giovedì 2 ottobre 2014

Il Pistola Elettrico: Pierluigi Bersani dimostra di che pasta sono fatti quelli della "sinistra" PD



E non abbiamo ancora mai parlato di Pippa Civati... [SGA].


«Scissione? Macché, io ste cose qua proprio non le concepisco. Mi vengono a dire, “o lo condizioniamo da dentro il partito o ce ne andiamo per conto nostro”. No, io nel Pd ci sto dentro, non con due, ma con tre piedi»

Bersani, “Sarò leale e non mi insegnino come stare nel Pd”
Attacco a “quelli che sono stati tra i 101 traditori”
di Carlo Bertini La Stampa 2.10.14

«Scissione? Macché, io ste cose qua proprio non le concepisco. Mi vengono a dire, “o lo condizioniamo da dentro il partito o ce ne andiamo per conto nostro”. No, io nel Pd ci sto dentro, non con due, ma con tre piedi, basta che non provino a insegnarmi come si sta nel partito quelli che hanno fatto parte dei 101 traditori». È uno sfogo carico di astio quello di Pierluigi Bersani in pieno Transatlantico, in un colloquio a ruota libera con i cronisti che parte da un’osservazione: la copia del Foglio che lui serba sotto braccio che all’interno contiene un titolo sulla voce che D’Alema voglia farsi un partito tutto suo. Bersani fa un passo indietro come a ritrarsi: è in quel «lo condizioniamo» che si riconosce, la sua linea sembra essere questa, giammai la seconda opzione, cioè costituire un’altra forza della sinistra, staccandosi dalla casa madre. 
Certo, il tema clou è la madre di tutte le battaglie, quella sulla riforma del lavoro, che ha ridotto il Pd a un mare in tempesta. Le voci di resistenze a oltranza di una ventina di senatori pronti a votare contro si contrappongono a quelle dei pompieri che gettano acqua sul fuoco. E sono pure i renziani duri e puri a essere a dir poco irritati contro le eccessive pretese della minoranza: «Matteo le aperture le ha fatte, basta non esageriamo, si accontentino». Un partito scosso dalle voci di fratture e scissioni, scongiurate da chi è invece convinto che il Pd supererà indenne pure questa prova e andrà avanti più forte. A iscriversi nella categoria di chi non crede agli sconquassi è anche l’ex segretario, che però non risparmia stoccate a Renzi, pure su Marchionne: «Io gli avrei detto che le critiche ad un governo sarebbe più opportuno le facesse nel paese in cui paga le tasse». Bersani ci tiene a garantire che sarà leale col governo, «all’ultima votazione è ovvio che sto dove sta il Pd, non me lo spieghi gente che ha fatto certe cose, ma di qui a lì voglio dire la mia». È la ragione sociale della ditta che gli sta a cuore, il lavoro appunto. E se il rischio di questa partita è la caduta del governo, reagisce male: «Per carità, non mi interessa far cadere il governo, non ci penso proprio. Facciamo gli emendamenti, poi si vota e alla fine ovvio che sto col Pd». Il volto si infiamma quando ricorda le nottate passate a combattere per difendere la trincea: «C’ero io con la Fornero e Monti a difendere la possibilità del reintegro, mai e poi mai mi sarei aspettato che questa roba qua mi rispuntasse da dentro il mio partito, una cosa incredibile». 
E questa minoranza spaccata, quelli come Speranza che con Epifani e Stumpo non hanno seguito la linea dura del voto contrario in Direzione? «Ma non si creda che vi sia una “cupola” che decide dall’alto come si deve votare. Non ci sono manovre organizzate, ognuno pensa con la sua testa c’è chi vota contro, chi si astiene...». Ma poi il mirino torna sulla ditta, «ho parlato di metodo Boffo non per me, ma per tutti, non è che chi la pensa diversamente può essere trattato così, privato della sua dignità. Non mi vengano a insegnare come si fanno le riforme, a me che ne ho fatte tante, ma senza dirlo o annunciarlo prima. E le facevo senza attaccare i riformati, anzi convincendoli anche si mi sputavano addosso, che le facevo anche per il loro bene». E via un’altra rasoiata a Renzi, che «se la prende con tutti, sindacati, minoranza Pd, magistrati e non con la destra e Berlusconi che ha governato per dieci anni». Insomma, Bersani la frontiera dell’articolo 18 non la molla, sarà pure leale alla fine, ma per ora non molla. «Che senso ha in questo contesto abolirlo, quando ormai con la legge Fornero l’80% dei casi si vede che finisce con la conciliazione?». Ultimo avvertimento, sul miliardo e mezzo di euro per gli ammortizzatori sociali che «non basta perchè ne servirebbero almeno sei: attenzione, da qui ad un anno rischiamo di prendere una musata come Pd. Perché raccontare che l’imprenditore è libero di licenziare e poi ci pensa lo Stato, vuol dire far credere di essere in Danimarca, mentre si rischia che a perderci siano sia il padre in cassa integrazione che il figlio precario disoccupato».

Bersani tra rabbia e lealtà alla «ditta»: voterò con il Pd, ma no a lezioni dai 101


Corriere 2.10.14


ROMA — «Ma quale scissione, quale partito di D’Alema... Far cadere il governo? Non ci penso proprio, non mi interessa. Io resto nel Pd con tutti e due i piedi ben saldi, anzi tre. Ma non mi vengano a insegnare come si sta in un partito quelli che hanno fatto parte dei 101». Sono le sei del pomeriggio, Pier Luigi Bersani riesuma lo spettro del tradimento di Prodi e allude a un coinvolgimento dei renziani. Ha voglia di sfogarsi, ma anche di ragionare di lavoro, emergenze economiche e coperture, che per lui non ci sono. 
Approda a Montecitorio e subito smentisce progetti di rottura: «Io le cose voglio cambiarle da dentro e dove non sono d’accordo lo dico, ma quando voto non ho bisogno di farmi spiegare la ditta dai neofiti». Che farà sul Jobs Act? «Si discute, si presentano gli emendamenti, ma poi si sta con il Pd». Niente strappi dunque, la notizia (applaudita dai renziani) è che Bersani promette «lealtà verso il partito e il governo», sperando che il premier non ponga la fiducia e lasci al gruppo la libertà di presentare subemendamenti. L’accusa di essere un conservatore non gli va giù e Bersani, dopo aver spiegato che il riferimento al «metodo Boffo» riguardava «tutti» e non solo lui, energicamente la ribalta: «Questi innovatori non vengano a spiegare a me come si fanno le riforme. Perché io ne ho fatte più di loro. Prima le ho fatte e poi le ho annunciate». Tono di sfida e umore di uno che si sente tirato per la giacca, da sinistra: «Mi vengono a dire “o il Pd lo condizioniamo da dentro o dovremo andare da soli”...». 
Ma il sogno di un nuovo partito non è il suo. Addossa alla destra il peso della precarietà e difende la Cgil: «Trovo profondamente ingiusto questo schiaffo ai sindacati». Rimprovera al premier di prendersela con tutti, dalla minoranza ai magistrati, tranne che con Berlusconi, che «ha governato dieci anni». Racconta le notti passate a trattare con Monti e Fornero per difendere il reintegro e dice che Renzi sull’articolo 18 lo ha impressionato: «Non mi aspettavo di ritrovarmi in casa ‘sta roba qua. Incredibile. Assurdo presentare l’abolizione come la palingenesi. E non mi si dica che l’imprenditore è libero di licenziare perché poi ci pensa lo Stato. Se un dipendente ti è antipatico te lo tieni, perché dietro c’è una famiglia». Il Tfr in busta paga? «Andiamoci molto cauti, quando ci si mangia oggi le risorse di domani». E l’assegno di disoccupazione? Qui Bersani sostiene che governo e Pd rischiano di «prendere una facciata», perché i soldi non ci sono: «Non si può raccontare che lo diamo a tutti come in Danimarca, è una cosa assurda, che può mandarci contro un muro. Con un miliardo e mezzo garantiamo l’assegno a 150 mila persone... Scherziamo? Ne servirebbero cinque o sei». Quindi una frecciatina per Marchionne, incontrato da Renzi a Detroit: «Le critiche poteva farle sui Paesi in cui paga le tasse e non sull’Italia. Il premier non glielo ha detto?». 
E quando gli chiedono se amici come Epifani e Stumpo lo abbiano deluso, l’ex leader difende la libertà di scelta delle giovani leve, bersaniane e dalemiane: «La minoranza non è un’organizzazione, è un’area fatta di sensibilità e opinioni. Non c’è una cupola, che ti obbliga a votare in un modo o in un altro». Non siete spaccati? «Tutti, chi si è astenuto e chi ha votato no, abbiamo pensato che si stava compiendo un passo avanti, ma non sufficiente». Bersani prova a chiudere così la coda polemica seguita alla direzione, dove la minoranza è arrivata alla resa dei conti in ordine sparso e alcuni fedelissimi suoi e di D’Alema hanno fatto un passo verso il carro di Renzi. Un riposizionamento che ha ingenerato attriti e rancori, anche se i protagonisti smentiscono voltafaccia e tradimenti. «Il Pd non è una casamatta — si difende il dalemiano Enzo Amendola — Sto in segreteria, sì. Ma cosa c’entra? Abbiamo trattato, Renzi ha fatto un’apertura e mi sono astenuto». Quanto al D’Alema furioso, non commenta: «Chiedetelo a lui. Questa storia dei vecchi e dei giovani a me non interessa e se qualcuno ha una questione personale con Renzi, se la veda lui. Io non faccio politica sui rapporti personali». Per l’articolo 18, tanti rapporti si sono guastati. Micaela Campana, un tempo tra le «dem» più bersaniane, è in segreteria con Renzi e si è astenuta. E così Stumpo: «Chi era bersaniano è rimasto bersaniano», assicura colui che fu l’uomo-macchina dell’ex segretario. Ma il clima è tale che Zoggia sente di dover garantire per l’amico: «L’affetto di Nico per Pier Luigi non è in discussione». 

Bersani: “Alla fine voterò sì ma non prendo lezioni dai 101 che tradirono Prodi”
di Giovanna Casadio Repubblica 2.10.14

ROMA «Ho passato giorni e notti con Monti e Fornero sull’articolo 18, a difendere la possibilità del reintegro per il lavoratore e non mi aspettavo di ritrovarmi questa roba qui in casa, nel mio partito». Pierluigi Bersani scuote la testa e si sfoga in Transatlantico, dichiarando però: «Certo sarò leale al Pd nel voto finale sul Jobs Act, ci mancherebbe». È un’apertura a Renzi. Fuori dai microfoni tuttavia ripete: «È incredibile, incredibile...». Soprattutto fa una previsione preoccupata: «Renzi sventola l’abolizione dell’articolo 18 come se fosse una palingenesi, ma da qui a un anno rischiamo di prendere una facciata, una musata come Pd perché raccontiamo che diamo assegni a tutti come in Danimarca. Ma ci rendiamo conto di dove siamo, di cosa è l’Italia? Qui rischiamo di far peggiorare le situazioni, di far perdere sia il padre in cassa integrazione sia il figlio inoccupato o precario. È una cosa grave, perché i soldi per fare quello che Renzi promette non ci sono».
L’ex segretario ha in mano il quotidiano “ Il Foglio” di Giuliano Ferrara perché vuole leggere l’articolo sull’ipotesi di una scissione, di un partito di D’Alema. A un’altra “ditta”, Bersani non pensa affatto. «Ora dicono che vogliamo fare una scissione o condizionare dall’interno Renzi, io nel Pd ci sono e ci resto non con tutti e due i piedi, ma con tre piedi. Macché scissione. Però nessuno deve venirmi a insegnare come si sta in un partito, poi proprio quelli che hanno fatto i 101...». Una stoccata amara, ricordando la slealtà dei “franchi tiratori” che impallinarono Prodi nella corsa al Colle e al tempo stesso la sua segreteria. Dopo la drammatica Direzione dem di lunedì da cui Renzi è uscito vincitore ma è stato “picchiato” politicamente dalla vecchia guardia, lo scontro è passato in Parlamento dove la prossima settimana si comincia a votare la riforma del lavoro. Bersani pensa a sub-emendamenti all’emendamento del governo e dà per scontato che il governo non ricorrerà alla fiducia. «Far cadere il governo? Ma chi ci pensa, figuriamoci. Piuttosto nel merito va detto che per fare quanto annunciato dal premier non bastano un miliardo e mezzo, questi sarebbero sufficienti per 150 mila persone... ne servirebbero almeno 5 o 6 di miliardi. Sono altre le cose di cui abbiamo bisogno: di una flessibilità funzionale come in Germania, tipo il contratto Ducati, che sappia affrontare i picchi e le crisi. Non mi dire “l’imprenditore è libero di licenziare ma poi ci pensa lo Stato”, quando sai di non poterlo mantenere qui in Italia».
È un fiume in piena, Bersani. In Direzione ha parlato di “metodo Boffo” cioè di machina del fango contro i dissidenti del Pd. Ora precisa: «Non mi riferivo a un metodo solo contro di me, ma più in generale. Però nessuno deve accusarmi di essere un conservatore. Io ho fatto riforme hard, sul commercio, l’energia, la competitività... ne ho parlato tuttavia solo dopo averle fatte». È l’affondo contro l’annuncite di Renzi.
«Comunque le riforme si fanno senza attaccare i “riformati” chiamiamoli così, ma convincendoli che si fanno anche per loro. Invece ‘sta roba qui di prendersela con i sindacati, che avranno le loro colpe, ma è uno schiaffo ingiusto, non esiste». A «Matteo» rimprovera tra l’altro le lodi a Marchionne a Detroit, durante il viaggio del premier in Usa, senza avere almeno fatto notare al manager che sarebbe opportuno fare le critiche ai paesi in cui la Fiat paga le tasse.
Ma quanto pesa ancora la minoranza dem frantumata in mille rivoli? Quanto può condizionare Renzi? Con Fassina, D’Attorre, Agostini, Zoggia, bersaniani di stretta osservanza, l’ex segretario tiene una riunione volante. Non vuole sentire parlare di minoranza spaccata. «La minoranza non è mica un’organizzazione, una cupola, è fatta di sensibilità e di opinioni...». Si vedrà in aula.


Berlusconi, la rete di protezione per Renzi
Il leader è pronto a dare il soccorso azzurro al governo sul Jobs act se fosse necessario Ma per evitare l’abbraccio mortale farebbe mancare in Aula la presenza di alcuni dei suoi
di Francesco Verderami Corriere 2.10.14

ROMA Se davvero vorrà aiutare Renzi nel delicato passaggio parlamentare sul Jobs act, la prossima settimana Berlusconi dovrà essere assente piuttosto che presente, dovrà cioè garantire al premier l’eventuale defezione dall’Aula di qualche senatore forzista, per compensare — qualora fosse necessario — il voto contrario di qualche dissidente democratico sulla riforma del lavoro. Non è detto che ce ne sarà bisogno, anzi è probabile che il Cavaliere rimarrà ai margini di una sfida giocata all’interno del partito di maggioranza. D’altronde, chi ha impiegato venti anni per traghettare dal Pci al Pds ai Ds e infine al Pd, non può nè vuole tornare indietro. E comunque il «soccorso azzurro», che è già stato predisposto, sarebbe efficace solo se fosse contumace.
La verità è che Berlusconi non può abbracciare Renzi, perché lo farebbe cadere, e nessuno si può consentire una crisi di governo, tantomeno le urne: primo tra tutti il Cavaliere, viste le condizioni in cui versa Forza Italia. A preoccupare non è tanto il fixing settimanale dei sondaggi — che dà il suo partito in discesa tra il 13 e al 14% — quanto il dato tendenziale. Le analisi rivelano che la caduta è determinata dall’aumento dei votanti, oggi rilevati al 72%. L’iceberg dell’astensionismo si va insomma sciogliendo ma Berlusconi non sembra in grado di intercettarlo. E senza un’inversione di tendenza le proiezioni si fanno allarmanti: se i votanti infatti superassero quota 75%, Forza Italia scenderebbe attorno al 12%, per crollare addirittura sotto il 10% se l’affluenza alle urne toccasse l’80%.
Sarà vero — come raccontano — che l’ex premier è ormai concentrato solo sui problemi di politica estera, come per proiettarsi fuori dalle questioni domestiche dove ha perso di centralità. Ma allora non si capisce perché — nonostante il fallimento dell’«operazione Lassie» — continui a premere sul Nuovo centrodestra per sottrargli la «golden share» della maggioranza. La resistenza cortese degli alfaniani si è ora tramutata in aperta ostilità, al punto che ieri il coordinatore di Ncd Quagliariello e il segretario dell’Udc Cesa hanno interrotto le trattative per gli accordi delle Regionali, chiedendo attraverso Matteoli — che gestisce la pratica per conto di Berlusconi — la convocazione di un tavolo urgente.
E dire che l’Ufficio di presidenza di Forza Italia era stato convocato (anche) per lanciare la candidatura dell’azzurra Wanda Ferro a governatore della Calabria. Missione abortita. E Matteoli oggi non mancherà di sottolineare che «mentre c’è chi lavora alle intese, c’è chi lavora a distruggerle». Un ragionamento che l’ex ministro aveva fatto a Berlusconi per telefono, lunedì scorso: «Silvio, così va tutto per aria. E gli altri hanno ragione a far saltare tutto». E «Silvio» in quella occasione gli aveva dato ragione, «hai ragione Altero», scaricando le responsabilità su alcuni dirigenti del partito. Già, ma allora perché il Cavaliere non ha bloccato le iniziative di scouting sul territorio?
Così l’appuntamento odierno di Forza Italia rischia di trasformarsi nell’ennesimo duello tra il leader e Fitto, che marcherà il suo ruolo di capo dell’opposizione interna, dichiarandosi contrario al modello congressuale adottato per il partito e insisterà per l’adozione delle primarie alle Regionali. Più volte Berlusconi ha smentito l’esistenza di contrasti con l’europarlamentare, peccato che ieri Fitto abbia voluto evidenziare la frattura, e a nome di tutta l’area del dissenso abbia invitato i senatori di Forza Italia a votare «i nostri emendamenti di segno liberale» sul Jobs act, presentati a palazzo Madama in contrapposizione al gruppo. Il tentativo è di picconare l’asse del Cavaliere con Renzi, per il quale è stato predisposto il «soccorso azzurro». Che non servirà, ma se servisse...

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