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La giornalista (in odore di Nobel) Svetlana Aleksievic ha raccolto le voci di centinaia di persone comuni che hanno attraversato la triste parabola dell'Urss
Matteo Sacchi - il Giornale Gio, 02/10/2014
L’homo sovieticus non si estingue mai
Il romanzo corale della Aleksievic sull’ex Unione Sovietica tra revival di Stalin, ossessione dei soldi, miseria umana
Cesare Martinetti La Stampa 4 ottobre 2014
«Veniamo tutti da laggiù, dal gulag, da una guerra atroce. Era il socialismo ed era semplicemente la nostra vita...». Così Svetlana Aleksievic alla fine del suo lungo viaggio attraverso l’(ex) Unione sovietica, nelle case, tra i cuori, le passioni, le delusioni degli (ex) sovietici, testimone di quel che resta dell’unico esperimento riuscito in settant’anni di tentativi nel laboratorio del marxismo-leninismo: non il socialismo realizzato, ma l’homo sovieticus. Personaggio tragico e insieme patetico. Eppure non ancora estinto, anzi ben vivo in questo nostro mondo.
È anche per questo che va letto lo straordinario libro di Svetlana Aleksievic (Tempo di seconda mano, la vita in Russia dopo il crollo del comunismo), per mettersi al corrente con i tempi, per – ad esempio – capire la crisi ucraina o decifrare la fenomenologia di Vladimir Vladimirovic Putin, l’uomo che al Cremlino si cimenta nella reincarnazione simultanea di almeno tre figure storiche: lo zar, il segretario generale del Pcus, il gran capo del Kgb. L’uomo in cui – stando ai sondaggi – l’83 per cento dei russi ripone una fiducia indiscussa.
La Aleksievic – 66 anni, mamma ucraina, papà bielorusso, entrambi insegnanti nelle scuole dei kolkoz – nella sua esistenza stessa riassume un’antropologia sovietica. Cronista della vita quotidiana e dunque in collisione con il padre-padrone di Minsk, Aleksandr Lukashenko, perseguitata, i suoi libri banditi. Quell’homo sovieticus, lei, può dire di conoscerlo bene: «Gli sono vissuta accanto, abbiamo trascorso insieme molti e molti anni. Io sono lui».
In questo paese dove tutto è smisurato e contraddittorio (un territorio che si adagia su otto fusi orari, violenza e remissività, ricchezza e indigenza, cultura e primitivismo, talento e ottusità), caduto il regime la democrazia appariva come «uno strano misterioso animale». Era l’inizio del 1992. Racconta Aleksievic: correvamo come invasati da un meeting all’altro, avremmo letto I figli dell’Arbat, il romanzo proibito di Rybakov e altri buoni libri e saremmo diventati democratici. Come ci sbagliavamo! La maggioranza della gente non era antisovietica, voleva soltanto avere una vita migliore. Quando ho portato a casa Arcipelago Gulag di Solzhenicyn mia madre era finita nel panico: «se non butti quel libro ti caccio di casa». Non è stato il popolo a fare la perestrojka, l’ha fatta un solo uomo, Gorbaciov e un pugno di intellettuali: «e con la perestrojka ci hanno proprio infinocchiati... ci pagavano il petrolio in mutandine».
La scoperta dei soldi è stata «come l’esplosione di una bomba atomica» tra le generazioni. Prendiamo l’idea di libertà. Che cos’è? I genitori: «È quando non si vive nella paura». I figli: «È possedere molto denaro, è quando puoi vivere senza dover pensare alla libertà».
Eppure negli Anni 90 «eravamo felici, non ritroveremo mai più quell’ingenuità di allora. Ci sembrava che la scelta fosse fatta, che il comunismo avesse definitivamente perso. E invece era soltanto l’inizio...».
Un professore dell’università: alla fine degli anni 90, quando parlavo di Urss gli studenti ridevano... ora la metà dei ragazzi tra i 19 e i 30 anni considera Stalin un «grandissimo uomo politico». È tornato di moda tutto ciò che è sovietico, rinascono idee vecchio stampo, il grande impero, il pugno di ferro, la peculiare via russa, è stato recuperato l’inno sovietico, abbiamo di nuovo il Komsomol, si chiama Nashi (i nostri), c’è un partito che imita il partito comunista, e il presidente ha altrettanto potere del segretario generale di prima. E invece del marxismo-leninismo, l’ortodossia...
«Briciola dopo briciola», nelle kusciove delle sterminate periferie di Mosca, come nelle isbe della campagna, la Aleksievic ha raccolto una storia del socialismo «domestico» e «interiore», non per questo minore, anzi costitutivo.
Un racconto corale, senza pietismi e senza indulgenze, dove le vittime si mescolano ai carnefici e ad essi potrebbero sostituirsi in ogni momento.
Quando il salame era libertà
La Aleksievic racconta la vita in Urss, ma attacca anche «l’antioccidentale» Putin
12 set 2015 Libero
Salame e jeans = libertà. Questo era il sentire comune nella Russia
sovietica. Perlomeno questo dice Svetlana Aleksievic, giornalista,
scrittrice, autrice di cinque libri sulla Russia di prima e di dopo. È
qui al Festivaletteratura di Mantova, nella basilica palatina di Santa
Barbara, una chiesa stupenda e bisognosa di restauro dopo il terremoto
del 2012 (lo diciamo perché è in corso una sottoscrizione sacrosanta).
Dunque, interrogata da Gian Piero Piretto, preparatissimo studioso della
materia, questa signora flemmatica e poco sorridente, ha parlato di Sua
Maestà il Salame come del simbolo di qualcosa che appariva, a quelli
dietro il Muro di Berlino, come un oggetto esotico e mitologico. Come
anche le banane. Tutta roba che un quarto di secolo dopo è a portata di
tutti, e verrebbe da dire «Finalmente», se la circostanza non apparisse
così scontata.
Nel suo saggio Tempo di seconda mano (Bompiani), si parte dal
presupposto che della Russia «è imprevedibile non solo il futuro ma
anche il passato». Tutto appare così ambiguo, che la conquista del
salame e dei jeans e delle banane e il rifulgere di vetrine e ristoranti
e alta moda e Bentley, è costata troppo.
Che cosa si è perso per strada, secondo la Aleksievic? Proprio la
libertà. Intanto, la tendenza manipolatoria verso il passato, che Stalin
applicava alla grandissima, dev’essere una cattiva abitudine, se è
stata fatta propria anche da Putin, visto qui come un mistificatore e un
infinocchiatore di popoli.
Domande: perché sotto il comunismo la gente denunciava gli amici e
perfino i fratelli come traditori? Perché allo stesso tempo le persone
si trovavano, gli uni nelle case degli altri, per la precisione in
cucina, dove non c’erano né salami né banane, ma si rivelavano cose
proibite? Perché adesso si ritrovano sempre in cucina, dove la dispensa è
ben fornita, e parlano magari di Putin e di religione, due argomenti
pubblicamente banditi?
Dalle cucine alle testimonianze, a centinaia, di protagonisti e comparse
di queste transizioni, anzi strappi, visto che è così che procede la
storia russa, la giornalista ha messo insieme un rompicapo gigantesco,
un’opera torrenziale e complessa, molto interessante. Sul tema della
politica internazionale è decisa: Putin manda soldati dappertutto, in
Crimea e in Siria, ma nessuno lo può dire; hanno tutti paura. Putin
vuole il male dell’Occidente. Putin va fermato perché nel suo Nuovo
Impero i dissidenti vengono ammazzati, e lui è come Hitler.
Euforia e terrore. Erano i due stati d’animo della popolazione sotto
Stalin. Ma oggi la toponomastica stradale espone i nomi dei carnefici,
dei più fanatici di allora. Escono libri nostalgici, mentre il nuovo
regime dimentica tutto.
Qualcuno in platea protesta, si vede che da qualche parte ci sono
ferite, più o meno fresche. Le dicono che gli Ucraini odiano i russi.
Chiediamo a Svetlana se è vero che in Ucraina la corruzione è ramificata
a tutti i livelli. La domanda forse non le piace e risponde che il
cambiamento richiede tempo, e che Putin non vuole, invece in Ucraina
forse sì, vogliono. La Aleksievic vive a Parigi perché in Bielorussa non
è gradita. Allora qualcuno rievoca Anna Politkvoskaja, che era stata a
Mantova nove anni fa.
Il gruppo (Guanda, pp. 372, euro 18,50), la storia di una band musicale
degli anni ’80 che parte da Luton, una città industriale a 50 km da
Londra, per arrivare fino a Manhattan. I protagonisti, Roddie e Fran,
sono due amici che non sanno ancora dove li porterà la musica, la
giovinezza, la droga e la vita.
È libro in cui si trovano ben 168 brani musicali - già scaricati in
playlist su Spotify - da leggere come una storia della musica, ma con un
occhio a quanto sia difficile scalare le classifiche, pure avendo una
voce che fa a gara con gli angeli e prende a pugni gli uccelli del
malaugurio.
Sa che questo romanzo ha la stessa delicatezza di Sacrifice cantata da sua sorella?
«È un bellissimo complimento. Io sono molto felice di quanto abbia
realizzato Sinead. Ma questo romanzo è la storia di un gruppo, è un
racconto fatto di tante voci diverse e non di un cantante singolo. A
dire il vero, poi, non ne ho mai parlato con lei e quindi non so neanche
che opinione possa averne». Quanto conta la musica per lei?
«Tantissimo. Ho iniziato a darle spazio già nel romanzo che mi portato
più fortuna, Stella del mare. La musica rappresenta la colonna sonora
della mia vita».
Tanto da dire nel romanzo, a esempio, che gli Abba sono come la speranza: intramontabili.
«È vero! Secondo lei gli Abba sono spariti dalla scena? Può ancora ascoltarli in radio, magari anche tutto il giorno».
Come descriverebbe l’uomo irlandese in quattro battute?
«Un uomo che si trova a suo agio soltanto dentro una prigione di massima sicurezza.
«Lo avevo scritto ai tempi del boo economico. Oggi le cose sono
cambiate e l’attaccamento alla Mercedes è notevolmente diminuito. Tenga
conto che l’anno prossimo festeggeremo i nostri 100 anni d’indipendenza.
È triste dirlo, ma siamo ancora alla ricerca della nostra identità. Non
abbiamo mai voluto né essere considerati britannici né di sinistra, ma
ancora oggi possiamo soltanto dirle ciò che siamo e non ciò che vorremmo
essere». Di cosa avete paura? «Temiamo il nuovo, tutto ciò che è
diverso. Le faccio un esempio pratico. Il problema dei rifugiati si pone
oggi anche per noi. Dublino ha deciso che ne accoglieremo circa 560, a
differenza della Germania dove si ragiona in termini di migliaia di
individui. Questa è l’Irlanda, calore intenso e gelido anonimato».
Intorno all’Irlanda c’è il mare. Lei ha scritto molto del mare.
«Io vivo vicino al mare. La mia terra è una piccola isola. Per un
irlandese il mare resta il suo passaporto e il suo cuscino. Non manca
mai».
Non è mai mancata nei suoi libri neanche una figura dominante come Patti Smith.
«Patti è stata il mio idolo fin dall’età di 14 anni. Nel giorno
del mio compleanno, entrai in un negozio di dischi usati. Tutte le
copertine erano scialbe, senza luce. L’unica che mi attirò fu quella di
Patti, e da allora il mio mondo prese colore». Che tipo di artista è
Patti Smith? «L’artista perfetta. Nella vita esiste chi prende i treni e
chi costruisce i binari. Lei appartiene a questa seconda categoria». Il
più bel ricordo che ha di lei? «Quando sono andato a trovarla a New
York, mi ha regalato la fotografia della macchina per scrivere di Herman
Hesse. Credo che se a casa mia si sviluppasse un incendio, sarebbe
l’unico oggetto che cercherei di salvare dalle fiamme».
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