Il primo osservatore straniero che seppe dare un giudizio severo del
fascismo fu lo scrittore jugoslavo (futuro premio Nobel), Ivo Andric.
Nel novembre del 1921, al momento del congresso fascista di Roma, vide
«i cortei d’uomini in camicia nera adornati con una testa di morto,
scarmigliati, sfilare a passo di parata per le vie tranquille della
capitale» e individuò chiaramente «l’origine e il percorso del
fascismo». «Fatta eccezione per alcuni entusiasti professori barbuti,
figli di buona famiglia e studenti occhialuti», li descrisse l’autore
del romanzo Il ponte sulla Drina , «tutti gli altri avevano visi poco
intelligenti, brutali, da provinciali violenti… La testa scoperta, il
viso illividito dal freddo intenso, con un entusiasmo arrabbiato,
indossando fasce con caratteristiche parole d’ordine (“Me ne frego”,
“Disperata”), brandendo manganelli nodosi, piuttosto che semplici
bastoni di ferro o di piombo, evidentemente consacrati dalla tradizione
di numerose risse». «È la provincia oscura, rozza, calata a Roma avida
di battersi e assetata di potere… un’invasione di canaglie e di
arrivisti». Lo scrittore rimase poi strabiliato dal comportamento dei
politici del tempo: «L’organizzazione temibile di Mussolini, e il
pericolo che ne deriva per i governanti, non distoglie affatto questi
ciechi dai loro meschini intrighi parlamentari per rovesciare un governo
e impossessarsi dei ministeri… Il parlamentarismo italiano marcia
rapidamente verso la sua rovina».
Uno tra i migliori eredi di Renzo De Felice, Emilio Gentile, già autore
di testi fondamentali sul totalitarismo, ha raccolto in un volume denso
di suggestioni, In Italia ai tempi di Mussolini. Viaggio in compagnia di
osservatori stranieri (in uscita da Mondadori), osservazioni e
riflessioni «da fuori» sul ventennio nero. Il venticinquenne giornalista
marxista tedesco Hanns-Erich Kaminski giudicò Mussolini «un
pagliaccio». Riferì di aver fatto vedere la sua foto a parecchie
persone, chiedendo loro chi pensavano che fosse, e che le risposte
furono pressoché unanimi: un tenore o un attore di cinema. Kaminski non
ebbe dubbi: Mussolini era «un commediante», che valuta ogni atto «in
funzione dell’effetto», «aspetta sempre l’applauso ed è pronto a
prostituirsi per essere adulato». Nel febbraio del 1925, quando ormai
Mussolini era saldo al potere, Kaminski scrisse che il Duce era «solo».
«Il popolo italiano», aggiunse, «lotta oggi per la sua libertà, e poiché
per il suo carattere e la sua storia può vivere esclusivamente come un
popolo libero, esso combatte in verità per la sua stessa esistenza».
Maliziosamente Gentile riproduce la previsione evitando di sottolineare
come si dovettero attendere vent’anni perché essa si inverasse.
Stessa malizia si intravede nella citazione di quel che scriveva il
socialista americano Charles Edward Russel, secondo il quale già in quei
primi anni Venti il sentimento generale contro Mussolini era così
grande che «nessuno si sarebbe stupito di qualsiasi cosa gli fosse
capitata», dal momento che «egli aveva commesso, o aveva permesso al suo
governo di commettere, ciò che agli occhi degli italiani era la più
grave delle offese: aver negato lo spirito della rivoluzione italiana,
aver tradito la tradizione di Mazzini». Sulla base di questa percezione,
Russel si diceva sicuro «che la fine della dittatura non era lontana
dal momento che la maggioranza della nazione era manifestamente contro
di essa». Il politico catalano Francisco Cambò, dopo l’uccisione del
leader socialista Giacomo Matteotti, si disse certo del fatto che
Mussolini non poteva «far altro che capitolare»: «si mantiene al governo
perché, oggi come oggi, nessuno vuole sostituirlo».
Più trattenuto (quantomeno per quel che riguardava le previsioni) fu il
giornalista radicale inglese William Bolitho, secondo cui il Duce aveva
«depredato il Paese della libertà e di tutto ciò che rende la vita degna
di essere vissuta». «Nel terzo anno del suo dominio», scriveva Bolitho
nel 1925, «l’Italia è un mondo silenzioso e ombroso, dove gli uomini
hanno paura di essere visti per le strade in compagnia della verità». Ma
poi allargava le responsabilità di quel che stava accadendo da
Mussolini ai suoi predecessori dell’Italia liberale: Agostino Depretis,
Francesco Crispi, Giovanni Giolitti. Loro «avevano usato la corruzione
per dominare; il capo del fascismo oltre alla corruzione, faceva ricorso
al revolver e al manganello» e questa «era l’unica differenza
importante fra l’Italia sotto Mussolini e l’Italia governata dai
liberali». Infine anche a lui il Duce appariva come «il sorvegliante di
una prigione piena di carcerati» e il fatto che avesse imposto la
censura gli sembrava essere «la prova più evidente dell’assenza di un
reale consenso da parte dei suoi concittadini». Ma allora perché il
Paese non si ribellava? Per la passività generale: «Passiva l’opinione
pubblica, impaurita e ignorante; passive le Forze armate, che si
mantengono neutrali, attorno a una monarchia circospetta; passiva e
paralizzata l’opposizione politica; passiva la stampa ostile al regime;
passiva la classe lavoratrice sottomessa». Unica, parziale, eccezione la
Chiesa, passiva anch’essa, ma che «ha sollevato la protesta più alta da
quando la libertà di stampa è stata soppressa».
Rappresentazioni polemiche dell’Italia fascista diedero anche lo
scrittore e giornalista francese Henri Béraud, l’americano John Bond e
gli spagnoli Juan Chabas e Alicio Garcitoral. Quest’ultimo nel 1930
parlava delle «maschere» del Duce, che da agitatore antiborghese si era
messo in tutto e per tutto al servizio della borghesia. Opinione simile a
quella del comunista tedesco Alfred Kurella, che nel 1931 esultava
perché a suo dire era caduta «la maschera di Mussolini» e «caduta la
maschera, Mussolini è sparito e appaiono i brutti ceffi dei possidenti,
degli industriali e dei banchieri, i veri padroni dell’Italia fascista».
Il libro di Gentile non è e non vuole essere a tesi. Ma quel che viene
fuori è che (tralasciati i non pochi simpatizzanti esteri del regime
fascista, come il giornalista inglese Percival Phillips o l’ex
ambasciatore americano a Roma Richard Washburn Child) gli osservatori
neutrali, che sono la maggioranza, danno un giudizio più articolato di
quello degli antagonisti su quel che accadde in Italia tra gli anni
Venti e la metà degli anni Quaranta. Non di rado, un giudizio che
contiene qualche concessione.
È il caso di Edgar Ansel Mowrer, corrispondente in Italia del «Chicago
Daily News», il quale incontrò Mussolini già nel maggio del 1915 e il 29
ottobre del 1922 fece con lui il viaggio in treno che portò il futuro
capo del governo nella capitale all’indomani della marcia su Roma.
Grande amico di Giuseppe Prezzolini, Mowrer, pur non avendo grande
simpatia per il Duce, scrisse pagine assai acute sull’«inatteso
risveglio» del nostro Paese. Mowrer era rimasto colpito da
un’affermazione di Francesco Saverio Nitti: «Noi italiani non facciamo
rivoluzioni, facciamo discorsi». Effettivamente, aggiungeva il
giornalista americano, agli italiani piaceva annunciare intenzioni e
«spararle grosse». Tale abitudine, aggiungeva, «sarebbe innocua se non
fosse per il fatto che questo gas verbale è di gran lunga più micidiale
di quelli usati in guerra, perché crea una cortina tra chi parla e la
realtà, dando di questa un’immagine distorta; agli italiani accade di
vedere ogni cosa attraverso una cortina fumogena di iperboli, retorica e
semplici assurdità».
Stesso discorso vale per lo scrittore inglese Richard Bagot. E per lo
studioso francese Maurice Pernot, che attribuiva «la causa originaria
del fascismo alla carenza dell’autorità dello Stato nel corso dei primi
due anni del dopoguerra»; secondo lui era merito del fascismo aver fatto
appello alla nazione affinché la smettesse di piangersi addosso e
riacquistasse l’orgoglio assieme alla volontà di riaffermare il proprio
ruolo nel mondo, come aveva fatto con l’interventismo, con la guerra e
con la vittoria. L’americano Carleton Beals tenne un diario della marcia
su Roma e fece acute notazioni su quanto il degrado dei servizi nel
primo dopoguerra avesse contribuito all’affermazione del partito
fascista: «Condurre affari pubblici richiedeva infinite complicazioni
burocratiche, conoscenze influenti ed esborso di denaro… Telefonare era
pressoché impossibile, le poste erano nel caos più completo».
Benevoli furono in qualche modo Kenneth Roberts e il riformista George
Herron, che deprecò il «sistema tirannico delle leghe rosse» e sostenne
le ragioni degli italiani in merito agli esiti della Prima guerra
mondiale. Così anche Paul Hazard che, riprendendo le osservazioni di
Beals sulla burocrazia, vedeva come gli abitanti dell’intera penisola si
attendessero dal fascismo il «miracolo più grande»: «Forse attaccherà i
ministri e i burocrati dei ministeri; forse farà comprendere ai
burocrati di Roma che “urgente” non vuol dire “sei mesi”; e farà capire
agli italiani che le leggi sono fatte per essere osservate, qualunque
cosa ne pensino».
L’unica alternativa al fascismo individuata da questi osservatori
stranieri, in viaggio per l’Italia all’inizio degli anni Venti, si
trovava nel mondo cattolico. Hazard si disse molto favorevolmente
impressionato dall’arcivescovo di Milano Achille Ratti (il futuro Papa
Pio XI). E dal fondatore del Partito popolare, don Luigi Sturzo:
«L’istinto delle realizzazioni pratiche è la sua passione», scrisse, «è
dappertutto, vede tutto, prevede tutto, interviene al momento opportuno
per proporre agli esitanti, agli indecisi, ai confusionari, le soluzioni
opportune». E ancora: «Cosa sarebbe il Partito popolare senza di lui?
Certamente senza di lui non sarebbe arrivato a un tale livello di
prosperità… Don Sturzo lo domina: ne è il dittatore; so che si irrita
quando lo si chiama così, e protesta… Diamogli questa soddisfazione e
diciamo allora che don Sturzo è un soldato semplice come Napoleone era
il piccolo caporale». Ma Hazard previde anche quel che stava per
accadere nel nostro Paese. I fascisti, scriveva prima della marcia su
Roma, consideravano l’Italia «gravemente ammalata» e «dopo averla
salvata, volevano guarirla… spazzando via gli uomini al potere e
installandosi al loro posto, ripudiando le istituzioni sorpassate, i
metodi invecchiati, le abitudini timide». Ed era bene non farsi
illusioni: «Essi vanno diritti a un colpo di Stato, profezia tanto più
facile da farsi, dal momento che l’annunciano rumorosamente».
Per il resto, fa notare Gentile, anche un osservatore poco sensibile al
fascino mussoliniano come Beals si sentì in dovere di riconoscere che
quella del Duce era «una personalità trascinatrice di primo piano» e
notò la sua «determinazione calvinistica» che si univa a una sorta di
«egoismo cromwelliano»; inoltre «questo leader energico, alquanto
dogmatico eppure fantasioso, è diventato sempre più, col passare del
tempo, un punto di raccolta attorno al quale può turbinare la corrente
emotiva del popolo».
Kenneth Roberts, pur assai critico nei confronti della deriva
autoritaria mussoliniana («se tutti gli atti di Mussolini sono
costituzionali, allora il monumento di Washington è fatto di caramelle
alla menta», ironizzò), riconobbe l’effetto della sua «magia nera» che
aveva salvato l’Italia mentre stava precipitando nel gorgo di un
disastro finanziario «al cui confronto le cascate del Niagara sarebbero
apparse come una placida pozzanghera d’acqua piovana». Gli italiani,
osservava Roberts (sfavorevolmente impressionato dal peso che
sull’amministrazione pubblica avevano «burocrati che non avevano mai
udito il suono di una sveglia»), «non sono abituati a rispettare la
tabella di marcia, specialmente (e siamo di nuovo a quel che aveva
colpito Beals e Hazard, ndr ) quelli impiegati nell’amministrazione
pubblica… Mussolini ha messo fuori dalla burocrazia statale migliaia di
impiegati per migliorare l’efficienza degli uffici; il risultato è che
ora tutti gli altri sono solerti. Sotto di lui, un ufficio statale
italiano appare il luogo più indaffarato del mondo». Anche se, avvertì
l’americano Clayton Cooper, in Italia «è più facile fare una rivoluzione
che costruire un governo stabile». E, aggiunse Beals, «per quanto forte
sia questo Stato, l’Italia è ancora un guscio di noce nel mare
tempestoso d’Europa».
Colpisce in questo straordinario libro di Emilio Gentile la diversità
tra i giudizi più ingenui e ottimisti degli antifascisti e quelli ben
più profondi e realistici degli osservatori che tenevano ben distinta
l’analisi dalla battaglia politica. Ma colpisce altresì l’ampiezza di
credito che, in virtù di queste analisi, fu dato in sede internazionale
all’esperimento mussoliniano. Il che spiega anche i comportamenti non
ostili delle supposte potenze antifasciste fino alla metà degli anni
Trenta. E anche oltre, in qualche caso.
Il fascismo visto da lontano
Il Ventennio osservato dagli stranieri: dal caos del primo dopoguerra allo sbarco in Sicilia
di Raffaele Liucci Il Sole Domenica 9.11.14
Gli
stranieri hanno sempre ragione? Ce lo siamo spesso domandati, durante
la seconda Repubblica, quando il nostro paese ha attratto come un
magnete la morbosa curiosità del resto del mondo. Ora un libro di Emilio
Gentile (illustre collaboratore di questo supplemento) esplora l'altro
ventennio, quello mussoliniano, colto attraverso l'occhio dei
viaggiatori giunti da oltre confine. La sapienza di questo lavoro sta
nel suo montaggio: l'autore è riuscito a incastonare centinaia di
testimonianze in un racconto fluido e diacronico, che si legge tutto
d'un fiato, dal caos del primo dopoguerra sino allo sbarco degli Alleati
in Sicilia, nel luglio del '43. Gentile vi indossa i panni del
narratore, astenendosi da ogni commento esornativo. Spetta ai lettori
cogliere i frutti della sua ricerca.
Innanzitutto, quale valore
euristico attribuire al "verbo" dei nostri ospiti? Sono giornalisti,
scrittori, studiosi, diplomatici, uomini politici, che in verità non
paiono discostarsi troppo dalla media dei nostri connazionali. C'è chi
avverte precocemente le radici dello squadrismo o le peculiarità del
l'esperimento littorio, e c'è chi ragiona per luoghi comuni. Senza
dimenticare i frequenti abbagli, come quello preso dal giornalista (e
sociologo) peruviano José Carlos Mariàtegui, che nell'aprile 1924
pronostica un rapido declino del nascente regime. Un vaticinio replicato
da diversi suoi colleghi all'indomani del delitto Matteotti (10 giugno
1924), quando Mussolini sembrava un colosso dai piedi d'argilla.
Insomma, è sempre faticoso azzeccare in tempo reale la giusta direttrice
della Storia (ammesso che esista davvero), e un passaporto straniero
non agevola di per sé il compito. Assai più lungimirante era stato
l'«italiano inutile» Prezzolini, che dopo la Marcia su Roma aveva
scritto a Piero Gobetti: «Sento che per venti, venticinque anni la
politica è finita e che non c'è nulla da fare, altro che ritirarsi a
guardare».
Veniamo così al secondo punto: lo sguardo non sempre
distaccato dell'osservatore allotrio, egli stesso talvolta vittima dei
propri pregiudizi. Così, nel 1931 il comunista tedesco Alfred Kurella
riferisce d'essersi imbattuto in fantomatiche masse operaie ribollenti
di odio verso la dittatura, mentre dieci anni prima lo storico francese
Paul Hazard non riusciva a dissimulare la schietta simpatia per il
fascismo delle origini. Tanto da discolpare lo squadrismo, adducendo
come attenuante l'ancestrale "abitudine alla violenza" degli italiani,
trogloditi per natura.
Il terzo nodo del libro di Gentile richiama
appunto la nostra acclarata minorità. Tutti i "forestieri" sono concordi
nel reputare l'Italia non assimilabile agli altri paesi-guida
dell'Occidente. Per questo molti di loro si spingono ad accettare
obtorto collo il fascio littorio, che avrebbero invece reputato una
soluzione indegna per Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti. Ma cosa
aspettarsi da un popolo levantino e anarcoide come il nostro? In fondo,
di fronte all'inerzia dei liberali e al massimalismo dei socialisti, il
manganello, il revolver e l'olio di ricino hanno restaurato l'ordine
perduto. Tanto più che, scrive il reporter francese Henri Béraud nel
1929, «il fascismo non si trasmette ai vicini più della camorra o della
mafia». Una previsione sballata!
Quarto punto: il passato che non
passa. Diverse pagine riesumate da Gentile suonano oggi sinistramente
attuali, spalancando uno scenario arcaico eppure famigliare. Il
sudiciume delle grandi città del Sud. La verbosità dei discorsi
politici. Una concezione elastica della legge. Il moloch burocratico. La
propensione a seguire il pifferaio di turno, dalla parlantina
frizzante. Nonostante diversi ospiti registrassero gli sforzi di
Mussolini per fare dell'Italia «un paese fresco e primaverile», più
disciplinato e moderno, il nostro carattere è rimasto quasi intonso,
anche dopo l'avvento della Repubblica. Onde i costi esagerati sopportati
dall'Italia per diventare, semplicemente, "un paese normale". Un
obbiettivo peraltro mai raggiunto, come confermano alcune recenti
riflessioni dello stesso Gentile, piuttosto pessimista sul futuro del
nostro popolo, «né Stato né Nazione».
Quinto punto: la falce
dell'oblio. In questo volume non brillano soltanto scrittori del calibro
di Joseph Roth, Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir (in veste di
turisti indispettiti dall'occhiuto controllo poliziesco), o del croato
Ivo Andric (futuro premio Nobel jugoslavo, autore del romanzo Il ponte
sulla Drina, nel 1920-22 diplomatico di carriera in Italia), ma anche
molti altri personaggi ormai dimenticati. È una dura legge della Storia,
valida soprattutto per i giornalisti, la cui effimera notorietà svapora
allo scomparire della firma. Ma ora, grazie a Google e Wikipedia,
possiamo dipanare il gomitolo delle loro vite. Per esempio, Edgar Ansel
Mowrer, corrispondente del «Chicago Daily News», il quale aveva
conosciuto Mussolini durante il "maggio radioso" del '15 e la sera
successiva alla Marcia su Roma viaggiò con lui sul treno che da Milano
lo portava nella capitale, dove lo attendeva il Re per conferirgli
l'incarico di Presidente del Consiglio. Oppure George Seldes, il
reporter americano già espulso dal duce e autore nel 1935 di una
biografia molto critica su di lui (Sawdust Caesar), frutto di un viaggio
in incognito nel nostro paese. O ancora, Cicely Hamilton, femminista
inglese che, pur riconoscendo la modernità fascista, ne denuncia la
concezione regressiva della famiglia: «La vita domestica, un marito e
una casa: e figli, i futuri cittadini italiani, e tanto meglio se
numerosi».
Per concludere, che cosa resta dei fotogrammi ingialliti
pazientemente recuperati da Gentile? Oscillanti nel tempo, azzardati nei
giudizi, influenzati dagli eventi ancora caldissimi, sono frammenti
troppo eterogenei per essere ricomposti in un quadro unitario. Ma
ciascuna di queste voci ingloba uno spicchio di verità. In più, tutte
colgono la specificità italiana del fascismo e il suo spessore storico
non transeunte. Biasimato, tollerato o incensato, il fascismo non viene
mai "defascistizzato" e ridotto a innocua burletta, come invece accadrà
nell'Italia repubblicana, per mano di una vulgata indulgente che avrà in
Giovanni Ansaldo, Leo Longanesi e Indro Montanelli i suoi più brillanti
ideologi. Ben diversa era stata l'impressione dei contemporanei del
duce, come dimostra anche questo libro, firmato da uno studioso che
nelle sue ricerche ha sempre messo a fuoco il profilo antidemocratico,
antiliberale, nazionalista, razzista e totalitario dello Stato
mussoliniano. Tutti attributi che all'epoca non possedevano
necessariamente un significato negativo.
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