I fanatici dello Stato islamico temono il disonore d’essere uccisi da soldatesse
E così si accaniscono
Il rapporto Unicef sulle mutilazioni genitali femminili testimonia che nel Kurdistan la pratica è in declino
Nelle strade della protesta gli studenti voltano le spalle alla bandiera di Pechino
Il mondo degli affari si schiera con la Cina Ma i ragazzi insistono: “Vogliamo essere liberi”
Ma la piazza comincia a dividersi sulla strategia da seguire per il futuro
Anche i vertici comunisti sono al bivio: una nuova Tienanmen spaventa tutti
di Giampaolo Visetti
HONG KONG UN SOLO dubbio, a 65 anni dalla fondazione della Repubblica popolare cinese, unisce oggi Pechino e Hong Kong: nessuno sa come estendere l’autoritarismo, o come difendere la democrazia. Gli obbiettivi dei due fronti sono chiari, mentre i mezzi dividono sia i leader comunisti che gli insorti democratici, spaventati dalla prospettiva di una Tienanmen del Duemila tra i scintillanti grattacieli di Admiralty.
Nonostante l’impasse, questo primo ottobre passa alla storia come il giorno del simbolico addio di Hong Kong alla patria ritrovata nel 1997 e come la data d’inizio della lunga resistenza popolare contro la soppressione dei diritti occidentali di cui gode da quasi due secoli.
Lo strappo, alle prime luci del giorno, sulla piazza Golden Bauhinia, affacciata sul Victoria Harbour. Il chief executive Leung Chun-ying si presenta per il solenne alzabandiera cinese, in ricordo della vittoriosa rivoluzione di Mao. Una trentina di funzionari e businessman filo-Pechino, con cappellino rosso, brindano a champagne. Tenuti lontani dalle transenne, altrettanti studenti democratici, in t-shirt nera, voltano le spalle al vessillo nazionale, fischiano e alzano le mani sopra la testa. I primi gridano: «Andate via, straccioni». I secondi rispondono: «Dimettetevi, venduti».
Il governatore contestato, ri- tenuto colpevole sia della legge elettorale-truffa che delle violenze del fine settimana, per la prima volta difende pubblicamente il suo «suffragio universale pre-ordinato», invitando i concittadini a «camminare mano nella mano per realizzare il sogno cinese». I manifestanti ridono, gli gridano «dicci chi servi» e ripetono l’ultimatum, letto nel pomeriggio anche davanti al parlamento: dimissioni entro mezzanotte, stop alla riforma elettorale imposta da Pechino, oppure via all’occupazione dei palazzi del potere, tra Admiralty e Central. La realtà però è ora meno netta delle certezze esibite. Il governo di Hong Kong, nella notte, è stato duramente criticato dai leader cinesi, che informalmente hanno censurato sia l’imprudente accelerazione sulla legge-voto che la precipitosa repressione dell’altro giorno, scintilla per la dilagata disobbedienza civile. Il presidente Xi Jinping è costretto così a scontrarsi con la svolta cruciale della sua leadership, come Deng Xiaoping nel 1989, da una posizione di debolezza: o delegittima il partito e i suoi rappresentanti nell’ex colonia, tornando a trattare e anticipando le elezioni del 2017, oppure va pericolosamente allo scontro sotto i riflettori del mondo.
Anche la “rivoluzione degli ombrelli”, al quinto giorno di proteste, è scossa però da posizioni diverse. Parte dei democratici è per la resistenza passiva ad oltranza, parte chiede di «fare qualcosa», attaccando i palazzi del potere. Divisi anche sulla tattica. Gli studenti cercano di allargare il fronte delle occupazioni, bloccando altri quartieri della città, mentre gli attivisti di Occupy Central vogliono circoscrivere i presidi, temendo che disagi eccessivi facciano perdere il consenso collettivo.
Hong Kong resta dunque paralizzata, spaventata sia dall’idea di essere definitivamente assorbita dalla Cina che dalla prospettiva di abbandonarla, incerta se scegliere gli interessi, oppure i diritti.
E’ questa sospensione, la consapevolezza che il passo compiuto sarà quello definitivo, a bloccare ancora sia il partito comunista che l’arcipelago dei democratici. «Pechino — dice il medico Hanry Mak — vuole cancellare l’eccezione di Hong Kong, che rischia di contagiare la nazione. Ricorrere alla forza però costerebbe a Xi Jinping qualsiasi ambizione di influenza globale».
Anche le due anime democratiche, teenagers e intellettuali, sentono che nella capitale finanziaria dell’Asia passa l’ultimo treno verso i diritti universali, bruscamente anticipato rispetto al 2047. Il timore degli insorti è di svegliarsi infine soli, figli idealisti abbandonati da padri cinici che da sempre hanno preferito i soldi alla libertà. «Non toglieremo l’assedio al governo — dice la studentessa Lily Kwan — fino a quando il cameriere di Pechino non se ne andrà e non otterremo un voto realmente democratico. Se questo costerà una montagna di miliardi, pazienza». La comunità del business, vero potere-ombra della cassaforte- rossa, ci sta invece riflettendo e si chiede se valga di più una stabilità cinese o una democrazia occidentale. Assiste alla ribellione dei suoi ragazzi e pensa a quale potrebbe essere il loro, e proprio, futuro. Hong Kong, un quarto di secolo dopo Pechino, resta intanto paralizzata dagli studenti. Sembrano più spazzini che rivoluzionari, più borghesi che sovversivi, più partecipanti più ad un happening che a un’insurrezione. Puliscono i quartieri occupati, disegnano, cantano, giocano con gli smartphone, scaricano applicazioni internet-free, incollano «biglietti di idee» ai guard-rail trasformati in «Muro della libertà» e spruzzano acqua fresca sui compagni sudati.
I primi presìdi sono già trasformati in organizzatissimi accampamenti scout, pieni di viveri, bibite, vestiti, ombrelli e cerate. Dall’altra parte, dopo il maldestro blitz dei reparti speciali, gli agenti sono quasi assenti e i pochi visibili si trascinano annoiati davanti ai palazzi, sbadigliano, addirittura camminano disarmati nella folla, riparandosi dal sole con gli ombrelli.
Due eserciti che si ignorano, come atterriti dall’idea di doversi scontrare. Il problema, per quanto il bon ton asiatico stia affascinando il mondo, è se un sit-in ben tele-trasmesso possa abbattere un regime o se un ritiro della polizia adeguatamente lodato dalla propaganda possa stroncare una rivoluzione.
Di questo, mentre per strada si canta e si sogna anche quando un’altra notte risale il Victoria Peak, si discute ad Hong Kong e a Pechino, ma pure a Washington e a Mosca, a Taipei e a Pyongyang. Il segretario di Stato Kerry incontra il collega cinese Wanh Yi, Vladimir Putin invia gli auguri di buon compleanno alla Cina di Xi Jinping, il presidente di Taiwan si allaccia al polso un nastrino giallo, mentre il dittatore nordcoreano risorge allineandosi ai compagni. Oltre la Grande Muraglia, arrestati una ventina di dissidenti pro-insorti isolani, minacce di «conseguenze inimmaginabili» e nuova stretta della censura su media e social.
Primo ottobre 2014: i giovani di Hong Kong provano a restare liberi, i vecchi compatrioti cercano di convincerli che non vale la pena.
Repubblica 2.10.14
“Siamo noi giovani l’incubo del regime”
di G. V.
HONG KONG . «Io non sono un leader. Migliaia di ragazzi di Hong Kong sono come me ed esprimono le loro idee. È questo l’incubo del potere di Pechino, abituato alla dittatura individuale e al pensiero unico». Joshua Wong, studente di 17 anni, fondatore del movimento democratico “Scholarism”, arrestato venerdì notte e liberato a furor di popolo dopo 40 ore in carcere, è il volto più famoso della “rivoluzione degli ombrelli”. Dopo l’arresto di venerdì e 40 ore di carcere, ieri ha contestato l’alzabandiera cinese e letto l’ultimatum a Leung Chun-ying: o dimissioni, o assalto alle sedi del governo.
Pensa che la rivolta riuscirà a cacciare il governatore e a fermare la riforma elettorale imposta da Pechino?
«Sono certo che è solo questione di tempo. Hong Kong avrà un vero voto a suffragio universale».
Tra gli insorti affiorano dissensi: possono far fallire le proteste?
«Opinioni diverse devono essere la normalità. L’importante è concordare sui valori di fondo: la violenza contro opinioni politiche è inaccettabile, come l’imposizione di un regime camuffato da democrazia».
Gli attivisti di Occupy Central sono per una pacifica resistenza passiva: perché gli studenti preferiscono passare all’azione?
«Se vogliamo centrare gli obbiettivi, dobbiamo fare qualcosa. Se i media e i governi stranieri si stancano di noi, il potere cinese vincerà la partita. L’aministratore CY Leung non è più un interlocutore credibile e deve farsi da parte. A Pechino chiediamo di essere ascoltati, non picchiati».
È vero che riceve aiuti dagli Usa ed è pronto a emigrare per studiare?
«Si sente da lontano, l’odore della vecchia propaganda cinese. La figlia del presidente Xi Jinping studia ad Harward, io non lascerò la mia università di Hong Kong».
Per le strade ci sono quasi solo studenti: non siete troppo giovani per convincere la gente a voltare le spalle alla Cina?
«Anche nel 1989, a Pechino, si mossero gli studenti. Ci volle oltre un mese per far scendere in piazza Tienanmen pure adulti: solo la violenza salvò il regime, ma la giustizia sopravvive al tempo. Presto anche a Hong Kong non si parlerà più solo di un gruppo di ragazzi».
Passate ore a lavare le strade e a differenziare i rifiuti: perché siete tanto ossessionati dalla pulizia?
«Vogliamo dimostrare che ci sta a cuore la città, che non siamo qui per distruggere, ma per costruire. E che insieme possiamo fare pulizia anche tra i dirigenti venduti a Pechino».
Oggi ha fischiato la bandiera cinese: pensa che Hong Kong non sia Cina?
«Abbiamo protestato perché oggi non è una festa per la nazione, ma il giorno della vergogna nazionale. Non penso che, se ci fosse libertà d’espressione, i connazionali cinesi applaudirebbero la vecchia parata militare. Se non lo facciamo noi, chi lo fa, se non adesso, quando? È la democrazia: da Hong Kong si alza un vento che presto soffierà su tutta la Cina. Al dopo, penseremo dopo». ( gp. v.)
Repubblica 2.10.14
Chi ama davvero la Cina
di Ian Buruma
MALGRADO il lancio di gas lacrimogeni, decine di migliaia di persone hanno “occupato” le vie centrali di Hong Kong per far valere i propri diritti democratici. E molti altri potrebbero presto unirsi a loro. Il governo di Beijing aveva promesso che a partire dal 2017 i cittadini di Hong Kong avrebbero potuto eleggere liberamente il proprio leader. Ma dal momento che i candidati saranno attentamente scelti da un comitato filogovernativo, i cittadini non disporranno di una vera scelta. A candidarsi potranno essere solo persone che “amano la Cina”. Dove “amare la Cina” significa amare il Partito comunista.
La dimostrazione di sfida in atto ad Hong Kong sembra sconcertare i leader cinesi, e i motivi di tale perplessità non sono poi difficili da intuire. Dopo tutto, quando Hong Kong era una colonia di Sua Maestà non erano forse i britannici a scegliere i governatori? All’epoca nessuno aveva da ridire.
In effetti il “patto” che i residenti della colonia di Hong Kong in passato sembravano aver accettato — che prevedeva la rinuncia ad interessarsi alla politica in cambio della possibilità di perseguire la ricchezza materiale in un contesto sicuro e ordinato — non era poi così diverso dal patto stretto oggi con le classi colte della Cina. Tra i funzionari coloniali britannici e gli uomini d’affari era opinione diffusa che i cinesi non fossero realmente interessati alla politica, ma solo al denaro.
Una conoscenza anche sommaria della storia cinese dimostra quanto tale opinione fosse sbagliata — benché ad Hong Kong sia stata a lungo considerata corretta. Il fatto è che tra il dominio coloniale britannico di un tempo e quello cinese di oggi esiste una grande differenza. Pur senza mai essere stata una democrazia, Hong Kong poteva vantare una stampa relativamente libera, un governo relativamente esente da corruzione e una magistratura indipendente: tutte istituzioni che il governo democratico di Londra sosteneva.
Così, mentre per la maggior parte dei cittadini di Hong Kong l’idea di passare nel 1997 da una potenza coloniale ad un’altra non rappresentava motivo di particolare gaudio, la loro coscienza politica fu improvvisamente risvegliata dalla violenta repressione condotta nel 1989 a Piazza Tienanmen e in altre città cinesi: un massacro al quale Hong Kong reagì organizzando imponenti dimostrazioni. E che qui ogni anno continua ad essere commemorato.
Ad indurre così tante persone a manifestare a Hong Kong nel 1989 non fu solo la rabbia per la violazione di diritti umanitari: gli abitanti della colonia britannica avevano capito che sotto il futuro dominio cinese solo una reale forma di democrazia avrebbe potuto salvaguardare le istituzioni che garantivano le libertà di cui godevano. Sapevano che se non avessero avuto modo di decidere in qualche misura il modo in cui sarebbero stati governati, sarebbero finiti alla mercé di Beijing.
Dal punto di vista dei governanti comunisti cinesi le rivendicazioni democratiche degli abitanti di Hong Kong non sono che una distorta imitazione della politica occidentale o una forma di nostalgia nei confronti dell’imperialismo britannico — e in un modo o nell’altro sono espressione di un sentimento “anticinese”.
Secondo i governanti cinesi la democrazia conduce al disordine, la libertà di pensiero alla “confusione” del popolo e l’aperta critica del Partito alla disintegrazione dell’autorità.
Da questo punto di vista il Partito comunista cinese è piuttosto tradizionale. Il governo cinese è sempre stato autoritario, ma non è sempre stato corrotto quanto lo è oggi. Né la politica in passato era altrettanto priva di regole. Il fatto è che un tempo in Cina vi erano delle istituzioni — associazioni di clan, comunità religiose, gruppi d’affari e via dicendo — relativamente autonome. Il governo imperiale era forse autoritario, ma esistevano comunque delle grosse sacche di relativa indipendenza. In questo senso Hong Kong è più tradizionale del resto della Cina, ad esclusione di Taiwan.
Il fatto che il Partito Comunista sia al di sopra della legge favorisce il diffondersi di pericolosi livelli di corruzione tra i funzionari del Partito. Lo stretto controllo dell’espressione religiosa, accademica, artistica e giornalistica da parte del Partito ostacola il diffondersi di informazioni necessarie e del pensiero creativo. La mancanza di una magistratura indipendente mette a rischio lo stato di diritto. Nulla di tutto ciò agevola lo sviluppo della Cina.
Nel 1997, quando Hong Kong passò ufficialmente alla Cina, alcuni ottimisti pensavano che le maggiori libertà di Hong Kong avrebbero contribuito a riformare il resto del Paese, e che l’esempio di una burocrazia pulita e di giudici indipendenti avrebbe rafforzato in Cina lo stato di diritto. Per gli stessi motivi altri consideravano invece Hong Kong come un pericoloso cavallo di Troia che avrebbe potuto seriamente minare l’ordine comunista.
Ad oggi non vi sono prove del fatto che coloro che manifestano nel distretto centrale di Hong Kong intendano mettere a rischio, o addirittura rovesciare il governo di Beijing. Sono intenti a far valere i propri diritti, e le possibilità che riescano a farlo appaiono scarse. Xi Jinping, supremo leader cinese, non vede l’ora di dimostrare la propria intransigenza. Il suo obiettivo sembra quello di rendere Hong Kong più simile al resto della Cina, e non viceversa.
Eppure abbiamo ogni motivo di credere che la Cina avrebbe tutto da guadagnare da una traiettoria opposta. È improbabile che ciò accada di qui a breve. Ma è più facile imbattersi in persone che “amano davvero la Cina” per le strade di Hong Kong che negli esclusivi complessi riservati ai funzionari di Beijing. ( Traduzione di Marzia Porta)

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