venerdì 31 ottobre 2014

Prima della rivoluzione: torna la Pietroburgo di Andrej Belyj

Andrej Belyj: Pietroburgo, a cura di Angelo Maria Ripellino, Adelphi

Risvolto

Pietroburgo, 1905. La città è sconvolta dalla tempesta sociale, si moltiplicano i comizi, gli scioperi, gli attentati. Il giovane Nikolaj Apollonovič, che si è incautamente legato a un gruppo rivoluzionario, entra in contatto con Dudkin, nevrotico terrorista nietzscheano, il quale gli affida una minuscola bomba. E il provocatore Lippančenko, doppiogiochista al servizio della polizia zarista e al contempo dei rivoluzionari, gli rivela qual è il suo compito: dovrà far saltare in aria il senatore Apollon Apollonovič, abietto campione dell’assurdità burocratica. Suo padre. È intorno a questo rovente nucleo narrativo che si snodano le vicende surreali e grottesche di Pietroburgo, unanimemente considerato il capolavoro romanzesco del simbolismo russo. Dove la vera protagonista è tuttavia la «Palmira del Nord»: una Pietroburgo maestosa e geome­trica solo all’apparenza, edificata su un labile terreno palustre i cui miasmi sgretolano le possenti architetture, le cui brume sfaldano e decompongono ogni comparsa che striscia lungo i vicoli fiocamente illuminati, tra bettole ammuffite e palazzi scrostati. I sommovimenti di inizio secolo, preludio di future tragedie, l’ululato del vento che si incanala lungo le gole del libro, il demoniaco colore giallo dei comizi gremiti di una folla in trance: ogni cosa è in preda a una malefica possessione, che Belyj filtra attraverso la lanterna magica delle immagini. Quello che Pietroburgo adombra è un gioco cerebrale che, pur dialogando con il presente, discende dalla contaminazione della grande letteratura ottocentesca – Puškin, Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj –, tappe di quel lungo parricidio in cui per Belyj consiste la storia dell’intelli­gencija russa. Non stupisce dunque che Vladimir Nabokov lo collocasse tra i più grandi romanzieri del Novecento insieme a Kafka, Joyce e Proust.

Pietroburgo , la lunga attesa dell’apocalisse che non viene 
Il rapporto tormentato tra un padre e un figlio, metafora dell’esistenza

Pietro Citati Venerdì 31 Ottobre, 2014 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
Boris Nikolaevic Bugaev (1880-1934) scelse lo pseudonimo di Andrej Belyj: cioè Andrea il Bianco. Era innamorato della moltitudine dei colori: li impastava, li spalmava, li violentava; eppure scelse come proprio nome il bianco assoluto, lo zero, perché solo da esso tutti i colori, vergini, sono nati. Fu amico dei simbolisti, Blok, Brjusov, Merežkovskij, Bal’mont: molte sue poesie sono presenti nella Poesia russa del Novecento (Guanda, 1964), a cura di Angelo Maria Ripellino. Scrisse alcuni romanzi: Il colombo d’argento , Kotik Letaev , Moskva , Le mosche e soprattutto Pietroburgo . La versione migliore, quella del 1922, è alla base dell’eccellente traduzione italiana di Angelo Maria Ripellino, accompagnata da una non meno eccellente introduzione ( Pietroburgo , Adelphi ). 

Pietroburgo è ambientato nell’epoca della rivoluzione del 1905. Vi si riflettono gli avvenimenti della guerra russo-giapponese, gli scioperi delle fabbriche, i comizi, gli atti di terrorismo, le cariche dei cosacchi, gli scontri. C’è un’attesa febbrile di mutamento, di catastrofe e di cataclisma: un senso di trepidazione e di paura, un’aura da apocalisse. Si attendono i gialli: giapponesi, cinesi, turani, cavalieri di Gengis Khan, orde di Tamerlano; poliformi spettri di asiatici, introdotti sinuosamente tra le pagine. Ma la cosa singolare è che, sebbene questi eventi si moltiplichino e colmino di sé Pietroburgo , nel libro non c’è alcuna traccia di storia. Tutto accade e niente accade. La storia è soltanto un tappeto orientale, bruciacchiato e gettato su una radura deserta: un filo spinato che raffiche di vento spostano capricciosamente da ogni parte. 
Figlio delle apparenze, Pietroburgo ha un apparente protagonista: Apollon Apollonovic Ableuchov, un vecchio e importante funzionario dello zar. Ma è una persona sola? «Dicono — egli asserisce — che io non sia io, bensì una moltitudine di nomi». È vecchissimo: diventa visibilmente decrepito. È odiatissimo dal figlio e da tutti i personaggi del libro; e questi odi furiosi lo cacciano morto in un sepolcro: sopra il blocco di marmo nero della tomba si innalza una croce; sotto la croce c’è un altorilievo, una testa dagli occhi penetranti e dalla bocca molteplice. Questa figura di pietra è un cubo: i quadrati, i rettangoli, i parallelepipedi trasformano tutte le cose in un’assoluta geometria. Pietroburgo è, in primo luogo, il quadro di un grande pittore cubista. Ma la vita non viene completamente annullata: si espande, e si avviticchia ai mobili, alle sedie, alle persone, in modo mostruoso e polimorfo. Così il vecchio, che credevamo morto, siede ogni giorno nel proprio ufficio, con le gambe accavallate e una mano nodosa sul risvolto della giacca: gonfia le guance e una fredda corrente si propaga per le stanze non riscaldate, scatenando un uragano alle porte della città. 
Il figlio, Nikolaj Apollonovic Ableuchov, è fatto ad immagine e somiglianza del padre, come l’uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Lo conosce per istinto, sino alle più sottili intuizioni e ai palpiti indistinti: nelle sue percezioni è assolutamente uguale a lui; non sa dove termina lui stesso e dove comincia il padre. Si odia: odia il momento della propria concezione; e trasferisce sul padre tutto l’odio viscerale che prova verso sé stesso. Prima che nascesse il padre, Nikolaj Apollonovic era il centro dell’universo, e anche ora, nella Russia assediata dai Gialli del 1905, crea il mondo istante per istante, in modo che gli assomigli. La sua Pietroburgo è segnata dal trionfo del domino rosso, che balla con una maschera nera: il domino attraversa tutta la città, tanto che un reggimento di cosacchi è chiamato ad afferrarlo: questo rosso guizzante è il luogo del caos che sconvolge la Russia; intorno ad esso c’è il regno del rococò, madame de Pompadour, portaciprie, piumini, azzurro-pallide vite che si incurvano con macchie nere. 
Sia nella Pietroburgo cubista sia nella Pietroburgo rococò, i vestiti si distaccano dagli uomini: paletot neri, turchini, grigi, gialli, berretti di ogni sorta, calosce di ogni specie, bombette, guanti, pantaloni bianchi e rossi, abiti blu, ventagli giapponesi, nastri di seta, merletti, paralumi, ali di carta, orecchi, nasi, baffi si distaccano dai corpi, e prendono il volo, come in un’immensa enumerazione, attraversando il cielo della città, simili a uccelli di una natura mai vista. Volano le carrozze e i treni: tutta la superficie sferica del pianeta è avvolta da grigio-nerastre spire di serpenti e da case cubiche. Le parole assumono un corpo: riempiono la bocca di chi parla: chi le ascolta non le ode; poi esse fuggono via, e si appendono alle guglie delle chiese e ai venti delle nuvole. Tutto vola, persino il Canale d’Inverno. I colori si staccano dalle cose, come se un grande e sconosciuto pittore decorasse impetuosamente e fragorosamente il mondo. Se guardiamo attentamente, ci accorgiamo che ciò che vola non sono cose, ma semplici riflessi: specchi che si susseguono all’infinito. 
Attraverso fori che non conosciamo, i pensieri, o tutto ciò che vive nella nostra melma cerebrale, esce dalla testa: in forme liquide o gassose, che si dilatano e si rarefanno. Tutto diventa gioco cerebrale: sebbene fisicissimo, questo gioco è sottratto alle leggi della gravità. Non c’è nessuna possibilità di distinguere fra realtà e irrealtà. Cosa è reale? Cosa è delirio? Squarci di nebbia reali si dissolvono in incubi, che si dissolvono a loro volta in nebbie vagamente reali. Dietro la porta della nostra stanza c’è il vuoto: se la spalanchiamo, dietro le nostre spalle si apre l’immensità del cosmo, dove possiamo gettarci a capofitto per volare vicino ai pianeti e alle stelle. Quale immensa dilatazione. Ogni corpo umano si estende fino ad occupare un posto uguale all’orbita di Saturno. E quale incredibile frantumazione. Il tempo si suddivide in miliardi di punti infinitesimali, fra i quali non c’è nessun rapporto. Questa dilatazione e questa frantumazione investono anche il libro scritto su Pietroburgo , che scoppia o si dissolve fra le nostre mani. 
Un fantomatico partito di terroristi invita Nikolaj Apollonovic a scagliare una bomba ad orologeria, che si trova nel cassettone del suo studio, e ticchetta rinchiusa in una scatola di sardine. Tutte le pagine del libro attendono questo scoppio: forse scoppierà lo zero, forse scoppierà l’uno, forse scoppieranno tutti i numeri; forse la mano sta per girare la chiavetta miracolosa e misteriosa. «Ma l’esplosione avverrà mai?», ci chiediamo continuamente, mentre le orecchie si riempiono di un fracasso immaginario. Uno schianto sta per rompere il silenzio, squarciando il letto, il tavolo, il muro della stanza. Ancora mezz’ora: la verde luce dell’alba si fa azzurra e grigia: la fiamma della candela rimpiccolisce: ancora quindici minuti: la candela si spegne; lentamente trascorrono dieci minuti, quasi un’eternità. Infine, ecco un impareggiabile fracasso, una tremenda esplosione, con un odore di bruciaticcio e di gas. 
Il libro dovrebbe finire qui, senza chiudersi, perché anch’esso è andato in frantumi. Eppure la bomba è dappertutto: sotto il tappeto della stanza, sotto il cuscino del letto; il ticchettio della bomba diventa il ticchettio di un orologio che la sostituisce e non può fermarsi mai, perché il tempo non si arresta. Esso diventa quello di una farfalla spiccatasi da un fiore: la farfalla continua a battere le ali nel cervello e in tutti i punti del corpo di Nikolaj Apollonovic e nel mondo. Infine ecco l’esplosione definitiva: uno schianto incomparabile, sordo, assordante, profondo, seguito da un silenzio di morte che avvolge le cose con un mantello funerario.  © RIPRODUZIONE RISERVATA

"Pietroburgo" di Belyj? È la Russia di Putin
Il romanzo capolavoro del simbolismo uscì 100 anni fa. Ma è ancora utilissimo per comprendere l'animo di un popolo

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