mercoledì 8 ottobre 2014
Zen e orientalismo: tradotto il libro di Suzuki
Risvolto
«“Che cos’è lo Zen?” ... “Non capisco” rispose un maestro. “Che cos’è lo
Zen?”. “Il ventaglio di seta basta a farmi aria” rispose un altro
maestro. “Che cos’è lo Zen?”. “Lo Zen” rispose un terzo maestro». Memore
di questo ineffabile scambio (mondō), Daisetz T. Suzuki,
massima autorità giapponese nel campo del buddhismo zen, dà avvio nel
1936 a una serie di conferenze in Inghilterra e in America, cimentandosi
nella non facile impresa di illustrare al mondo occidentale la più
indecifrabile e sfuggente delle dottrine orientali. E due anni più
tardi, dopo aver profondamente rielaborato e perfezionato i testi
approntati allo scopo, consegna con questo libro le chiavi di accesso a
una mirabile tradizione religiosa, senza la quale sarebbe inconcepibile
gran parte della filosofia, dell’arte e della letteratura nipponiche. Fu
infatti grazie alla pratica zen del satori – il risveglio o
illuminazione – che ogni aspetto della vita giapponese assunse le forme
misteriose di un’incessante ricerca del senso ultimo nascosto
nell’esistente, di un’arte al servizio del potenziamento spirituale: la
filosofia samuraica della spada, la cerimonia del tè, la pittura sumiye, il teatro Nō e lo haiku
sono solo alcune delle vie attraverso cui lo Zen ci invita a una
partecipazione etica ed estetica al mondo, percepito nella sua vacuità e
impermanenza. Con uno stile in cui convergono lo spirito del monaco,
del poeta e del divulgatore, Suzuki ridefinisce l’identità e
l’evoluzione storica dello Zen – origini e influenze, scuole e maestri,
princìpi e strumenti –, svelandoci quel vuoto originario in cui i grandi
maestri seppero cogliere un barlume di eternità.
Liberi oggi di ispirarsi allo Zen Ma agli artisti manca l’illuminazione
Gillo Dorfles Mercoledì 8 Ottobre, 2014 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
La pubblicazione in Italia dell’eccezionale trattato di Daisetz T. Suzuki Lo Zen e la cultura giapponese (traduzione di Gino Scatasta, Adelphi, pp. 396, e 45), che mi era già noto nell’edizione americana degli anni Sessanta, costituisce indubbiamente un’importante tappa nella conoscenza di questa tipica corrente del pensiero e dell’arte nipponiche.
Naturalmente la grande maggioranza degli intellettuali era all’oscuro della cultura giapponese prima della sua pubblicazione, e anche oggi purtroppo accade alle volte di incontrare nel nostro Paese dei gruppi giovanili di artisti che si proclamano seguaci dello Zen, ma che esibiscono delle opere pittoriche più vicine alle matasse colorate di un Pollock o di un Rauschenberg che agli aerei graffiti dell’arte estremorientale; ed è per questo che il testo di Daisetz T. Suzuki viene finalmente a chiarire con precisione e impegno i diversi settori dove lo spirito Zen è presente: come ad esempio nell’arte della spada, lo studio del confucianesimo, come nelle operazioni del samurai oppure nella cerimonia del tè.
Naturalmente Daisetz T. Suzuki approfondisce queste diverse «incarnazioni» dello spirito Zen. Tuttavia ciò che soprattutto costituisce una vera e propria esegesi del linguaggio zenista è il fatto di elencare e precisare molti dei vocaboli particolarmente utilizzati nella dottrina Zen, termini che costituiscono una vera e propria fonte per la comprensione dei più seri fenomeni della cultura nipponica asservita allo Zen. Così, per fare solo qualche esempio, una parola come asobi indica una condizione di illuminazione e di trascendenza; oppure la parola haiku corrisponde a quel particolare componimento poetico che è sempre presente nella letteratura Zen. Altri vocaboli che ormai fanno parte del dizionario Zen sono ad esempio i termini wabi e sabi che equivalgono a una situazione di semplicità e povertà (in un certo senso un anticipo della nostra «arte povera»). Sarebbe però errato considerare il wabi come una mera ricerca di semplicità mentre può essere considerato come un elemento di rinuncia e di assenza, ma di positiva rinuncia e assenza.
Altri vocaboli tipici sono ad esempio prajna e vijnana ; mentre la seconda si può identificare con la conoscenza razionale, con un principio di differenziazione che sta alla base d’ogni comprensione intellettiva e discorsiva, prajna è la saggezza trascendentale, la conoscenza assoluta e irrazionale o meglio soprarazionale. Prajna citando Suzuki: «Dorme in noi sotto una spessa coltre di ignoranza e di Karma», ed è compito dello Zen di risvegliarla.
Tra le più significative particolarità del pensiero Zen non dobbiamo dimenticare quella dell’automatismo che in un certo senso prelude le tendenze pittoriche dell’ Action Painting . Altre costanti del pensiero nipponico sono quelle del «vuoto» come matrice di molte creazioni artistiche insieme a quelle dell’asimmetrico. Il concetto di vuoto è senz’altro alla base di moltissime creazioni artistiche nipponiche. Il vuoto riappare ovunque nelle opere architettoniche come pure nelle pitture, dove si contrappone al pieno di quasi tutte le altre culture.
Altro fattore fondamentale è l’immediatezza nella creazione artistica che in un certo senso si accosta a molte correnti pittoriche di questi giorni. Ma, nel cifrario gestuale-segnico odierno, il più delle volte assistiamo alla proiezione di un automatismo inconscio e non, come nell’arte Zen, al risultato d’una illuminazione trascendente.
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