sabato 18 ottobre 2014

Il sogno nell'industria culturale e dell'immaginazione: alcune letture


La maledizione dei sogni 

Immaginario. L'esplorazione fantastica come chiave per cambiare il mondo. Da Hitchcock a Miyazaki, un percorso di letture che punta sugli incontri onirici e sul rimosso della Storia

Fabrizio Denunzio, il Manifesto 18.10.2014 

La sotto-motricità è una con­di­zione ideale per fan­ta­sti­care, imma­gi­nare, sognare. Non c’è eroe della grande let­te­ra­tura roman­tica che non assuma una postura di que­sto tipo prima di intra­pren­dere un viag­gio fan­ta­stico. Modello di que­sta mobi­lità imma­gi­na­ria, indotta dalla rigi­dezza cor­po­rea, rimane il pro­ta­go­ni­sta delle Con­fes­sioni di un man­gia­tore d’oppio di Tho­mas De Quin­cey. A volte, l’immobilità può essere una chance da cogliere, e non un osta­colo, per accre­scere la potenza di agire, e que­sto nella forma dell’esplorazione fan­ta­stica. Per rea­liz­zare un mondo alter­na­tivo, quanto meno lo si deve prima imma­gi­nare.
Da diverse fonti viene fatta notare l’attuale fase di rista­gno dei movi­menti di con­te­sta­zione, sem­bra si rim­pro­veri al movi­mento di non muo­versi abba­stanza, di non andare lì dove dovrebbe. Ebbene, volendo pren­dere per buona tale para­dos­sale osser­va­zione, diciamo che que­sta situa­zione di stallo moto­rio può diven­tare un’ottima occa­sione per il movi­mento per tor­nare a sognare col­let­ti­va­mente. Ora, l’unico grande mezzo che la moder­nità abbia mai avuto per fare sognare le col­let­ti­vità, è il cinema. 

Pat­tu­miere rischiose 
Seb­bene gli estremi difen­sori della moder­nità pen­sino che la pro­du­zione fil­mica degli ultimi trent’anni sia ani­mata solo da nostal­gia e da un vuoto gioco di forme, e per quanto i media stu­dies nell’ultimo ven­ten­nio abbiano dedi­cato la loro atten­zione pre­va­len­te­mente alla rete, diven­tando ege­mo­ni­ca­mente inter­net stu­dies, il cinema, come aveva capito per­fet­ta­mente Wal­ter Ben­ja­min, con­ti­nua a «riscal­dare il cuore» delle masse, non foss’altro per­ché, sua pre­ro­ga­tiva esclu­siva rimane la crea­zione di una scan­da­losa inti­mità psi­chica con un pub­blico di estra­nei, pro­vata in uno stesso spa­zio (la sala) e in uno stesso tempo (la durata del film).
A quanti, moder­ni­sti o media theo­rist che siano, si affret­tano a cesti­nare il cinema nella pat­tu­miera delle cose vec­chie del pas­sato, non si ricor­derà mai abba­stanza il monito con cui Ray­mon Wil­liams nel 1985 in una con­fe­renza dedi­cata a Cinema e socia­li­smo (di pros­sima pub­bli­ca­zione per l’editore ombre corte), avver­tiva pro­fe­ti­ca­mente la Sini­stra di fare atten­zione a ciò che «rot­ta­mava» per­ché nella «pat­tu­miera della sto­ria», assieme agli oggetti rot­ta­mati, sarebbe finita anch’essa e le sue idee.
Ora, per le masse e per il movi­mento, cosa vale la pena di sognare al cinema? L’ultimo film di ani­ma­zione di Hayao Miya­zaki, Si alza il vento, entra nel vivo della que­stione con un’originalità inau­dita. Non che il cinema nella sua lunga sto­ria, dalle ori­gini fino alla svolta digi­tale, non abbia mai affron­tato il sogno. Gino Frezza in uno dei capi­toli del suo recente Dis­sol­venze. Muta­zioni del cinema (Tunué, pp. 164, euro 16,90) ha rico­struito que­sto affa­sci­nante per­corso, defi­nendo un cam­pione di osser­va­zione al quanto rap­pre­sen­ta­tivo. L’autore, sulla scia di André Bazin prima, e di Gil­les Deleuze poi, assume come momento di pas­sag­gio dal cinema clas­sico a quello moderno la fine del Secondo dopo­guerra e, in base a que­sta par­ti­zione, ci indica il modo attra­verso cui, in que­ste due distinte fasi evo­lu­tive, i film hanno pen­sato e for­ma­liz­zato il sogno, e così facendo hanno let­te­ral­mente fatto sognare il pub­blico.
Nella fase clas­sica, dalle ori­gini euro­pee fino alla meta hol­ly­woo­diana, in film come Dreams of rare­bit fiend del 1906 di Edwin Por­ter, Le avven­ture del barone di Müchau­sen del 1911 di Geor­ges Méliès, Io ti sal­verò del 1945 di Alfred Hit­ch­cock, il cinema indica allo spet­ta­tore l’ingresso nella fase oni­rica attra­verso il pro­ce­di­mento della dis­sol­venza incro­ciata: l’immagine pro­gres­si­va­mente si sfoca in un’altra che la sosti­tui­sce. Nella sua fase moderna, in film come Le ten­ta­zioni del Dr. Anto­nio del 1962 di Fede­rico Fel­lini, Belle de jour del 1967 di Luis Buñuel, L’amour l’aprés midi del 1972 di Erich Roh­mer, ma anche nei risul­tati estremi del primo Matrix del 1999 dei fra­telli Wacho­w­ski, poi­ché, scrive Frezza, «le com­pe­tenze spet­ta­to­riali… sono dive­nute un sapere col­let­tivo», quindi «risul­tano deci­sa­mente in grado di ordi­nare il più casuale flusso delle imma­gini sonore, e di ricom­porre con mag­giore libertà i sensi ad esse attri­buite», il cinema moderno si sente libero di abban­do­nare la dis­sol­venza incro­ciata e di non segna­lare più allo spet­ta­tore l’incipit del sogno, pre­fe­ri­sce di molto lasciare che l’onirismo per­vada la realtà, che le inquie­tu­dini dei sogni fac­ciano vacil­lare le sicu­rezze della per­ce­zione quotidiana. 

Rela­zioni fra le nuvole 
Se assu­miamo que­sto cam­pione come qua­dro di rife­ri­mento, in cosa distin­guiamo l’inaudita ori­gi­na­lità del sogno nel film di Miya­zaki? Per i pro­ta­go­ni­sti dei film cam­pio­nati, sognare signi­fica andare al rimosso della pro­pria espe­rienza sog­get­tiva: tanto per il Gre­gory Peck nel clas­sico di Hit­ch­cock, quanto per Cathe­rine Deneuve nel moder­nis­simo di Buñuel, i sogni fanno emer­gere i lati più oscuri della loro per­so­na­lità. Per dirla in breve, la por­tata del sogno si risolve con la bio­gra­fia del sin­golo.
Tutt’altro il caso di Jiro Hori­ko­shi, il pro­ta­go­ni­sta di Si alza il vento: il gio­vane sogna con­ti­nua­mente, e nei suoi sogni incon­tra sem­pre Gio­vanni Bat­ti­sta Caproni, inge­gnere aero­nau­tico ita­liano, grande pro­get­ti­sta di fama inter­na­zio­nale. Que­sti incon­tri oni­rici hanno per Jiro un alto valore for­ma­tivo al punto che sarà in base agli inse­gna­menti morali dell’italiano che arri­verà, alla fine del film, a rea­liz­zare il suo pro­getto, il Mitsu­bi­shi A5M, quel mici­diale Zero con cui il Giap­pone bom­bar­derà Pearl Har­bour. L’ultimo sogno, quindi, l’ultimo incon­tro tra i due, è par­ti­co­lar­mente signi­fi­ca­tivo: Caproni ricorda a Jiro che pro­get­tare aerei è il più bel sogno da sognare, ma che i pro­get­ti­sti sognano solo sogni male­detti. Vogliono costruire mac­chine per volare e diver­tirsi che diven­tano pun­tual­mente stru­menti di morte.
Appare evi­dente la distanza che separa que­sto tipo di sognare da quello del cinema clas­sico e moderno: men­tre i sogni dei pro­ta­go­ni­sti di quest’ultimo non rie­scono mai a supe­rare i limiti delle pro­prie indi­vi­dua­lità, quello di Jiro si pre­senta sì come un sogno di un sin­golo, ma da subito abi­tato da una pro­fonda sostanza epica che coin­volge il destino di un’intera nazione. Inol­tre, appare pure evi­dente la distanza di Si alza il vento dal resto dell’opera di Miya­zaki: men­tre in capo­la­vori pre­ce­denti come Nau­si­caä della Valle del vento (1982), Prin­ci­pessa Mono­noke (1984) e La città incan­tata (2001), la nar­ra­zione si strut­tura attorno a figure arche­tipe materne – indi­vi­duate con pre­ci­sione dalla socio­loga Roberta Bar­to­letti nel suo recente Grandi madri mediali. Arche­tipi dell’immaginario col­let­tivo nel fumetto e nel cinema d’animazione (Liguori, pp. 132, euro 15,99) – in que­sto, invece, si fa attra­verso quelle paterne, si pensi non solo a Caproni, ma anche all’ingegnere tede­sco Jun­kers che eser­cita la sua influenza scien­ti­fica su tutti i pro­get­ti­sti aero­nau­tici giap­po­nesi e al capo Kuro­kawa che addi­rit­tura farà da testi­mone di nozze al pro­ta­go­ni­sta.
Si dirà che, in fondo, quello di Jiro è un sogno di morte, rea­zio­na­rio per­ché i suoi effetti creano mac­chine di guerra volanti al ser­vi­zio di un Impero. Que­sto, però, è pro­prio il punto più con­tro­verso e sedu­cente: cos’è que­sto sogno un attimo prima che venga cat­tu­rato dalla tec­no­lo­gia mili­tare? Cosa sono le fan­ta­sti­che­rie del pic­colo Jiro l’istante prima che l’ingegnere Jiro le fac­cia diven­tare il fami­ge­rato Zero?
Seb­bene il socio­logo fran­cese Patrice Flicy si sia messo a tes­sere in modo alquanto inge­nuo le lodi dell’internauta costruendo il tipo dell’amatore nel suo recente La società degli ama­tori. Socio­lo­gia delle pas­sioni ordi­na­rie nell’era digi­tale (Liguori, pp. 112, euro 11,99), non dob­biamo dimen­ti­care che in impor­tanti lavori come la Sto­ria della comu­ni­ca­zione moderna e L’innovazione tec­no­lo­gica, ha indi­vi­duato in ter­mini sto­rici e strut­tu­rali la fun­zione pro­pul­siva svolta dall’immaginario sociale nella deter­mi­na­zione di ogni nuova tecnologia. 

Il dono del cielo 
Se guar­diamo al sogno di Jiro prima che si rea­lizzi nello Zero, non tro­viamo altro, allora, che un desi­de­rio social­mente dif­fuso nelle gio­vani gene­ra­zioni di attra­ver­sare i cieli su mac­chine volanti. E anche lì dove la male­di­zione che grava su que­sto sogno lo con­danna a rea­liz­zarsi in uno stru­mento di distru­zione, ebbene, anche a fronte di que­sta ter­ri­bile realtà, in essa viene pre­ser­vato l’istante incan­tato che lo voleva desi­de­rio col­let­tivo di qual­cosa d’altro dalla morte. In una delle sequenze oni­ri­che più belle del film di Miya­zaki, Caproni mostra a Jiro quello che il giorno dopo, con­se­gnato all’aviazione mili­tare, sarebbe diven­tato uno dei più grandi cac­cia­bom­bar­dieri dell’epoca, eppure, prima che la male­di­zione si com­pia, l’ingegnere ita­liano fa una cosa stu­penda: regala il primo volo di quello che non è ancora uno stru­mento di morte, agli ope­rai che lo hanno costruito e alle loro fami­glie, come se quell’aereo non avesse altro scopo che riscat­tare col diver­ti­mento e l’ebbrezza del volare, la fatica costata per rea­liz­zarlo.
Cre­diamo che per le masse e per il movi­mento, in que­sto che si vuole un momento di stasi, gli unici sogni da sognare col­let­ti­va­mente gra­zie al cinema siano sogni male­detti come que­sto di Jiro, sogni in cui si rac­col­gono desi­deri e pro­getti col­let­tivi che, sep­pure col­piti dalla male­di­zione di una realtà che li mette al ser­vi­zio di forze reat­tive e rea­zio­na­rie, vanno pre­ser­vati nella loro purezza pro­prio den­tro il reale che li ha dan­nati. Cos’è il comu­ni­smo se non il sogno più male­detto che la società abbia mai sognato? Male­detto dal Capi­tale, dalla social­de­mo­cra­zia, dallo sta­li­ni­smo, dalle destre dei par­titi comu­ni­sti e dei sin­da­cati, ma pur sem­pre il più bel sogno da sognare.
Non è un caso che Wil­liams aprisse quella con­fe­renza ricor­dando che il movi­mento ope­raio crebbe e si affermò in cor­ri­spon­denza della nascita e dello svi­luppo del cinema.

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