giovedì 30 ottobre 2014
Lacrime di Revelli. Il giovane leader della lista Tachipirinas sembra rivalutare quel Novecento e quella modernità che tanto ha contribuito a demolire
di Marco Revelli il Fatto 30.10.14
L’opzione
disegualitaria (o, più apertamente, anti-egualitaria) è stata – e in
buona misura continua ad essere, anche se più mascherata – parte
integrante della dogmatica neoclassica che ha offerto il proprio
hardware teorico all’ideologia neoliberista fin dall’origine della sua
lotta per l’egemonia, alla fine degli anni Settanta e per tutto il corso
degli anni Ottanta del secolo scorso.
L’idea che “un eccesso di
uguaglianza faccia male all’economia” – o, più esplicitamente che “una
buona dose di diseguaglianza faccia bene alla crescita” –, ha alimentato
le politiche di deregulation prevalse nell’epicentro anglosassone e
affermatesi nel circuito della globalizzazione. Ha motivato la
rivoluzione fiscale, che ha drasticamente abbattuto le progressività
delle aliquote e frenato le politiche redistributive negli Stati Uniti e
in Gran Bretagna; e ha generato le dure conditionalities dei Programmi
di aggiustamento strutturale (Structural Adjustment Programs) del Fondo
monetario internazionale e della Banca mondiale, fortemente incentrate
sulle priorità del taglio della spesa sociale, sulla rimozione del
controllo dei prezzi e la riduzione dei sussidi statali, sulla
focalizzazione della produzione sulle esportazioni, sulle
privatizzazioni e sul perfezionamento dei diritti del capitale
d’investimento estero rispetto alle leggi nazionali.
OLTRE,
naturalmente, ad aver permeato gli insegnamenti economici impartiti da
un numero crescente di cattedre delle più accreditate università, nelle
business school, nei think tank e nelle pubblicazioni di un gran numero
di fondazioni.
“L’eguaglianza non è più una virtù” potrebbe essere
assunto come il motto che ha contraddistinto la massiccia e articolata
reazione anti-keynesiana di fine secolo: dopo un cinquantennio nel quale
l’eguaglianza, in qualche misura, il valore sociale prevalente –
l’“idea regolativa” sulla quale si erano orientate le politiche
pubbliche dell’Occidente democratico e le stesse Carte costituzionali
dei paesi civili –, si registrava, esplicitamente, un punto di rottura.
Una sorta di rovesciamento, che anche là dove l’eguaglianza non veniva
identificata come un ostacolo al “progresso economico”, la si
retrocedeva comunque da valore finale a funzione strumentale. O la si
poneva non più come presupposto ma, tutt’al più, come conseguenza dello
sviluppo, da perseguire con altri mezzi, compreso quello di un’iniziale
opzione disegualitaria.
Lo scenario nel quale quella “rottura” si è
prodotta era – lo ricordiamo – segnato da una crisi profonda del modello
che aveva caratterizzato la parte centrale del secolo, in particolare
il trentennio 1945-1975, definito da Eric Hobsbawm come “l’età dell’oro”
del suo “secolo breve ” e che i francesi chiamano le “trenta gloriose”.
Da
un lato la stagflazione – l’intreccio paralizzante di un elevato
processo di inflazione e di una altrettanto grave stagnazione – si
presentava come un male economico refrattario alle tradizionali
politiche anticicliche e offriva l’immagine di un punto di arresto o
comunque di un tetto raggiunto dallo sviluppo difficilmente superabile
con i mezzi tradizionali.
Dall’altro lato, la cosiddetta “crisi
fiscale dello Stato” – caratterizzata da un emergente debito pubblico
pur in presenza di una pressione fiscale ai propri massimi – limitava i
margini d’intervento delle autorità politiche e delle agenzie pubbliche,
lasciando intravvedere nell’insostenibile carico fiscale il principale
ostacolo alla ripresa della crescita nei paesi a capitalismo maturo. Per
parte sua, la globalizzazione incipiente lasciava intravvedere la
possibilità di un’espansione esogena della domanda, grazie
all’ampliamento e all’integrazione dei mercati su scala planetaria. Non
stupisce che in un simile contesto si sia strutturato, e sia diventato
rapidamente egemone, un paradigma socio-economico orientato alla rottura
di tutti i precedenti compromessi sociali – quelli che, fino ad allora,
avevano contribuito a formare l’idea prevalente di “società giusta” e
che ora apparivano responsabili dell’insopportabile overload delle
finanze pubbliche – e basato su una rinnovata centralità del mercato e
sulla prospettiva di uno sviluppo trainato prioritariamente dall’offerta
(supply-side) – in contrapposizione alle teorie keynesiane che si
focalizzavano sulla domanda aggregata (demand-side) – nonché
sull’effetto incentivo di una minore tassazione per la formazione di
capitali disponibili all’investimento pubblico.
UN PARADIGMA,
possiamo aggiungere, nel quale i grandi temi che avevano segnato il
lungo ciclo precedente – la questione della piena occupazione, da un
lato, e quella della povertà, dell’altro – finivano per assumere una
posizione secondaria (così è per le politiche di contrasto alla povertà,
ridimensionate con l’argomento dell’“azzardo morale”) o addirittura
alternativa (un certo tasso di disoccupazione poteva essere considerato
funzionale all’abbassamento del costo del lavoro). Un paradigma,
appunto, nel quale l’ineguaglianza cessava di essere considerata un
vizio per trasformarsi, entro certi limiti, in risorsa.
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