mercoledì 22 ottobre 2014
Sartre e il rifiuto del Nobel
Sartre, il Nobel non è cosa da intellettuali
di Marco Albertaro La Stampa 22.10.14
Lo scrittore e filosofo francese padre dell’esistenzialismo nel ‘64 è
all’apice della notorietà. Ha pubblicato alcuni dei suoi libri più
importanti - La nausea, Il muro, L’età della ragione - ma soprattutto ha
assunto un ruolo di primo piano nel dibattito pubblico: ha sostenuto la
rivoluzione cubana (romperà poi con Castro nel 1971), ha simpatizzato
per Mao, ha dato il suo appoggio al Partito comunista francese (da cui
si distaccherà nel drammatico ’56), ha criticato il colonialismo in
Algeria, insomma è un intellettuale che si butta nella mischia, che
affonda le mani nel conflitto, che non teme di farsi dei nemici e che
gode del dissenso. Sartre è l’intellettuale cosmopolita per eccellenza:
viaggia moltissimo, sposa cause apparentemente lontane e diventa
l’emblema di quella tipologia tipicamente francese che è l’intellettuale
engagé.
Sartre dice no all’Accademia di Svezia che lo vuole premiare, rifiuta
l’onorificenza e la consistente somma di denaro, così come aveva
rifiutato, anni prima, la Legione d’Onore, l’Académie e il Collège de
France. Non si tratta però soltanto del rifiuto di un premio. Sartre non
vuole essere «istituzionalizzato», non vuole subire, lui intellettuale
critico verso il potere, una sorta di «normalizzazione». Per Sartre lo
scrittore deve essere libero da qualsiasi legame con un potere che
fagocita. È per questo che, nella lettera con cui motiva il suo gesto,
afferma che «lo scrittore deve rifiutare di lasciarsi trasformare in
istituzione, anche se questo avviene nelle forme più onorevoli».
Non si tratta soltanto di un gesto coerente, del resto Sartre aveva già
chiesto, alcune settimane prima, all’Accademia svedese di non essere
inserito nella lista dei candidati al Nobel. Il rifiuto del premio non è
un gesto per chiamarsi fuori, per rinunciare alla dimensione pubblica
dello scrittore ma, al contrario, è proprio la rivendicazione di un
ruolo pubblico altro, che nulla ha a che fare con una cultura
istituzionalizzata e che, proprio per questo, rivendica un’autonomia.
Sartre - come ha scritto Bernard-Henri Lévy, un intellettuale che ha un
po’ scimmiottato il suo «stile» schierandosi però a favore di battaglie
che avrebbero fatto inorridire il filosofo esistenzialista - voleva «far
saltare in aria la società», un’espressione efficace per rappresentare
la radicalità di un approccio politico che è, prima di tutto, una
posizione culturale. L’intransigenza, che Gobetti aveva indicato come
elemento fondativo della condizione di intellettuale, viene richiamata
infatti in uno degli articoli scritti in morte di Sartre e che lo
paragona, proprio per questo atteggiamento, a Rousseau:
«un’intransigenza innata» che non gli ha mai permesso di accettare il
minimo «compromesso con il potere stabilito».
Zygmunt Bauman ha parlato della «decadenza» della figura
dell’intellettuale. E ne ha descritto il passaggio «da legislatore a
interprete», ossia, si potrebbe dire, da costruttore di idee (e di modi
di pensare) a funzionario che traduce concetti vecchi in linguaggi
nuovi. Ecco, Sartre è stato uno degli ultimi intellettuali
«legislatori», e lo è potuto essere proprio perché ha rifiutato le
coordinate culturali, politiche e linguistiche imposte dalle
istituzioni.
Questo discorso non può non portare alla mente un altro intellettuale
«legislatore» che, in una condizione di solitudine, di «esilio» perenne,
nell’ultimo quarto del Novecento ha avuto un’influenza paragonabile a
quella di Sartre. Si tratta di Edward Said, il grande studioso di
letteratura comparata che ha messo la propria voce al servizio di
numerose cause. Sempre nel posto sbagliato è il titolo della sua
autobiografia ma, come ha scritto Tony Judt, non era Said a sentirsi in
imbarazzo per questa sua condizione di «senza patria». Erano piuttosto
gli altri, i suoi interlocutori ma soprattutto i bersagli della sue
polemiche, a doversi sentire a disagio davanti alla sua continua ricerca
della verità. Scomodo per gli avversari ma ancor più scomodo per i
compagni di battaglie - si pensi alle dure critiche mosse alle politiche
di Israele ma allo stesso tempo alle sue aspre prese di posizione nei
confronti dei dirigenti palestinesi - Said ha recuperato il meglio della
tradizione dell’intellettuale engagé «alla Sartre».
Il rigore, innanzitutto, la ricerca del vero, la battaglia contro la
menzogna sono soltanto tre dei valori che accomunano Sartre a Said. E
che danno un senso, dopo cinquant’anni, al ricordo dello scandaloso
gesto di uno scrittore che disse no al premio dei premi.
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