesse nazioni, che esaltano la sua crescita economica, da cui dipendono. Il gigante dei capitali nasconde il nano dei diritti. Prima di metà novembre il presidente americano Barack Obama volerà a Pechino per il vertice delle potenze affacciate sul Pacifico. I famigliari e gli amici di Liu Xiaobo e di Liu Xia, i superstiti di Tienanmen, gli hanno chiesto di sfruttare l’occasione per scongiurare Xi Jinping di liberarli, prima che sia troppo tardi sia per loro che per la Cina.
È l’ultima speranza: se il silenzio continua, legittimando l’indifferenza, il Nobel e la sua “sedia vuota” si trasformeranno nel certificato storico della resa di chi crede nei diritti umani.


Richard McGregor “La Cina lo cancella dalla memoria collettiva”
intervista di Anna Lombardi Repubblica 22.10.14

«IL governo cinese vuol cancellare Liu Xiaobo dalla memoria collettiva. E ci sta riuscendo: molti in Cina non sanno chi è o non si ricordano di lui». Riflette con amarezza Richard McGregor, giornalista del Financial Times a lungo corrispondente da Pechino e autore di The Party, il bestseller che ha svelato i segreti del partito comunista cinese. «È già accaduto ad altri dissidenti, personaggi anche più noti. Come Zhao Ziyang, segretario del partito fino ai fatti di piazza Tienanmen. Dopo il giro di vite post 1989 fu tenuto agli arresti domiciliari per 25 anni. Quando è morto, nel 2005, molti cinesi si erano dimenticati di lui. Era stato sepolto in vita: nessuna notizia, nessuna foto... ».
È quello che sta accadendo a Liu Xiaobo? Quattro anni dopo il Nobel il governo lo considera ancora così pericoloso?
«Lo considerano pericoloso quanto basta. C’è un modo di dire qui in America: “solo i paranoici sopravvivono”. È perfetto per definire l’atteggiamento cinese. Il governo non ama le critiche: è molto sensibile su questo. Ma soprattutto teme ciò che non controlla. In un certo senso la Cina riesce a mantenere così bene il controllo proprio grazie alla paura costante di perderlo ».
L’Occidente ha portato Xiaobo alla ribalta internazionale conferendogli il Nobel: poi lo ha dimenticato. Può bastare?
«Difficile dirlo. Fuori dalla Cina la capacità di influenzare quel che avviene all’interno è limitata per chiunque, vicino allo zero. Altrettanto difficile è tenere il suo caso costantemente sotto i riflettori, almeno in modo che crei pressione. Il Nobel è stato importante: ma non garantisce attenzione perpetua. Poi, francamente, non so se il suo caso sia seguito con discrezione da qualche governo occidentale. Insomma, non se sia stato dimenticato, oppure semplicemente il suo caso non è in cima alle agende dei governi ».
E se lo avessimo “dimenticato” in nome degli affari?
«C’è anche quello. Sappiamo quanto le relazioni commerciali con la Cina siano oggi importanti per molti. Tedeschi, americani, e anche per gli italiani che lì importano prodotti di lusso. Nessuno vuole che il rapporto coi cinesi si focalizzi sui dissidenti. Non è una cosa nuova: I diritti umani sono stati messi ai margini dell’agenda almeno 20 anni fa».
C’è un nuovo Liu Xiaobo? Chi ha raccolto la sua eredità?
Forse i ragazzi di Hong Kong?
«Non mi viene in mente nessuno. È una creatura di un’altra epoca. Anche se non è dissidente vecchio stile, era già un nome prima del 1989 e questo fa la differenza. Pochi hanno l’ampio respiro del tipo d’esperienza che lui ha avuto».
Nemmeno un personaggio come Ai Weiwei, che in Occidente è molto popolare?
«Ai Weiwei è un carattere unico e coraggioso. Ma è attivista in quanto artista. Xiaobo è un attivista politico: e questo lo rende un po’ più pericoloso».
Così pericoloso che gli è impedito leggere e scrivere...
«Un modo per deprivarlo di ogni diritto. Per uno come lui la punizione più dura, la peggiore possibile».
Cosa possiamo fare per lui?
«Tenerne vivo il pensiero il più a lungo possibile. Non credo che attualmente si possa fare molto di più».

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