Se la meritano, Pina Picierno. E perciò se la tengano [SGA].
Una sinistra condannata al conflitto senza scissione
di Massimo Franco Corriere 30.10.14
Bisognerà
abituarsi ad una sinistra condannata al conflitto senza scissione. Uno
scontro aspro, in crescendo, combattuto dentro il Pd ma soprattutto tra
il partito e la Cgil. Senza tuttavia che nessuno possa e voglia arrivare
alla rottura formale, perché non esistono spazi per creare alternative;
e ancora di più perché l’eventuale frattura è temuta da chi dovrebbe
provocarla. Significherebbe infatti offrire a Matteo Renzi un’ottima
ragione per chiedere lo scioglimento delle Camere.
Dopo gli incidenti
in piazza Indipendenza a Roma di ieri mattina tra polizia e operai
della Ast di Terni, tuttavia, la tensione ha raggiunto livelli di
guardia. Non c’è solo il fatto in sé, pur grave, con gli inevitabili
scambi di accuse tra Cgil e Fiom e polizia, e la chiamata in causa di un
governo guidato dal segretario del Pd. L’impressione è che si tenti di
far scivolare le responsabilità verso il Viminale. La richiesta di
chiarimenti che arriva dal Pd dice questo. Ma la minoranza del Pd addita
anche Renzi. E il segretario della Fiom, Maurizio Landini che gli
intima di «chiedere scusa».
Il problema è che il nervosismo a
sinistra lievita da giorni. Susanna Camusso vede in Renzi il premier dei
fantomatici «poteri forti». E Pina Picierno, deputata pd, la accusa di
essere eletta con tessere false della Cgil. È la fotografia di rapporti
avvelenati. Rimane da capire se e come possa essere fermata una deriva
doppiamente insidiosa: perché moltiplica gli strappi nel Pd; e perché li
scarica su un governo sottoposto a esami quotidiani, in Italia e nella
Ue, dove il compromesso dell’altro giorno sulla legge di Stabilità
appare meno scontato del previsto.
Anche la trattativa tra Palazzo
Chigi e Comuni sui tagli si sta esasperando. Piero Fassino, presidente
dell’Anci e alleato di Renzi, ora accusa il governo di imporre riduzioni
di spesa «insostenibili». Graziano Delrio, sottosegretario a Palazzo
Chigi, ritiene il contrario. Ma questa discrasìa conferma che l’incontro
non è andato bene. Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, ribadisce
che le riforme in realtà vanno nella direzione giusta. Ieri ha
dichiarato con un pizzico di enfasi che l’Italia «sta diventando nota
per il suo sforzo contro l’evasione fiscale»: era a Berlino per un
accordo su questo tema.
C’è da sperare che Padoan abbia ragione.
L’interpretazione del «sì» della Commissione all’Italia e ad altri
quattro Paesi a rischio di bocciatura, però, lascia aperte alcune
incognite. «L’Italia sta facendo cambiamenti importanti. Bisogna vedere
se saranno attuati», avverte il commissario agli Affari economici, il
finlandese Jyrki Katainen. E aggiunge che, nonostante il peggioramento
della situazione economica, non si possono escludere nuove sanzioni. È
un modo per tenere sulla corda i governi con i conti in bilico. Ma può
diventare una sponda per giustificare misure dolorose e impopolari agli
occhi delle opinioni pubbliche.
Il sospetto del premier: “Qualcuno punta alla spallata vogliono farci passare per quelli che picchiano gli operai”
di Francesco Bei Repubblica 30.10.14
ROMA
Spegnere subito l’incendio. Abbassare i toni. Questo l’imput di Matteo
Renzi ai ministri Federica Guidi — spedita subito alla Camera per
esprimere il «rammarico» del governo per le manganellate agli operai di
Terni — e Angelino Alfano. Telefonate, soprattutto quella con il
ministro dell’Interno, per cercare di capire le «responsabilità» di
quella carica di polizia in un momento delicatissimo della vertenza Ast.
«C’è stato un eccesso di reazione, non possiamo passare per il governo
che picchia gli operai».
E però, oltre all’irritazione per quanto
accaduto in piazza, il premier ha tratto dalla giornata una conferma al
dubbio che da sabato, dal giorno della manifestazione a San Giovanni,
passa di bocca in bocca tra i renziani più stretti: «Qualcuno,
approfittando della crisi, sta tentando da dare una spallata al
governo». Quel «qualcuno» assume sempre più le sembianze della leader
Cgil, Susanna Camusso. In sintonia con alcuni esponenti della minoranza
interna.
Ieri pomeriggio, appena terminato a palazzo Chigi l’incontro
con i sindaci dell’Anci, Renzi si è allontanato in un angolo con
Graziano Delrio per commentare a tu per tu gli sviluppi dell’incidente
di piazza Indipendenza, monitorando soprattutto i commenti sindacali più
accesi e le rampogne arrivate dagli oppositori alla Civati. «Adesso
stanno esagerando — è sbottato il capo del governo —. Lo sanno benissimo
che stiamo facendo tutto il possibile per risolvere quella vertenza. Lo
sanno bene perché li teniamo informati». E dunque, se la vicenda non
riguarda il merito della vertenza acciaierie — ieri Renzi ha incontrato i
vertici di Federacciaio e di Cassa depositi e prestiti per l’ipotesi di
un ingresso pubblico nel capitale — si torna alla politica. E i dubbi
crescono. Condivisi anche dal presidente del Pd Matteo Orfini, che pure
ha protestato per primo contro le cariche agli operai: «Camusso sta
politicizzando tutto. Che senso ha accusare Renzi di essere espressione
dei poteri forti? Poteva valere semmai per il governo precedente, ma
questo? La Cgil potrebbe incalzarci sull’articolo 18, sulla legge di
Stabilità, e magari ci metterebbe in difficoltà, ma la lotta libera nel
fango che c’entra?». Un quesito per ora senza risposta, ma persino nel
fronte sindacale, tutt’altro che compatto sullo sciopero generale,
iniziano a sorgere le prime crepe sull’atteggiamento complessivo della
Camusso nei confronti di palazzo Chigi. Perplessità a cui ha dato voce
ieri Luigi Angeletti, leader della Uil: «Proclamare adesso uno sciopero
generale sarebbe solo un tentativo di far cadere il Governo che non
riuscirebbe. E andrebbe quindi a finire male per noi». Dunque, si
chiedono nel governo, a che gioco sta giocando la Cgil? Ai renziani
sembra la riedizione dello scontro che dodici anni fa lacerò i Ds tra
chi sognava la leadership di Sergio Cofferati, allora segretario della
Cgil, e l’ala riformista di D’Alema e Fassino. Il Correntone dei vari
Mussi, Salvi e Vita agiva dentro il partito per spianare la strada al
Cinese e riprendersi la “ditta”. La storia finì in un altro modo. Ma
certo la tensione che si accompagna a questa vicenda è vissuta da Renzi
con una certa preoccupazione. Non è un caso se, nel colloquio con
Alfano, è stato deciso che oggi stesso il ministro sarà in Parlamento
per fornire una versione ufficiale di quanto successo davanti
all’ambasciata tedesca. Quando il corteo, con alla testa i sindacalisti,
si è visto respingere con manganelli e scudi. «Io ero lì — racconta
ancora trafelato in Transatlantico Giorgio Airaudo, ex Fiom ora Sel — e
non c’era alcun contatto fisico con gli agenti. Stavamo a quattro-cinque
metri dal cordone e provavamo a trattare con la Digos per far sbollire
la rabbia, chiedevamo di farci arrivare al ministero dello sviluppo,
come poi è stato. Ma mentre cercavamo di parlare al telefono con Alfano o
qualcuno dei suoi collaboratori, è partita la carica a freddo». Una
versione molto diversa da quella fornita più tardi dalla Questura. Al di
là della dinamica esatta dello scontro, per Renzi l’episodio suona come
un campanello d’allarme per l’iter parlamentare della legge di
Stabilità e del Jobs Act. Due provvedimenti che ora devono accelerare al
massimo, per evitare che restino sulla graticola mentre fuori, in
piazza, la Cgil soffia sul fuoco dello scontro sociale. Per togliere
combustile al possibile incendio il governo avrebbe quindi in mente un
paio di concessioni pesanti. Precisare le fattispecie dei licenziamenti
disciplinari nella delega e, dentro legge di Stabilità, aumentare la
dotazione per i nuovi ammortizzatori sociali. Due modifiche che
potrebbero sterilizzare politicamente l’attacco di Camusso. E provare a
spezzare il fronte di chi sogna la «spallata » al governo.
Un altro autunno caldo
di Massimo Riva Repubblica 30.10.14
NON
c’era proprio bisogno degli scontri di ieri fra polizia e lavoratori
per temere l’aprirsi di un nuovo autunno caldo. La situazione sociale
del Paese, purtroppo, è già surriscaldata anche al netto dei manganelli.
Il caso dell’Ast, rappresenta solo la punta di un iceberg composto da
centosessanta partite sindacali aperte attorno ad aziende che minacciano
la chiusura.
OPPURE, nel migliore dei casi, pesanti ristrutturazioni
a carico della propria manodopera. Il tutto, per giunta, in una fase
nella quale l’Istat certifica, mese dopo mese, l’incapacità del sistema a
creare nuova occupazione. I “tavoli aperti” coinvolgono circa 90mila
lavoratori, 81 aziende del Nord, 56 al Sud e 23 che agiscono su tutto il
territorio nazionale. Un quadro che si affaccia purtroppo su un abisso.
Ciò
che in questo scenario fa presagire il peggio non è però il clima
ribollente di qualche piazza, ma l’atmosfera da guerra fredda che si sta
instaurando nei rapporti fra mondo sindacale e politico. Entrambi
soggetti che mettono radici nello stesso campo politico, ma che ora —
ecco il guaio peggiore — rischiano di essere condizionati nelle loro
prese di posizione da una battaglia interna fra maggioranza e minoranza
del partito democratico non sempre decifrabile nei reali obiettivi degli
uni e degli altri.
La soluzione di casi come quello di Terni e delle
tante altre vertenze aperte postula un dialogo negoziale triangolare
fra sindacati e imprese con un governo presente come facilitatore dei
problemi. Sullo schema di quanto accaduto, per fare un esempio concreto,
con la vicenda Electrolux chiusa con un compromesso che ha soddisfatto
tutte le parti in causa. Solo che premessa per il successo di simili e
difficili situazioni è un forte e radicato sentimento di collaborazione e
di reciproca fiducia fra i soggetti seduti al tavolo. Atmosfera che
ora, nel volgere di pochi giorni, appare profondamente mutata.
Non è
un bello spettacolo quello che Susanna Camusso offre al paese e ai
lavoratori quando dice che Matteo Renzi è a Palazzo Chigi perché così
hanno voluto Sergio Marchionne e i cosiddetti poteri forti. Pessimo poi
quello offerto da qualche pasionaria del fronte renziano che replica
mettendo in dubbio la legittimità dell’elezione della segretaria della
Cgil. Si sa che le parole sono spesso peggio delle pietre e anche dei
manganelli. Perciò il presidente del Consiglio, innanzi tutto, fa bene a
richiamare se stesso e i suoi sostenitori a una maggiore sobrietà
verbale. Ma anche sul versante sindacale appare indispensabile il
ritorno a una misura nell’uso delle parole che non alimenti
l’increscioso sospetto di voler fornire una valida sponda sociale
d’appoggio a chi briga per rovesciare il tavolo del governo e riaprire
(non si capisce neppure come) la partita interna al Pd. La somma di due
torti non ha mai fatto una ragione. Il presidente del Consiglio dovrebbe
capire che un conto è voler ridimensionare il potere di veto spesso
abusato in passato da parte dei sindacati, ma tutt’altro conto è usare
nei confronti dei medesimi toni provocatoriamente liquidatori: il
rischio è quello di alimentare reazioni tali da impedire ogni passo in
avanti.
I tanti disoccupati e i molti lavoratori che temono di
diventarlo presto sanno meglio di chiunque altro che la soluzione dei
loro problemi non è facile e neppure a portata di mano. Ma sanno anche
di avere il diritto di chiedere ai loro rappresentanti e al governo di
tenere aperti tutti i canali negoziali e di non essere usati come gli
scudi umani di una battaglia politica.
«Alla Leopolda Serra contro i sindacati, Tre giorni dopo ci sono i manganelli»
Zoggia, minoranza dem: «È inevitabile pensare a strane coincidenze. Siamo più di cento alla Camera. No a scissioni, il partito si può riscalare»
intervista di Fabrizio Roncone Corriere 30.10.14
ROMA Dov’é l’onorevole Zoggia?
Si volta un commesso. «Eccolo laggiù...».
I
deputati renziani controllano il territorio. Non sfugge la scena di un
bersaniano duro e puro che va incontro a un cronista salutandolo con
evidente cordialità. Ma Davide Zoggia se ne infischia, dei renziani.
«Abbiamo ancora facoltà di rilasciare interviste, sa?».
( Mentre
camminiamo verso il corridoio che sta accanto alla buvette, Zoggia dice
con un filo di voce: «Qui alla Camera siamo tra i 70 e gli 80, e dentro
ci metto i dalemiani, noi che stiamo con Pier Luigi e quelli di Cesare
Damiano. A questi bisogna poi aggiungere i 20 di Cuperlo e i civatiani,
che sono 8, forse 10... E anche al Senato, i numeri di quella che sui
giornali chiamate “minoranza”, non sono male: perché lì, per dire,
faccia conto che siamo già una trentina». Ci sediamo su un divanetto.
Dai finestroni entra un riverbero di luce fioca. Atmosfera perfetta per
parlare di scissione nel Pd ).
«Poi le dico cosa penso della
scissione. Subito voglio invece dirle che non mi piace un governo che
lascia manganellare operai e dirigenti sindacali, com’è successo poco
fa, in piazza Indipendenza. Certo non conosco eventuali provocazioni,
non c’ero... però è inevitabile pensare a certe coincidenze...».
Può essere più preciso?
«No,
dico: alla Leopolda, Davide Serra, il finanziere vip amico di Renzi,
prende la parola e dice cose gravi e inaccettabili sul sindacato e sul
diritto allo sciopero e poi, tre giorni dopo, che succede? Succede che i
poliziotti vedono gli operai, abbassano la visiera del casco e
caricano...».
Continui.
«Renzi parla sempre di riforme. Ma non è
che le riforme poi puoi andarle a fare a destra, con una cultura di
destra. Da quelle parti puoi eventualmente farci un passaggio la
domenica pomeriggio, quando decidi di andare dalla D’Urso, su Canale 5, a
razzolare un po’ di consenso nazionalpopolare e, appunto, magari anche
destrorso. No, ecco: questo tanto per precisare...».
Torniamo all’ipotesi di scissione. Lei prima ricordava a memoria tutti i numeri.
«La
prima cosa da dire è che il disagio non c’è tanto qui, in Parlamento,
quanto piuttosto sul territorio o nelle piazze. Pensi a piazza San
Giovanni: il 90% di quelli che erano lì hanno votato per il Pd. Come si
sono sentiti quando hanno ascoltato il loro segretario che parlava d’un
“partito di reduci”?».
Renzi, negli ultimi tempi, con voi della minoranza è assai ruvido.
«Troppo
ruvido... questa escalation di perfidie e provocazioni, questo continuo
forzare la mano è così inspiegabile da risultare sospetto. Ha tutto
dalla sua parte: un bel 40,8% delle elezioni europee ancora caldo, la
concreta prospettiva di poter governare fino al 2018, un’opposizione
praticamente inesistente e però, che fa? Appena può sbeffeggia la
minoranza del suo partito. Perché?».
Lo dica lei: perché?
«Vuol far cadere il governo o, piuttosto, cambiare e per sempre il Dna del Pd? I sospetti sono legittimi».
Per capirci: lei pensa che Renzi vi provochi sperando di vedervi andar via?
«Non
lo so, può darsi ci sia un progettino di questo tipo. Che, però, va a
sbattere contro la nostra cultura politica. Perché noi non siamo
abituati a fondare partitini del 10%, noi abbiamo fondato il Pd. E al Pd
vogliamo bene e qui dentro, perciò, restiamo. Del resto fummo proprio
noi, fu Bersani, nel 2012, a rendere “scalabile” il partito, quando,
facendo un favore a Renzi, decise che potesse diventare premier anche
chi non era segretario... Beh, adesso, piano piano, lottando da dentro,
contiamo di poterlo riscalare noi, fino al prossimo congresso, il
partito».
La vedo dura.
«Abbiamo, l’ho spiegato, spinte contrarie e
pericolose: Renzi che ci insulta da sopra e i militanti che ci premono,
indignati, da sotto. D’Alema e Bersani, che spero Renzi non s’offenda
se definisco “padri nobili”, se ne sono accorti e non casualmente
invitano alla calma e al confronto politico».
Potete cimentarvi subito: il Jobs act è alla Camera e...
«E
le dico subito che se al Senato abbiamo votato una cartellina
praticamente vuota, qui le cose, sono in grado di garantirglielo,
andranno diversamente. Noi pretendiamo...».
Pretendere è un verbo che a Renzi fa venire le bolle.
«Noi
pretendiamo che quel po’ che c’è, dentro il Jobs act, possa essere
modificabile ed integrabile, almeno con ciò che fu deliberato dalla
direzione nazionale del partito. In caso contrario...».
Voterete contro?
«Ovvio».
(Certe
interviste sembrano non finire mai e così, alla buvette, davanti a due
pessimi caffé, siamo finiti a parlare inevitabilmente del Renzi
personaggio. «Quando io ero presidente della Provincia di Venezia, lui
guidava quella di Firenze: beh, mi creda, già all’epoca era uno che
pensava in grande. Determinato, rapace, mai stanco. Ora non so dirle se
tenesse nel mirino Palazzo Chigi: però, giuro, non mi stupirei che...»).
Accuse e veleni tra Camusso e il Pd Bersani: governo dei poteri forti? No
di Alessandro Trocino Corriere 30.10.14
ROMA
È scontro aperto tra Cgil e Pd, dopo la manifestazione contro il Jobs
act e le parole di Susanna Camusso, che ha accusato Matteo Renzi,
citando una frase di Sergio Marchionne, di essere arrivato al governo
grazie ai «poteri forti». Ieri una replica della deputata renziana Pina
Picierno ha provocato un’ulteriore escalation di polemiche, allargando
la frattura tra Pd e Cgil. Ma l’effetto è stato anche quello di
indignare e rinvigorire l’ala sinistra dei democratici, scesi in campo
per difendere i sindacati.
A partire da Pier Luigi Bersani, che da
Otto e mezzo condanna gli incidenti e il clima che si è creato: «Sono
preoccupato per l’aria che tira. Bisogna considerare che il popolo che è
andato in piazza è basicamente il nostro e trattarlo con amicizia e
comprensione». Poi attacca, con riferimento al governo e a Renzi: «Sono
stati fatti errori piuttosto seri. Non si può accendere una miccia al
giorno. E non si può considerare il sindacato un ferro vecchio».
Quanto
ai poteri forti, Bersani nega: «Renzi è stato eletto dal Parlamento».
Ma attenzione: «Perché vogliamo rompere questo giocattolo fantastico? Io
dico a Renzi: stai sereno con me, sul serio. Ma facciamo attenzione,
perché il progetto si può incrinare». Sul premier, dice: «È una risorsa,
ha energia da vendere, ma non si può dire che ci sia un eccesso di
umiltà». Bersani parla anche dell’articolo 18: «È un principio di
civiltà, non era neanche da tirare in campo». Il Jobs act? «Non voglio
neanche pensarci alla fiducia. Cerchiamo di ragionare. Ma nessuno vuol
mettere in discussione questo governo. Il nostro Papa è Renzi. E nessuno
pensa alle elezioni». Infine una battuta: «Almeno il patto del Nazareno
non l’ho firmato».
La Picierno, ad Agorà, si era detta «molto
turbata» dalle parole del segretario Cgil. Aggiungendo: «Potrei
ricordare che la Camusso è stata eletta con tessere false o che la
piazza è stata riempita con pullman pagati, ma non lo farò». Artificio
retorico che non è bastato a evitare reazioni durissime. A partire da
una nota ufficiale della Cgil: «Siamo indignati per le parole
dell’eurodeputata pd. Potremmo dire che la Picierno dice delle falsità e
delle sciocchezze, essendo il tesseramento della Cgil certificato.
Potremmo parlare delle primarie in Campania. Ma non lo faremo». Poi la
Picierno si è scusata: «Non era mia intenzione lanciare accuse. Se le
mie affermazioni hanno dato questa impressione, mi dispiace». Palese
l’imbarazzo del vicesegretario pd Lorenzo Guerini: «La Picierno non
voleva offendere nessuno. Può capitare di dire parole eccessive. Abbiamo
grande rispetto della Cgil e lo chiediamo anche per noi». Ma la
minoranza si scatena. Corradino Mineo: «Siamo ai pesci in faccia, così
neanche Sacconi». Giuseppe Civati: «Preferivo quando certe cose le
diceva la destra». Giuditta Pini: «La Camusso ha detto una cavolata, la
Picierno l’ha fatta sembrare una fine politologa». Alfredo D’Attorre:
«Stendiamo un velo pietoso». Matteo Orfini: «La Camusso ha detto cose
sbagliate, la Picierno una sciocchezza». Matteo Richetti: «Trovo
ridicole entrambe».
Intanto, grandi manovre alla commissione Lavoro
della Camera, dove è arrivato il Jobs act. I pontieri cercano una
mediazione, ma la minoranza ha pronti gli emendamenti. Come conferma
D’Attorre: «Il Jobs act prevede l’abolizione dell’articolo 18 e un
castello di chiacchiere. Così non va».
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