lunedì 20 ottobre 2014

Due allegre gite negazioniste


Gerusalemme Silenzio parlano i muriDai Maccabei a Erode, dai Crociati agli Ottomani ai Templari nazisti: un viaggio insolito alla scoperta dei luoghi più inaccessibili della città

Elena Loewenthal La Stampa 20 10 2014

La salita è incerta. Bisogna andare piano, guardare bene dove si mettono i piedi per non rotolare giù nell’intrico di canne ed elastici. Ma una volta in cima, il panorama ripaga dello sforzo e dissipa i dubbi: Gerusalemme si dispiega sotto lo sguardo con le sue macchie di verde, la selva di gru della città moderna in continua costruzione, l’ombra dei monti di Moab in una lontananza irreale e bluastra, oltre il Mar Morto. E soprattutto la pietra onnipresente fra cielo e terra: chiara, quasi bianca, qua e là striata di ocra. La pietra di cui sono fatti i suoi innumerevoli muri, alcuni celebri, altri discussi, la più parte inosservati in questa città che è il simbolo stesso dell’eternità. Ma che dall’alto del Big Bambù, installazione creata al Museo d’Israele da Doug e Mike Starn, assume un volto nuovo. Questa enorme, fragile e provvisoria struttura che è non tanto un’opera d’arte quanto una sfida al tempo fermo di Gerusalemme, alla sua natura di pietra, è l’ideale punto di partenza per un viaggio diverso dal solito nella città, complice l’iniziativa «Open Houses» che ha consentito di visitare centinaia di edifici pubblici ma soprattutto case private di particolare significato - e suggestione.
Sono i muri, in fondo, a raccontare questa città. Come quello della Kishle, straordinario esempio di tempo adagiato a strati su questa terra. Accanto all’edificio, c’è la stazione di polizia della Città Vecchia. Qualche volante parcheggiata, un silenzioso cortile interno. Sul tetto piatto si affaccia il cancello arrugginito della vecchia prigione ottomana, con il perimetro delle celle quasi intatto. Su un muro, accanto a un angusto spioncino, sono ancora riconoscibili una scritta in ebraico e una mappa della terra d’Israele: opera di un prigioniero ebreo, militante sionista, che Amit Reem, responsabile degli scavi archeologici, è riuscito a identificare. La sua squadra ha sventrato l’edificio, portando alla luce una strabiliante stratificazione: sotto la prigione i resti crociati, quelli del palazzo di Erode il grande, e sotto ancora dell’epoca dei Maccabei. Ma ancora più in basso ecco le tracce del regno di Ezechia (VIII-VII secolo a. C.). Come ere geologiche sulla pietra, questa successione di epoche a vista sarà visitabile in un prossimo futuro, entro il percorso del museo «Torre di Davide» - anche se il re biblico qui non c’entra. Ma a Gerusalemme è sempre un po’ così: muri, nomi, tempi sembrano fatti apposta per confondere la memoria. 
Come quando si va a trovare Rachel Netanel nella sua casa di Ein Kerem: un verde sobborgo della città alla cui fonte i Vangeli narrano l’incontro fra Maria ed Elisabetta. La casa si affaccia su un vecchio cimitero islamico, e buona parte dei suoi muri ha ottocento anni. Il salotto è pieno di luci, ombre e simboli ebraici. Bisogna solo fare attenzione a non battere la testa contro lo spunzone di ferro che un tempo serviva per tenerci legato l’asino. Rachel è un fiume in piena quando ti racconta di come ha voluto questa casa, contro tutto e tutti. Vicini ebrei e musulmani, archeologi e autorità. Nel giardino c’è sempre un gran viavai di gente, racconta con slancio. Si definisce «ebrea messianica», nel senso che da ebrea crede in Gesù messia, e propone a tutti il suo sincretismo entusiasta e in vago odore di New Age, mitigato dalla saggia accoglienza delle mura quasi millenarie.
Decisamente più recenti sono quelle della «Casa Hansen», che è un modo gentile per dire «lebbrosario», usando il nome dello scienziato che studiò la cura per questa sindrome. Solo quattro anni fa l’ultimo malato ha siglato la totale riconversione della casa in sede distaccata della Bezalel School, l’accademia di arti di Gerusalemme. La lebbra è ormai memoria del piccolo museo, ma le mura circostanti incutono ancora un certo timore nella gente del quartiere, che si teneva alla larga per evitare un improbabile contagio.
Ci sono muri e muri, a Gerusalemme. Anche se la pietra è sempre la stessa. Varcato quello della soglia di casa Efklides, non lontano dalla via chiamata «Emek Refaim» («valle degli spettri»...) ci si ritrova catapultati in un altro mondo. Il custode della residenza parla perfettamente ebraico e greco, ed è membro della piccola comunità di greci legati al patriarcato ortodosso. Cimeli dell’epoca ottomana, paesaggi di mare, patenti in ebraico, ninnoli in perfetto stile mediterraneo costellano i muri e raccontano la storia di una delle tantissime presenze di questa città cosmopolita ante litteram. Così come il vicino cimitero dei Templari, con il basso muro di cinta e le lapidi in gotico. I Templari dell’era moderna erano protestanti tedeschi convinti che fosse imminente il ritorno del Messia e partiti per la Terra Promessa ad aspettarlo e allestire i «templi» per la sua accoglienza nei luoghi dove era già passato. Il cimitero è suggestivo per il suo essere così fuori luogo in questa città. Qualche decennio dopo il loro arrivo, i pacifici e operosi templari fondarono a Tel Aviv la prima sezione del partito nazista fuori della Germania… e furono cacciati dagli inglesi che all’epoca governavano la Palestina.


Ma quando si dice muri di Gerusalemme non si può non dire Città Vecchia, rinchiusa entro l’imponente cinta voluta dal Saladino. Qui, nel quadrante ebraico che insieme a quello arabo, cristiano e armeno popola lo spazio millenario, Miriam Siebenberg apre le porte di casa sua e per prima cosa ti porta in cantina. Dove, invece dei vini a invecchiare, lei tiene un museo archeologico con muri vecchi quasi tre millenni, venuti alla luce con il cantiere di casa, negli Anni Settanta. Sopra i resti dell’epoca del primo Tempio di Gerusalemme l’architetto ha giocato con la luce, di cui questa città è particolarmente generosa. Le bianche pareti movimentate e una sequenza di scale portano al tetto terrazza dal quale sembra di poter toccare la cupola d’oro, sulla spianata. Poco più in là, il monte degli Ulivi con la sua macchia verde e senza soluzione di continuità la distesa di tombe del cimitero ebraico. Pietra su pietra, Gerusalemme parla con la luce, con i muri, con le voci di chi la abita, un po’ per devozione e un po’ per un genere tutto speciale di follia che non è propriamente una sindrome ma un effetto collaterale di questa sua bellezza che toglie il fiato e allarga il cuore. 


Le vite rubate della Striscia così a Gaza si muore da spia 
FABIO SCUTO Repubbliac 20 10 2014

DAL NOSTRO INVIATO GAZA
IL SOLE d’autunno illumina un cimitero di campagna compresso tra una fattoria e una fabbrica di salsa di pomodori, non distante da Khan Younis. Scavata nella sabbia c’è una fila di tombe senza lapidi. Un letto di cemento grezzo anonimo di due metri per uno, senza un nome, senza una data. Sono le tombe dei rinnegati, delle presunte spie giustiziate per strada dai miliziani di Ezzedin al Qassam alla fine della guerra dei 50 giorni che questa estate ha devastato la Striscia. Ventidue palestinesi sospettati di aver passato informazioni sono stati uccisi davanti alla gente per la strada. Li hanno seppelliti in queste tombe senza nome perché le famiglie, per vergogna, non hanno chiesto indietro i corpi. Dal 2007, quando comanda Hamas nella Striscia, sono 57 le presunte spie palestinesi giustiziate per strada.
Israele ha sempre fatto affidamento sui “collaboratori” per colpire i miliziani palestinesi. Interi apparati dell’intelligence dell’Esercito israeliano, come l’Unità 8200, sono votati solo a questa missione: raccogliere informazioni, frugare nelle vite della gente di Gaza. Una ricerca finisce per coinvolgere la vita persone innocenti, che nulla hanno a che vedere con il terrorismo di Hamas, ma che vengono schedate per preferenze sessuali, lo stato di salute e quello finanziario. Informazioni utili solo per estorcere altre informazioni e arruolare collaboratori. Perché non ci sono volontari in questo mondo di spie. Il fenomeno è carsico ma molto più numeroso di quel che si pensi, si stima che siano diecimila fra Gaza e la Cisgiordania. Un “ modus operandi” denunciato con una lettera pubblica lo scorso mese 43 ufficiali e soldati dell’Unità 8200 stanchi di «rubare le vite degli altri».
La storia di Fadi Qatshan, 26 anni, la racconta suo padre Alì seduto sulla sua carrozzella elettrica sull’uscio di casa, un antro di cemento grigio nel campo profughi di Nusseirat dove abita con la famiglia. Alì ripercorre il periplo del figlio, le sue ansie, le sue paure, la sua scelta e infine la sua morte. Fadi era malato di cuore e in un lungo giro per ospedali palestinesi a Gaza e in Cisgiordania i medici possono solo constatare che ha bisogno di un’angioplastica ma non hanno strutture per quel tipo di intervento. Fadi approda così per motivi umanitari nel maggio 2013 al Tel Hashomer, una delle eccellenze del sistema sanitario israeliano a Tel Aviv. Subisce un doppio intervento che riapre le sue arterie e resta ricoverato per 45 giorni. «Alla dimissione», racconta il padre Alì, «gli hanno dato una lettera dell’ospedale che attestava il fatto che avesse bisogno di un altro intervento al cuore dopo un mese, è il requisito per ottenere il visto di uscita da Gaza». Dopo una settimana dal ritorno a casa riceve una telefonata da un cellulare israeliano, la voce al telefono si qualifica come un ufficiale dell’intelligence dell’Idf e dice: se vuoi tornare in ospedale devi lavorare per noi, pensaci, basta che richiami questo numero. Fadi chiude terrorizzato la conversazione e racconta tutto al padre. Il 2 luglio 2013 chiede attraverso il Liaison Office israeliano il permesso di uscita allegando la richiesta dell’ospedale, richiesta respinta. Una nuova richiesta viene presentata il 27 agosto 2013 e il 9 novembre, respinte. L’attestazione dell’ospedale scade, e la famiglia via fax ne ottiene un’altra che fissa la data di ricovero per il 6 gennaio 2014. Ma Fadi Qatshan, il ragazzo di Nusseirat che non voleva diventare una spia, viene dichiarato morto per arresto cardiaco il 16 novembre 2013 all’ospedale di Deir Al Balah. «Se avesse detto sì forse sarebbe ancora vivo», dice Alì mostrando il fascio di carte che documenta questa tragedia, «ma noi saremmo vissuti nel terrore, nella paura e anche nella vergogna».
La chiameremo Suad perché non vuole dire il suo vero nome. Cinquant’anni mal portati, volto scavato e scarno, occhi grandi mai fissi su un punto, mani con un leggero tremolio. L’odore della paura nelle vesti modeste. Suo marito era uno dei sei “collaborazionisti” uccisi da Hamas per strada nel dicembre del 2012. Lei stessa, madre di sette figli, è stata arrestata per favoreggiamento e incarcerata. Condannata a sette anni è stata “graziata” lo scorso dicembre, i giudici di Hamas sono stati clementi solo per la sua prole. «Lui — racconta a proposito del marito — era già nelle mani degli israeliani prima del 2005, prima del loro ritiro. Aveva il permesso di lavoro in Israele e passava regolarmente per il valico di Erez, ma poi gli venne revocato». Spinto per necessità economica a tradire le confessò: «Non faccio del male a nessuno, passo qualche numero di telefono, un nome o un’informazione su un tunnel». Nel 2008 anche Suad diventa una “informatrice”, quando per la malattia grave di uno dei figli ottiene il permesso di andare in un ospedale israeliano. Descrive questi anni come un inferno, di paura, rabbia e impotenza. Al marito nel 2011 venne descritta un’auto e la targa: doveva chiamare “un certo numero” quando l’auto sarebbe passata nella strada principale. Guidare l’eliminazione di due boss locali di Hamas in quell’auto fu l’inizio della fine, Suad e il marito furono arrestati qualche mese dopo. «Ci hanno rubato la vita — dice adesso la donna — mio marito è stato costretto, non avrebbe mai fatto del male a nessuno».© RIPRODUZIONE RISERVATA

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