Battista è sempre più la caricatura di Battista. Tutti sanno che il primato nell'uso spregiudicato del soft power sul terreno artistico è della Cia. Come tutti sanno che è nella società capitalistica che la libertà individuale è ridotta al minimo mentre il controllo è più capillare [SGA].
La Cina contro l’«arte degenerata» Xi richiama al realismo socialista
Il leader di Pechino imita Mao e lancia un attacco alla «schiavitù del mercato»
di Guido Santevecchi Corriere 18.10.14
PECHINO
La parola d’ordine è chiara: «Servire il popolo promuovendo il
patriottismo e i valori morali del socialismo». I destinatari del monito
pronunciato dal presidente cinese Xi Jinping questa volta non sono i
soliti quadri del partito, ma gli artisti. Il leader ha convocato una
bella rappresentanza di scrittori, poeti, sceneggiatori, danzatori,
pittori e ha detto che non debbono essere schiavi del mercato, non
debbono cedere alla tentazione di produrre opere «che puzzano di
denaro».
Il discorso è stato ripreso dall’agenzia Xinhua , che in un
commento ispirato lo ha paragonato a uno celebre pronunciato da Mao
Zedong nel 1942 a Yan’an, la mitizzata base del partito comunista ai
tempi del conflitto con i giapponesi e poi della guerra civile contro i
nazionalisti. In quell’accampamento remoto il padre della rivoluzione
aveva osservato che classe operaia e contadini, non gli intellettuali,
erano il pubblico della produzione artistica. «Settantadue anni dopo, il
segretario generale del partito comunista Xi Jinping si rivolge di
nuovo agli artisti e letterati per chiedere che le loro opere incarnino i
valori fondamentali del socialismo, mantengano lo spirito cinese e
chiamino a raccolta la forza della Cina», commenta l’agenzia di Stato.
Quindi, un altro passo di Xi per avvicinarsi al modello di Mao,
imponendo la sottomissione della cultura all’interesse del popolo, vale a
dire del partito.
Per la verità, l’editoriale della Xinhua cade
subito in una contraddizione, perché accusa il mondo delle arti cinese
di non essere stato in grado di lanciare nel mondo quel segnale di
potenza che il Paese meriterebbe. «Paragonate con la notevole crescita
dell’economia e della potenza dello Stato, le opere letterarie e
artistiche cinesi sono meno impressionanti». L’agenzia cita come esempio
virtuoso la Corea del Sud «Paese vicino, più piccolo e meno popoloso,
che si è saputo ben presentare al mondo globalizzato... mentre non c’è
una sola canzone pop cinese che abbia avuto un successo internazionale
come Gangnam Style». C’è da dubitare che Xi Jinping, quando dice che
l’arte deve servire il popolo, abbia in mente proprio il tormentone
musicale dell’imbrillantinato sudcoreano Psy.
Xi dice che gli
artisti non debbono perdersi nell’ondata dell’economia di mercato; la
popolarità non dev’essere volgarità; «i lavori artistici debbono essere
come raggi di sole che spuntano dal cielo azzurro, come brezza in
primavera che ispira le menti, riscalda i cuori, coltiva il buon gusto e
pulisce l’aria dagli stili indesiderati». Insomma, gli artisti debbono
essere morali e soprattutto devoti al regime. La Cina è tutt’altro che
povera di grandi artisti contemporanei: basterebbe ricordare Ai Weiwei,
che esporta nel mondo le sue mostre, ma non può seguirle perché è
confinato a casa, visto che contesta il primato del partito.
Il
presidente Xi è tutt’altro che una persona rozza. Quando nel 1969 fu
mandato in campagna a rieducarsi, durante la Rivoluzione Culturale, quel
giovanotto magro, figlio di un rivoluzionario maoista incappato in una
purga, si era portato tanti libri nel bagaglio da suscitare l’interesse
dei contadini dello Shaanxi. Uno che l’aveva aiutato con le valigie in
seguito ricordò di aver pensato: «Quanto pesano, ci saranno lingotti
d’oro». Altri tempi, ora quel ragazzo è diventato presidente, segretario
del partito e capo della commissione militare: il nuovo Mao .
L’eterna tentazione dei regimi di dettare l’estetica
di Pierluigi Battista Corriere 18.10.14
Per
i dittatori (non solo quelli moderni) non è una perdita di tempo
occuparsi d’arte, musica e letteratura. Non sono raffinati amanti della
cultura, ma pensano che i loro regimi siano più stabili se l’arte è
controllata, se il dissenso dall’estetica ufficiale è bandito, se gli
artisti si conformano alle direttive del Partito.
Fu Stalin a
decretare la persecuzione per gli artisti che non volevano assoggettarsi
agli imperativi del «realismo socialista». Fu Hitler a bruciare le
opere «sovversive» e a voler rinchiudere in un recinto infetto l’«arte
degenerata» da cui avrebbe dovuto purificarsi il Terzo Reich.
Fu Mao
a scatenare con la «Rivoluzione culturale» un’offensiva contro l’«arte
decadente» e la «letteratura piccolo borghese» che costò la vita a
migliaia di poeti, scrittori, artisti, musicisti. Oggi incomincia in
Cina la battaglia contro l’estetica non irreggimentata.
Una fatwa
contro l’arte che non segue i canoni fissati da un’oligarchia di
Partito. Un inizio di persecuzione che chiunque non voglia celebrare con
il pennello o con la scrittura, con il cinema e con il teatro i fasti
di un regime che vuole solo panegirici, sviolinate, consenso, adulazione
per i Capi, ottimismo di Stato. L’ombra, il dubbio, l’incertezza, ma
anche il dolore esistenziale devono essere messi al bando. Considerati
come un sabotaggio ai danni dell’integrità dello Stato, alla salute
pubblica, alla coesione nazionale. Malgrado le concessioni
capitalistiche e l’apertura al mercato, i dirigenti cinesi restano
abbarbicati a una visione monopartitica della società e dello Stato. A
questo punto anche mono artistica, nel senso che lo Stato si arroga il
compito di assegnare il titolo di arte solo alle opere che si adeguano
all’estetica dominante e a considerare come «nemici» pubblici tutti gli
artisti che recalcitrano agli ordini estetici fissati dal Partito
secondo criteri indiscutibili.
Nella storia del Novecento i
totalitarismi hanno sempre propagandato una visione quadrata, iper
classicistica, monumentale dell’arte. In Germania la mostra dell’«arte
degenerata» venne allestita nello stesso anno, il 1937, in cui
Kandinskij capì che non era più possibile dipingere opere d’arte sotto
il tallone di Stalin che detestava l’avanguardia, le linee sinuose, la
decadenza, il «formalismo». Nel ventunesimo secolo, a Pechino, la triste
tradizione continua. Con lo Stato onnipotente, anche nelle questioni
artistiche.
L’arte di servire il popolo cinese
Il regime ribadisce il diktat di Mao: Gli intellettuali devono sostenere la linea del partito
di Cecilia Attanasio Ghezzi il Fatto 25.10.14
Pechino
Servire il popolo e la causa socialista è un requisito del Partito
comunista cinese ed è essenziale per lo sviluppo futuro dei settori
culturali e artistici della nazione”. Sembrano parole di Mao Tsé-Tung il
“Grande timoniere”. Ma si tratta di una frase estrapolata da uno dei
più recenti discorsi del presidente Xi Jinping. Anzi, dello “zio Xi”
come si è fatto chiamare dagli studenti. Alla vigilia del 4° plenum del
Pcc, tutti hanno ripensato ai famosi Discorsi sulle arti e la
letteratura di Mao a Yan'an. Era il 1942 e il padre-padrone della
Repubblica popolare scaldava gli animi affermando che “la nostra arte e
la nostra letteratura sono per le masse”. Un discorso che si è impresso
nella memoria collettiva tanto che un paio d'anni fa, in occasione del
70esimo anniversario, cento artisti e letterati ne hanno ricopiato a
mano i testi. Un lavoro da fini calligrafi che ha dato vita a
un'edizione speciale di quelli che sono passati alla storia come i
Discorsi di Yan'an. Il messaggio, allora come oggi, è chiaro: lo scopo
primario dell'arte è quello di servire il partito e le sue priorità
politiche. Ma 70 anni fa la Cina era un paese povero e ancora feudale.
La Repubblica popolare di oggi, invece, è quella che ha inventato il
socialismo alla cinese e che, attraverso un'apertura al mercato guidata
dalle aziende di stato, gareggia con gli Usa per la supremazia
economica. Le “masse” a cui si rivolge oggi Xi Jinping sono cittadini
istruiti che si informano, consumano e viaggiano per il mondo. Gli
artisti che il presidente chiama a farsi carico della rappresentazione
dei valori socialisti e a non essere schiavi del mercato son cresciuti
nell'ambiente meno ideologizzato che ha caratterizzato il ventennio
guidato prima da Jiang Zemin e poi da Hu Jintao.
UN VENTENNIO
cominciato con l'ingresso della Cina nel Wto e si è concluso con lo
storico sorpasso degli abitanti delle città su quelli delle campagne.
Anche il mercato dell'arte cinese è esploso. Oggi rappresenta un quarto
di quello mondiale, valutato quasi 49 miliardi di euro. E i suoi
esponenti esprimono insoddisfazione per la crescente forbice tra ricchi e
poveri, la speculazione immobiliare, i disastri ambientali di
trent'anni di crescita vertiginosa. Una presa di coscienza collettiva
che il presidente Xi Jinping prova a cancellare portando avanti la
visone del “rinascimento” cinese. Superando il concetto di leadership
collettiva con quello dell’uomo forte, se stesso, Xi chiede alle masse
di rispolverare i valori patriottici e la fierezza di uno Stato forte
con una tradizione millenaria. Vuole promuovere l'unità nazionale e una
sempre maggiore influenza cinese sul resto del mondo. Perciò non tollera
il dissenso. Il Partito sotto Xi Jinping ha già rispolverato termini
marxisti come dittatura democratica del proletariato, lotta di classe e
linea di massa. Si serve del confucianesimo per legittimare il rispetto
dell'autorità e, attraverso una lotta alla corruzione senza precedenti,
si è liberato dei nemici politici contrari a un'ulteriore
liberalizzazione del mercato.te queste ipotesi sono state al momento
archiviate. Non facilmente. I suoi amici si sono divisi. Da un lato chi
ha sostenuto, in modo pessimista, che anche questo “sacrificio” rischia
di essere inutile. E lo stesso presidente, ragionando, si sarebbe
lasciato scappare una frase drammatica: “Cosa succederebbe se domani
mattina non mi dovessi svegliare?”. Dall’altro, invece, i fautori della
“responsabilità”. Napolitano, alla fine, ha abbracciato questa linea.
“Lasciare senza aver firmato né la nuova legge elettorale né la nuova
Costituzione e con i conti in disordine, per lui a questo punto sarebbe
una sconfitta” rivela chi gli ha parlato di recente. Il presidente
vorrebbe riuscire a mettere il suo autografo almeno sotto la nuova legge
elettorale. Vede il traguardo a un passo, perché l’Italicum poteva
vedere la luce entro l’inverno, ma ogni volta si ricomincia daccapo. Ora
di nuovo modifiche, balletti sui diversi modelli, aperture e chiusure.
Un teatrino che sfinisce la pazienza di Napolitano e gli fa sembrare una
chimera le dimissioni a compito concluso. Ma l’idea di lasciare senza
una nuova legge elettorale, con un Senato che elegge il suo successore
per l’ultima volta e un governo che chissà quanto dura gli appare sempre
più come una prospettiva destabilizzante. Le urne saranno ancora il
piano B di Renzi?
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