lunedì 13 ottobre 2014

La costruzione del regime fascista nello sguardo degli osservatori internazionali


In Italia ai tempi di Mussolini. Viaggio in compagnia di osservatori stranieri
E' noto che c'è sempre stata grande attenzione, soprattutto in area anglosassone. Ma non solo. Erano anni nei quali in tutti i paesi gli esperimenti di gestione della società di massa assumevano le forme più diverse [SGA].

Emilio Gentile: In Italia ai tempi di Mussolini. Viaggio in compagnia di osservatori stranieri, Mondadori, pagine 360, e 20

Risvolto
La sera del 29 ottobre 1922, alla stazione di Milano, tra una folla di giovani armati in camicia nera, il corrispondente dall'Italia del "Chicago Daily News", Edgar Ansel Mowrer, scorse Benito Mussolini. Il giornalista gli si avvicinò e gli chiese: "Signor Mussolini, mi dice cosa succede?". "Non lo sapete?" rispose lui. "Vado a Roma per instaurare il fascismo." "Congratulazioni" soggiunse Mowrer, e salì sul treno che il giorno dopo avrebbe portato il duce del fascismo alla conquista del potere. Inizia così, alla vigilia della "marcia su Roma", questo particolarissimo viaggio nell'Italia di Mussolini, ripercorso, nelle sue tappe cruciali, a partire dalle pagine che giornalisti, studiosi, viaggiatori e scrittori stranieri dedicarono alle vicende del nostro paese negli anni più tragici del Novecento. Un viaggio durato oltre un ventennio, dalla Grande guerra alle lotte operaie e contadine del "biennio rosso", dalle violenze squadriste ai fasti dell'Italia imperiale sino ai giorni bui della seconda guerra mondiale, quando l'Italia finì "sotto le ruote della storia".

Il grand Tour sotto il duce
La lungimiranza degli stranieri neutrali La miopia degli osservatori antifascisti L’arrivo al potere di Mussolini attirò l’attenzione di molti autori giunti dall’estero Alcuni affermarono che il popolo si sarebbe presto ribellato alle camicie nere altri invece capirono che la dittatura aveva basi solide ed era destinata a durare

di Paolo Mieli Corriere 13.10.14
Esce in libreria domani il volume In Italia ai tempi di Mussolini. Viaggio in compagnia di osservatori stranieri (Mondadori, pagine 360, e 20), nel quale lo storico Emilio Gentile offre un’ampia rassegna dei giudizi che autori esteri di vario orientamento formularono sul fascismo e sul suo capo. Nato a Bojano, in provincia di Campobasso, nel 1946, Gentile è stato allievo di Renzo De Felice. Studioso del fascismo e più in generale del totalitarismo, si è occupato a fondo anche dello sviluppo dell’identità nazionale italiana dal Risorgimento in poi. È uno dei più autorevoli sostenitori della tesi secondo cui il fascismo fu un regime pienamente totalitario. Un saggio di Gentile sul primo conflitto mondiale, L’apocalisse della modernità , uscirà in edicola con il «Corriere della Sera» l’11 dicembre prossimo nella collana «La Biblioteca della Grande guerra».

Il primo osservatore straniero che seppe dare un giudizio severo del fascismo fu lo scrittore jugoslavo (futuro premio Nobel), Ivo Andric. Nel novembre del 1921, al momento del congresso fascista di Roma, vide «i cortei d’uomini in camicia nera adornati con una testa di morto, scarmigliati, sfilare a passo di parata per le vie tranquille della capitale» e individuò chiaramente «l’origine e il percorso del fascismo». «Fatta eccezione per alcuni entusiasti professori barbuti, figli di buona famiglia e studenti occhialuti», li descrisse l’autore del romanzo Il ponte sulla Drina , «tutti gli altri avevano visi poco intelligenti, brutali, da provinciali violenti… La testa scoperta, il viso illividito dal freddo intenso, con un entusiasmo arrabbiato, indossando fasce con caratteristiche parole d’ordine (“Me ne frego”, “Disperata”), brandendo manganelli nodosi, piuttosto che semplici bastoni di ferro o di piombo, evidentemente consacrati dalla tradizione di numerose risse». «È la provincia oscura, rozza, calata a Roma avida di battersi e assetata di potere… un’invasione di canaglie e di arrivisti». Lo scrittore rimase poi strabiliato dal comportamento dei politici del tempo: «L’organizzazione temibile di Mussolini, e il pericolo che ne deriva per i governanti, non distoglie affatto questi ciechi dai loro meschini intrighi parlamentari per rovesciare un governo e impossessarsi dei ministeri… Il parlamentarismo italiano marcia rapidamente verso la sua rovina». 
Uno tra i migliori eredi di Renzo De Felice, Emilio Gentile, già autore di testi fondamentali sul totalitarismo, ha raccolto in un volume denso di suggestioni, In Italia ai tempi di Mussolini. Viaggio in compagnia di osservatori stranieri (in uscita da Mondadori), osservazioni e riflessioni «da fuori» sul ventennio nero. Il venticinquenne giornalista marxista tedesco Hanns-Erich Kaminski giudicò Mussolini «un pagliaccio». Riferì di aver fatto vedere la sua foto a parecchie persone, chiedendo loro chi pensavano che fosse, e che le risposte furono pressoché unanimi: un tenore o un attore di cinema. Kaminski non ebbe dubbi: Mussolini era «un commediante», che valuta ogni atto «in funzione dell’effetto», «aspetta sempre l’applauso ed è pronto a prostituirsi per essere adulato». Nel febbraio del 1925, quando ormai Mussolini era saldo al potere, Kaminski scrisse che il Duce era «solo». «Il popolo italiano», aggiunse, «lotta oggi per la sua libertà, e poiché per il suo carattere e la sua storia può vivere esclusivamente come un popolo libero, esso combatte in verità per la sua stessa esistenza». Maliziosamente Gentile riproduce la previsione evitando di sottolineare come si dovettero attendere vent’anni perché essa si inverasse. 
Stessa malizia si intravede nella citazione di quel che scriveva il socialista americano Charles Edward Russel, secondo il quale già in quei primi anni Venti il sentimento generale contro Mussolini era così grande che «nessuno si sarebbe stupito di qualsiasi cosa gli fosse capitata», dal momento che «egli aveva commesso, o aveva permesso al suo governo di commettere, ciò che agli occhi degli italiani era la più grave delle offese: aver negato lo spirito della rivoluzione italiana, aver tradito la tradizione di Mazzini». Sulla base di questa percezione, Russel si diceva sicuro «che la fine della dittatura non era lontana dal momento che la maggioranza della nazione era manifestamente contro di essa». Il politico catalano Francisco Cambò, dopo l’uccisione del leader socialista Giacomo Matteotti, si disse certo del fatto che Mussolini non poteva «far altro che capitolare»: «si mantiene al governo perché, oggi come oggi, nessuno vuole sostituirlo». 
Più trattenuto (quantomeno per quel che riguardava le previsioni) fu il giornalista radicale inglese William Bolitho, secondo cui il Duce aveva «depredato il Paese della libertà e di tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta». «Nel terzo anno del suo dominio», scriveva Bolitho nel 1925, «l’Italia è un mondo silenzioso e ombroso, dove gli uomini hanno paura di essere visti per le strade in compagnia della verità». Ma poi allargava le responsabilità di quel che stava accadendo da Mussolini ai suoi predecessori dell’Italia liberale: Agostino Depretis, Francesco Crispi, Giovanni Giolitti. Loro «avevano usato la corruzione per dominare; il capo del fascismo oltre alla corruzione, faceva ricorso al revolver e al manganello» e questa «era l’unica differenza importante fra l’Italia sotto Mussolini e l’Italia governata dai liberali». Infine anche a lui il Duce appariva come «il sorvegliante di una prigione piena di carcerati» e il fatto che avesse imposto la censura gli sembrava essere «la prova più evidente dell’assenza di un reale consenso da parte dei suoi concittadini». Ma allora perché il Paese non si ribellava? Per la passività generale: «Passiva l’opinione pubblica, impaurita e ignorante; passive le Forze armate, che si mantengono neutrali, attorno a una monarchia circospetta; passiva e paralizzata l’opposizione politica; passiva la stampa ostile al regime; passiva la classe lavoratrice sottomessa». Unica, parziale, eccezione la Chiesa, passiva anch’essa, ma che «ha sollevato la protesta più alta da quando la libertà di stampa è stata soppressa». 
Rappresentazioni polemiche dell’Italia fascista diedero anche lo scrittore e giornalista francese Henri Béraud, l’americano John Bond e gli spagnoli Juan Chabas e Alicio Garcitoral. Quest’ultimo nel 1930 parlava delle «maschere» del Duce, che da agitatore antiborghese si era messo in tutto e per tutto al servizio della borghesia. Opinione simile a quella del comunista tedesco Alfred Kurella, che nel 1931 esultava perché a suo dire era caduta «la maschera di Mussolini» e «caduta la maschera, Mussolini è sparito e appaiono i brutti ceffi dei possidenti, degli industriali e dei banchieri, i veri padroni dell’Italia fascista». 
Il libro di Gentile non è e non vuole essere a tesi. Ma quel che viene fuori è che (tralasciati i non pochi simpatizzanti esteri del regime fascista, come il giornalista inglese Percival Phillips o l’ex ambasciatore americano a Roma Richard Washburn Child) gli osservatori neutrali, che sono la maggioranza, danno un giudizio più articolato di quello degli antagonisti su quel che accadde in Italia tra gli anni Venti e la metà degli anni Quaranta. Non di rado, un giudizio che contiene qualche concessione. 
È il caso di Edgar Ansel Mowrer, corrispondente in Italia del «Chicago Daily News», il quale incontrò Mussolini già nel maggio del 1915 e il 29 ottobre del 1922 fece con lui il viaggio in treno che portò il futuro capo del governo nella capitale all’indomani della marcia su Roma. Grande amico di Giuseppe Prezzolini, Mowrer, pur non avendo grande simpatia per il Duce, scrisse pagine assai acute sull’«inatteso risveglio» del nostro Paese. Mowrer era rimasto colpito da un’affermazione di Francesco Saverio Nitti: «Noi italiani non facciamo rivoluzioni, facciamo discorsi». Effettivamente, aggiungeva il giornalista americano, agli italiani piaceva annunciare intenzioni e «spararle grosse». Tale abitudine, aggiungeva, «sarebbe innocua se non fosse per il fatto che questo gas verbale è di gran lunga più micidiale di quelli usati in guerra, perché crea una cortina tra chi parla e la realtà, dando di questa un’immagine distorta; agli italiani accade di vedere ogni cosa attraverso una cortina fumogena di iperboli, retorica e semplici assurdità». 
Stesso discorso vale per lo scrittore inglese Richard Bagot. E per lo studioso francese Maurice Pernot, che attribuiva «la causa originaria del fascismo alla carenza dell’autorità dello Stato nel corso dei primi due anni del dopoguerra»; secondo lui era merito del fascismo aver fatto appello alla nazione affinché la smettesse di piangersi addosso e riacquistasse l’orgoglio assieme alla volontà di riaffermare il proprio ruolo nel mondo, come aveva fatto con l’interventismo, con la guerra e con la vittoria. L’americano Carleton Beals tenne un diario della marcia su Roma e fece acute notazioni su quanto il degrado dei servizi nel primo dopoguerra avesse contribuito all’affermazione del partito fascista: «Condurre affari pubblici richiedeva infinite complicazioni burocratiche, conoscenze influenti ed esborso di denaro… Telefonare era pressoché impossibile, le poste erano nel caos più completo». 
Benevoli furono in qualche modo Kenneth Roberts e il riformista George Herron, che deprecò il «sistema tirannico delle leghe rosse» e sostenne le ragioni degli italiani in merito agli esiti della Prima guerra mondiale. Così anche Paul Hazard che, riprendendo le osservazioni di Beals sulla burocrazia, vedeva come gli abitanti dell’intera penisola si attendessero dal fascismo il «miracolo più grande»: «Forse attaccherà i ministri e i burocrati dei ministeri; forse farà comprendere ai burocrati di Roma che “urgente” non vuol dire “sei mesi”; e farà capire agli italiani che le leggi sono fatte per essere osservate, qualunque cosa ne pensino». 
L’unica alternativa al fascismo individuata da questi osservatori stranieri, in viaggio per l’Italia all’inizio degli anni Venti, si trovava nel mondo cattolico. Hazard si disse molto favorevolmente impressionato dall’arcivescovo di Milano Achille Ratti (il futuro Papa Pio XI). E dal fondatore del Partito popolare, don Luigi Sturzo: «L’istinto delle realizzazioni pratiche è la sua passione», scrisse, «è dappertutto, vede tutto, prevede tutto, interviene al momento opportuno per proporre agli esitanti, agli indecisi, ai confusionari, le soluzioni opportune». E ancora: «Cosa sarebbe il Partito popolare senza di lui? Certamente senza di lui non sarebbe arrivato a un tale livello di prosperità… Don Sturzo lo domina: ne è il dittatore; so che si irrita quando lo si chiama così, e protesta… Diamogli questa soddisfazione e diciamo allora che don Sturzo è un soldato semplice come Napoleone era il piccolo caporale». Ma Hazard previde anche quel che stava per accadere nel nostro Paese. I fascisti, scriveva prima della marcia su Roma, consideravano l’Italia «gravemente ammalata» e «dopo averla salvata, volevano guarirla… spazzando via gli uomini al potere e installandosi al loro posto, ripudiando le istituzioni sorpassate, i metodi invecchiati, le abitudini timide». Ed era bene non farsi illusioni: «Essi vanno diritti a un colpo di Stato, profezia tanto più facile da farsi, dal momento che l’annunciano rumorosamente». 
Per il resto, fa notare Gentile, anche un osservatore poco sensibile al fascino mussoliniano come Beals si sentì in dovere di riconoscere che quella del Duce era «una personalità trascinatrice di primo piano» e notò la sua «determinazione calvinistica» che si univa a una sorta di «egoismo cromwelliano»; inoltre «questo leader energico, alquanto dogmatico eppure fantasioso, è diventato sempre più, col passare del tempo, un punto di raccolta attorno al quale può turbinare la corrente emotiva del popolo». 
Kenneth Roberts, pur assai critico nei confronti della deriva autoritaria mussoliniana («se tutti gli atti di Mussolini sono costituzionali, allora il monumento di Washington è fatto di caramelle alla menta», ironizzò), riconobbe l’effetto della sua «magia nera» che aveva salvato l’Italia mentre stava precipitando nel gorgo di un disastro finanziario «al cui confronto le cascate del Niagara sarebbero apparse come una placida pozzanghera d’acqua piovana». Gli italiani, osservava Roberts (sfavorevolmente impressionato dal peso che sull’amministrazione pubblica avevano «burocrati che non avevano mai udito il suono di una sveglia»), «non sono abituati a rispettare la tabella di marcia, specialmente (e siamo di nuovo a quel che aveva colpito Beals e Hazard, ndr ) quelli impiegati nell’amministrazione pubblica… Mussolini ha messo fuori dalla burocrazia statale migliaia di impiegati per migliorare l’efficienza degli uffici; il risultato è che ora tutti gli altri sono solerti. Sotto di lui, un ufficio statale italiano appare il luogo più indaffarato del mondo». Anche se, avvertì l’americano Clayton Cooper, in Italia «è più facile fare una rivoluzione che costruire un governo stabile». E, aggiunse Beals, «per quanto forte sia questo Stato, l’Italia è ancora un guscio di noce nel mare tempestoso d’Europa». 
Colpisce in questo straordinario libro di Emilio Gentile la diversità tra i giudizi più ingenui e ottimisti degli antifascisti e quelli ben più profondi e realistici degli osservatori che tenevano ben distinta l’analisi dalla battaglia politica. Ma colpisce altresì l’ampiezza di credito che, in virtù di queste analisi, fu dato in sede internazionale all’esperimento mussoliniano. Il che spiega anche i comportamenti non ostili delle supposte potenze antifasciste fino alla metà degli anni Trenta. E anche oltre, in qualche caso.

Il fascismo visto da lontano
Il Ventennio osservato dagli stranieri: dal caos del primo dopoguerra allo sbarco in Sicilia
di Raffaele Liucci Il Sole Domenica 9.11.14
Gli stranieri hanno sempre ragione? Ce lo siamo spesso domandati, durante la seconda Repubblica, quando il nostro paese ha attratto come un magnete la morbosa curiosità del resto del mondo. Ora un libro di Emilio Gentile (illustre collaboratore di questo supplemento) esplora l'altro ventennio, quello mussoliniano, colto attraverso l'occhio dei viaggiatori giunti da oltre confine. La sapienza di questo lavoro sta nel suo montaggio: l'autore è riuscito a incastonare centinaia di testimonianze in un racconto fluido e diacronico, che si legge tutto d'un fiato, dal caos del primo dopoguerra sino allo sbarco degli Alleati in Sicilia, nel luglio del '43. Gentile vi indossa i panni del narratore, astenendosi da ogni commento esornativo. Spetta ai lettori cogliere i frutti della sua ricerca.
Innanzitutto, quale valore euristico attribuire al "verbo" dei nostri ospiti? Sono giornalisti, scrittori, studiosi, diplomatici, uomini politici, che in verità non paiono discostarsi troppo dalla media dei nostri connazionali. C'è chi avverte precocemente le radici dello squadrismo o le peculiarità del l'esperimento littorio, e c'è chi ragiona per luoghi comuni. Senza dimenticare i frequenti abbagli, come quello preso dal giornalista (e sociologo) peruviano José Carlos Mariàtegui, che nell'aprile 1924 pronostica un rapido declino del nascente regime. Un vaticinio replicato da diversi suoi colleghi all'indomani del delitto Matteotti (10 giugno 1924), quando Mussolini sembrava un colosso dai piedi d'argilla. Insomma, è sempre faticoso azzeccare in tempo reale la giusta direttrice della Storia (ammesso che esista davvero), e un passaporto straniero non agevola di per sé il compito. Assai più lungimirante era stato l'«italiano inutile» Prezzolini, che dopo la Marcia su Roma aveva scritto a Piero Gobetti: «Sento che per venti, venticinque anni la politica è finita e che non c'è nulla da fare, altro che ritirarsi a guardare».
Veniamo così al secondo punto: lo sguardo non sempre distaccato dell'osservatore allotrio, egli stesso talvolta vittima dei propri pregiudizi. Così, nel 1931 il comunista tedesco Alfred Kurella riferisce d'essersi imbattuto in fantomatiche masse operaie ribollenti di odio verso la dittatura, mentre dieci anni prima lo storico francese Paul Hazard non riusciva a dissimulare la schietta simpatia per il fascismo delle origini. Tanto da discolpare lo squadrismo, adducendo come attenuante l'ancestrale "abitudine alla violenza" degli italiani, trogloditi per natura.
Il terzo nodo del libro di Gentile richiama appunto la nostra acclarata minorità. Tutti i "forestieri" sono concordi nel reputare l'Italia non assimilabile agli altri paesi-guida dell'Occidente. Per questo molti di loro si spingono ad accettare obtorto collo il fascio littorio, che avrebbero invece reputato una soluzione indegna per Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti. Ma cosa aspettarsi da un popolo levantino e anarcoide come il nostro? In fondo, di fronte all'inerzia dei liberali e al massimalismo dei socialisti, il manganello, il revolver e l'olio di ricino hanno restaurato l'ordine perduto. Tanto più che, scrive il reporter francese Henri Béraud nel 1929, «il fascismo non si trasmette ai vicini più della camorra o della mafia». Una previsione sballata!
Quarto punto: il passato che non passa. Diverse pagine riesumate da Gentile suonano oggi sinistramente attuali, spalancando uno scenario arcaico eppure famigliare. Il sudiciume delle grandi città del Sud. La verbosità dei discorsi politici. Una concezione elastica della legge. Il moloch burocratico. La propensione a seguire il pifferaio di turno, dalla parlantina frizzante. Nonostante diversi ospiti registrassero gli sforzi di Mussolini per fare dell'Italia «un paese fresco e primaverile», più disciplinato e moderno, il nostro carattere è rimasto quasi intonso, anche dopo l'avvento della Repubblica. Onde i costi esagerati sopportati dall'Italia per diventare, semplicemente, "un paese normale". Un obbiettivo peraltro mai raggiunto, come confermano alcune recenti riflessioni dello stesso Gentile, piuttosto pessimista sul futuro del nostro popolo, «né Stato né Nazione».
Quinto punto: la falce dell'oblio. In questo volume non brillano soltanto scrittori del calibro di Joseph Roth, Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir (in veste di turisti indispettiti dall'occhiuto controllo poliziesco), o del croato Ivo Andric (futuro premio Nobel jugoslavo, autore del romanzo Il ponte sulla Drina, nel 1920-22 diplomatico di carriera in Italia), ma anche molti altri personaggi ormai dimenticati. È una dura legge della Storia, valida soprattutto per i giornalisti, la cui effimera notorietà svapora allo scomparire della firma. Ma ora, grazie a Google e Wikipedia, possiamo dipanare il gomitolo delle loro vite. Per esempio, Edgar Ansel Mowrer, corrispondente del «Chicago Daily News», il quale aveva conosciuto Mussolini durante il "maggio radioso" del '15 e la sera successiva alla Marcia su Roma viaggiò con lui sul treno che da Milano lo portava nella capitale, dove lo attendeva il Re per conferirgli l'incarico di Presidente del Consiglio. Oppure George Seldes, il reporter americano già espulso dal duce e autore nel 1935 di una biografia molto critica su di lui (Sawdust Caesar), frutto di un viaggio in incognito nel nostro paese. O ancora, Cicely Hamilton, femminista inglese che, pur riconoscendo la modernità fascista, ne denuncia la concezione regressiva della famiglia: «La vita domestica, un marito e una casa: e figli, i futuri cittadini italiani, e tanto meglio se numerosi».
Per concludere, che cosa resta dei fotogrammi ingialliti pazientemente recuperati da Gentile? Oscillanti nel tempo, azzardati nei giudizi, influenzati dagli eventi ancora caldissimi, sono frammenti troppo eterogenei per essere ricomposti in un quadro unitario. Ma ciascuna di queste voci ingloba uno spicchio di verità. In più, tutte colgono la specificità italiana del fascismo e il suo spessore storico non transeunte. Biasimato, tollerato o incensato, il fascismo non viene mai "defascistizzato" e ridotto a innocua burletta, come invece accadrà nell'Italia repubblicana, per mano di una vulgata indulgente che avrà in Giovanni Ansaldo, Leo Longanesi e Indro Montanelli i suoi più brillanti ideologi. Ben diversa era stata l'impressione dei contemporanei del duce, come dimostra anche questo libro, firmato da uno studioso che nelle sue ricerche ha sempre messo a fuoco il profilo antidemocratico, antiliberale, nazionalista, razzista e totalitario dello Stato mussoliniano. Tutti attributi che all'epoca non possedevano necessariamente un significato negativo.

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