E non abbiamo ancora mai parlato di Pippa Civati... [SGA].
«Scissione? Macché, io ste cose qua proprio non le concepisco.
Mi vengono a dire, “o lo condizioniamo da dentro il partito o ce ne
andiamo per conto nostro”. No, io nel Pd ci sto dentro, non con due, ma
con tre piedi»
Bersani, “Sarò leale e non mi insegnino come stare nel Pd”
Attacco a “quelli che sono stati tra i 101 traditori”
di Carlo Bertini La Stampa 2.10.14
«Scissione?
Macché, io ste cose qua proprio non le concepisco. Mi vengono a dire,
“o lo condizioniamo da dentro il partito o ce ne andiamo per conto
nostro”. No, io nel Pd ci sto dentro, non con due, ma con tre piedi,
basta che non provino a insegnarmi come si sta nel partito quelli che
hanno fatto parte dei 101 traditori». È uno sfogo carico di astio quello
di Pierluigi Bersani in pieno Transatlantico, in un colloquio a ruota
libera con i cronisti che parte da un’osservazione: la copia del Foglio
che lui serba sotto braccio che all’interno contiene un titolo sulla
voce che D’Alema voglia farsi un partito tutto suo. Bersani fa un passo
indietro come a ritrarsi: è in quel «lo condizioniamo» che si riconosce,
la sua linea sembra essere questa, giammai la seconda opzione, cioè
costituire un’altra forza della sinistra, staccandosi dalla casa madre.
Certo,
il tema clou è la madre di tutte le battaglie, quella sulla riforma del
lavoro, che ha ridotto il Pd a un mare in tempesta. Le voci di
resistenze a oltranza di una ventina di senatori pronti a votare contro
si contrappongono a quelle dei pompieri che gettano acqua sul fuoco. E
sono pure i renziani duri e puri a essere a dir poco irritati contro le
eccessive pretese della minoranza: «Matteo le aperture le ha fatte,
basta non esageriamo, si accontentino». Un partito scosso dalle voci di
fratture e scissioni, scongiurate da chi è invece convinto che il Pd
supererà indenne pure questa prova e andrà avanti più forte. A
iscriversi nella categoria di chi non crede agli sconquassi è anche l’ex
segretario, che però non risparmia stoccate a Renzi, pure su
Marchionne: «Io gli avrei detto che le critiche ad un governo sarebbe
più opportuno le facesse nel paese in cui paga le tasse». Bersani ci
tiene a garantire che sarà leale col governo, «all’ultima votazione è
ovvio che sto dove sta il Pd, non me lo spieghi gente che ha fatto certe
cose, ma di qui a lì voglio dire la mia». È la ragione sociale della
ditta che gli sta a cuore, il lavoro appunto. E se il rischio di questa
partita è la caduta del governo, reagisce male: «Per carità, non mi
interessa far cadere il governo, non ci penso proprio. Facciamo gli
emendamenti, poi si vota e alla fine ovvio che sto col Pd». Il volto si
infiamma quando ricorda le nottate passate a combattere per difendere la
trincea: «C’ero io con la Fornero e Monti a difendere la possibilità
del reintegro, mai e poi mai mi sarei aspettato che questa roba qua mi
rispuntasse da dentro il mio partito, una cosa incredibile».
E
questa minoranza spaccata, quelli come Speranza che con Epifani e Stumpo
non hanno seguito la linea dura del voto contrario in Direzione? «Ma
non si creda che vi sia una “cupola” che decide dall’alto come si deve
votare. Non ci sono manovre organizzate, ognuno pensa con la sua testa
c’è chi vota contro, chi si astiene...». Ma poi il mirino torna sulla
ditta, «ho parlato di metodo Boffo non per me, ma per tutti, non è che
chi la pensa diversamente può essere trattato così, privato della sua
dignità. Non mi vengano a insegnare come si fanno le riforme, a me che
ne ho fatte tante, ma senza dirlo o annunciarlo prima. E le facevo senza
attaccare i riformati, anzi convincendoli anche si mi sputavano
addosso, che le facevo anche per il loro bene». E via un’altra rasoiata a
Renzi, che «se la prende con tutti, sindacati, minoranza Pd, magistrati
e non con la destra e Berlusconi che ha governato per dieci anni».
Insomma, Bersani la frontiera dell’articolo 18 non la molla, sarà pure
leale alla fine, ma per ora non molla. «Che senso ha in questo contesto
abolirlo, quando ormai con la legge Fornero l’80% dei casi si vede che
finisce con la conciliazione?». Ultimo avvertimento, sul miliardo e
mezzo di euro per gli ammortizzatori sociali che «non basta perchè ne
servirebbero almeno sei: attenzione, da qui ad un anno rischiamo di
prendere una musata come Pd. Perché raccontare che l’imprenditore è
libero di licenziare e poi ci pensa lo Stato, vuol dire far credere di
essere in Danimarca, mentre si rischia che a perderci siano sia il padre
in cassa integrazione che il figlio precario disoccupato».
Bersani tra rabbia e lealtà alla «ditta»: voterò con il Pd, ma no a lezioni dai 101
Corriere 2.10.14
ROMA
— «Ma quale scissione, quale partito di D’Alema... Far cadere il
governo? Non ci penso proprio, non mi interessa. Io resto nel Pd con
tutti e due i piedi ben saldi, anzi tre. Ma non mi vengano a insegnare
come si sta in un partito quelli che hanno fatto parte dei 101». Sono le
sei del pomeriggio, Pier Luigi Bersani riesuma lo spettro del
tradimento di Prodi e allude a un coinvolgimento dei renziani. Ha voglia
di sfogarsi, ma anche di ragionare di lavoro, emergenze economiche e
coperture, che per lui non ci sono.
Approda a Montecitorio e subito
smentisce progetti di rottura: «Io le cose voglio cambiarle da dentro e
dove non sono d’accordo lo dico, ma quando voto non ho bisogno di farmi
spiegare la ditta dai neofiti». Che farà sul Jobs Act? «Si discute, si
presentano gli emendamenti, ma poi si sta con il Pd». Niente strappi
dunque, la notizia (applaudita dai renziani) è che Bersani promette
«lealtà verso il partito e il governo», sperando che il premier non
ponga la fiducia e lasci al gruppo la libertà di presentare
subemendamenti. L’accusa di essere un conservatore non gli va giù e
Bersani, dopo aver spiegato che il riferimento al «metodo Boffo»
riguardava «tutti» e non solo lui, energicamente la ribalta: «Questi
innovatori non vengano a spiegare a me come si fanno le riforme. Perché
io ne ho fatte più di loro. Prima le ho fatte e poi le ho annunciate».
Tono di sfida e umore di uno che si sente tirato per la giacca, da
sinistra: «Mi vengono a dire “o il Pd lo condizioniamo da dentro o
dovremo andare da soli”...».
Ma il sogno di un nuovo partito non è
il suo. Addossa alla destra il peso della precarietà e difende la Cgil:
«Trovo profondamente ingiusto questo schiaffo ai sindacati». Rimprovera
al premier di prendersela con tutti, dalla minoranza ai magistrati,
tranne che con Berlusconi, che «ha governato dieci anni». Racconta le
notti passate a trattare con Monti e Fornero per difendere il reintegro e
dice che Renzi sull’articolo 18 lo ha impressionato: «Non mi aspettavo
di ritrovarmi in casa ‘sta roba qua. Incredibile. Assurdo presentare
l’abolizione come la palingenesi. E non mi si dica che l’imprenditore è
libero di licenziare perché poi ci pensa lo Stato. Se un dipendente ti è
antipatico te lo tieni, perché dietro c’è una famiglia». Il Tfr in
busta paga? «Andiamoci molto cauti, quando ci si mangia oggi le risorse
di domani». E l’assegno di disoccupazione? Qui Bersani sostiene che
governo e Pd rischiano di «prendere una facciata», perché i soldi non ci
sono: «Non si può raccontare che lo diamo a tutti come in Danimarca, è
una cosa assurda, che può mandarci contro un muro. Con un miliardo e
mezzo garantiamo l’assegno a 150 mila persone... Scherziamo? Ne
servirebbero cinque o sei». Quindi una frecciatina per Marchionne,
incontrato da Renzi a Detroit: «Le critiche poteva farle sui Paesi in
cui paga le tasse e non sull’Italia. Il premier non glielo ha detto?».
E
quando gli chiedono se amici come Epifani e Stumpo lo abbiano deluso,
l’ex leader difende la libertà di scelta delle giovani leve, bersaniane e
dalemiane: «La minoranza non è un’organizzazione, è un’area fatta di
sensibilità e opinioni. Non c’è una cupola, che ti obbliga a votare in
un modo o in un altro». Non siete spaccati? «Tutti, chi si è astenuto e
chi ha votato no, abbiamo pensato che si stava compiendo un passo
avanti, ma non sufficiente». Bersani prova a chiudere così la coda
polemica seguita alla direzione, dove la minoranza è arrivata alla resa
dei conti in ordine sparso e alcuni fedelissimi suoi e di D’Alema hanno
fatto un passo verso il carro di Renzi. Un riposizionamento che ha
ingenerato attriti e rancori, anche se i protagonisti smentiscono
voltafaccia e tradimenti. «Il Pd non è una casamatta — si difende il
dalemiano Enzo Amendola — Sto in segreteria, sì. Ma cosa c’entra?
Abbiamo trattato, Renzi ha fatto un’apertura e mi sono astenuto». Quanto
al D’Alema furioso, non commenta: «Chiedetelo a lui. Questa storia dei
vecchi e dei giovani a me non interessa e se qualcuno ha una questione
personale con Renzi, se la veda lui. Io non faccio politica sui rapporti
personali». Per l’articolo 18, tanti rapporti si sono guastati. Micaela
Campana, un tempo tra le «dem» più bersaniane, è in segreteria con
Renzi e si è astenuta. E così Stumpo: «Chi era bersaniano è rimasto
bersaniano», assicura colui che fu l’uomo-macchina dell’ex segretario.
Ma il clima è tale che Zoggia sente di dover garantire per l’amico:
«L’affetto di Nico per Pier Luigi non è in discussione».
Bersani: “Alla fine voterò sì ma non prendo lezioni dai 101 che tradirono Prodi”
di Giovanna Casadio Repubblica 2.10.14
ROMA
«Ho passato giorni e notti con Monti e Fornero sull’articolo 18, a
difendere la possibilità del reintegro per il lavoratore e non mi
aspettavo di ritrovarmi questa roba qui in casa, nel mio partito».
Pierluigi Bersani scuote la testa e si sfoga in Transatlantico,
dichiarando però: «Certo sarò leale al Pd nel voto finale sul Jobs Act,
ci mancherebbe». È un’apertura a Renzi. Fuori dai microfoni tuttavia
ripete: «È incredibile, incredibile...». Soprattutto fa una previsione
preoccupata: «Renzi sventola l’abolizione dell’articolo 18 come se fosse
una palingenesi, ma da qui a un anno rischiamo di prendere una
facciata, una musata come Pd perché raccontiamo che diamo assegni a
tutti come in Danimarca. Ma ci rendiamo conto di dove siamo, di cosa è
l’Italia? Qui rischiamo di far peggiorare le situazioni, di far perdere
sia il padre in cassa integrazione sia il figlio inoccupato o precario. È
una cosa grave, perché i soldi per fare quello che Renzi promette non
ci sono».
L’ex segretario ha in mano il quotidiano “ Il Foglio” di
Giuliano Ferrara perché vuole leggere l’articolo sull’ipotesi di una
scissione, di un partito di D’Alema. A un’altra “ditta”, Bersani non
pensa affatto. «Ora dicono che vogliamo fare una scissione o
condizionare dall’interno Renzi, io nel Pd ci sono e ci resto non con
tutti e due i piedi, ma con tre piedi. Macché scissione. Però nessuno
deve venirmi a insegnare come si sta in un partito, poi proprio quelli
che hanno fatto i 101...». Una stoccata amara, ricordando la slealtà dei
“franchi tiratori” che impallinarono Prodi nella corsa al Colle e al
tempo stesso la sua segreteria. Dopo la drammatica Direzione dem di
lunedì da cui Renzi è uscito vincitore ma è stato “picchiato”
politicamente dalla vecchia guardia, lo scontro è passato in Parlamento
dove la prossima settimana si comincia a votare la riforma del lavoro.
Bersani pensa a sub-emendamenti all’emendamento del governo e dà per
scontato che il governo non ricorrerà alla fiducia. «Far cadere il
governo? Ma chi ci pensa, figuriamoci. Piuttosto nel merito va detto che
per fare quanto annunciato dal premier non bastano un miliardo e mezzo,
questi sarebbero sufficienti per 150 mila persone... ne servirebbero
almeno 5 o 6 di miliardi. Sono altre le cose di cui abbiamo bisogno: di
una flessibilità funzionale come in Germania, tipo il contratto Ducati,
che sappia affrontare i picchi e le crisi. Non mi dire “l’imprenditore è
libero di licenziare ma poi ci pensa lo Stato”, quando sai di non
poterlo mantenere qui in Italia».
È un fiume in piena, Bersani. In
Direzione ha parlato di “metodo Boffo” cioè di machina del fango contro i
dissidenti del Pd. Ora precisa: «Non mi riferivo a un metodo solo
contro di me, ma più in generale. Però nessuno deve accusarmi di essere
un conservatore. Io ho fatto riforme hard, sul commercio, l’energia, la
competitività... ne ho parlato tuttavia solo dopo averle fatte». È
l’affondo contro l’annuncite di Renzi.
«Comunque le riforme si fanno
senza attaccare i “riformati” chiamiamoli così, ma convincendoli che si
fanno anche per loro. Invece ‘sta roba qui di prendersela con i
sindacati, che avranno le loro colpe, ma è uno schiaffo ingiusto, non
esiste». A «Matteo» rimprovera tra l’altro le lodi a Marchionne a
Detroit, durante il viaggio del premier in Usa, senza avere almeno fatto
notare al manager che sarebbe opportuno fare le critiche ai paesi in
cui la Fiat paga le tasse.
Ma quanto pesa ancora la minoranza dem
frantumata in mille rivoli? Quanto può condizionare Renzi? Con Fassina,
D’Attorre, Agostini, Zoggia, bersaniani di stretta osservanza, l’ex
segretario tiene una riunione volante. Non vuole sentire parlare di
minoranza spaccata. «La minoranza non è mica un’organizzazione, una
cupola, è fatta di sensibilità e di opinioni...». Si vedrà in aula.
Berlusconi, la rete di protezione per Renzi
Il leader è pronto a dare il soccorso azzurro al governo sul Jobs act se fosse necessario Ma per evitare l’abbraccio mortale farebbe mancare in Aula la presenza di alcuni dei suoi
di Francesco Verderami Corriere 2.10.14
ROMA
Se davvero vorrà aiutare Renzi nel delicato passaggio parlamentare sul
Jobs act, la prossima settimana Berlusconi dovrà essere assente
piuttosto che presente, dovrà cioè garantire al premier l’eventuale
defezione dall’Aula di qualche senatore forzista, per compensare —
qualora fosse necessario — il voto contrario di qualche dissidente
democratico sulla riforma del lavoro. Non è detto che ce ne sarà
bisogno, anzi è probabile che il Cavaliere rimarrà ai margini di una
sfida giocata all’interno del partito di maggioranza. D’altronde, chi ha
impiegato venti anni per traghettare dal Pci al Pds ai Ds e infine al
Pd, non può nè vuole tornare indietro. E comunque il «soccorso azzurro»,
che è già stato predisposto, sarebbe efficace solo se fosse contumace.
La
verità è che Berlusconi non può abbracciare Renzi, perché lo farebbe
cadere, e nessuno si può consentire una crisi di governo, tantomeno le
urne: primo tra tutti il Cavaliere, viste le condizioni in cui versa
Forza Italia. A preoccupare non è tanto il fixing settimanale dei
sondaggi — che dà il suo partito in discesa tra il 13 e al 14% — quanto
il dato tendenziale. Le analisi rivelano che la caduta è determinata
dall’aumento dei votanti, oggi rilevati al 72%. L’iceberg
dell’astensionismo si va insomma sciogliendo ma Berlusconi non sembra in
grado di intercettarlo. E senza un’inversione di tendenza le proiezioni
si fanno allarmanti: se i votanti infatti superassero quota 75%, Forza
Italia scenderebbe attorno al 12%, per crollare addirittura sotto il 10%
se l’affluenza alle urne toccasse l’80%.
Sarà vero — come
raccontano — che l’ex premier è ormai concentrato solo sui problemi di
politica estera, come per proiettarsi fuori dalle questioni domestiche
dove ha perso di centralità. Ma allora non si capisce perché —
nonostante il fallimento dell’«operazione Lassie» — continui a premere
sul Nuovo centrodestra per sottrargli la «golden share» della
maggioranza. La resistenza cortese degli alfaniani si è ora tramutata in
aperta ostilità, al punto che ieri il coordinatore di Ncd Quagliariello
e il segretario dell’Udc Cesa hanno interrotto le trattative per gli
accordi delle Regionali, chiedendo attraverso Matteoli — che gestisce la
pratica per conto di Berlusconi — la convocazione di un tavolo urgente.
E dire che l’Ufficio di presidenza di Forza Italia era stato
convocato (anche) per lanciare la candidatura dell’azzurra Wanda Ferro a
governatore della Calabria. Missione abortita. E Matteoli oggi non
mancherà di sottolineare che «mentre c’è chi lavora alle intese, c’è chi
lavora a distruggerle». Un ragionamento che l’ex ministro aveva fatto a
Berlusconi per telefono, lunedì scorso: «Silvio, così va tutto per
aria. E gli altri hanno ragione a far saltare tutto». E «Silvio» in
quella occasione gli aveva dato ragione, «hai ragione Altero»,
scaricando le responsabilità su alcuni dirigenti del partito. Già, ma
allora perché il Cavaliere non ha bloccato le iniziative di scouting sul
territorio?
Così l’appuntamento odierno di Forza Italia rischia di
trasformarsi nell’ennesimo duello tra il leader e Fitto, che marcherà il
suo ruolo di capo dell’opposizione interna, dichiarandosi contrario al
modello congressuale adottato per il partito e insisterà per l’adozione
delle primarie alle Regionali. Più volte Berlusconi ha smentito
l’esistenza di contrasti con l’europarlamentare, peccato che ieri Fitto
abbia voluto evidenziare la frattura, e a nome di tutta l’area del
dissenso abbia invitato i senatori di Forza Italia a votare «i nostri
emendamenti di segno liberale» sul Jobs act, presentati a palazzo Madama
in contrapposizione al gruppo. Il tentativo è di picconare l’asse del
Cavaliere con Renzi, per il quale è stato predisposto il «soccorso
azzurro». Che non servirà, ma se servisse...
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