venerdì 14 novembre 2014
Arbasino di divertiva pure nella Ddr
Tra
memorie letterarie e ambigui passaggi a Est, la metropoli prima e dopo
la caduta del Muro E poi la Lipsia dei satrapi da night
Cuoio e paillettes c’era una volta Berlino cabaret
ALBERTO ARBASINO Repubblica 14 11 2014
NON molto prima si era usciti molto malandati e smunti dalle tremende miserie della guerra: tessere, bombe, spari, magrezze, denutrizioni fra i mitragliamenti continui. Con una gran voglia di voltar pagina appena possibile. E, se pensabile, tornare presto ai livelli di prima. Inverosimile, nella Berlino-Est della DDR. Lì, per telefonare a qualche collega-musicista di regime, malgrado una distanza di due chilometri o anche meno, un compositore amico doveva chiamare Oslo o Stoccolma e poi aspettare una risposta via Praga, magari per correre ai letti di morte di qualche Puntila o Matti o Madre Coraggio, in quel Berliner Ensemble «Am Schiffbauerdamm» dove ogni Ornamento è volgarmente Delitto, Nequizia, Misfatto...
Tremendi, i bassifondi della stazione Friedrichstrasse, con scarse cremine da Boutique Marisa o Lunik o Sputnik. Ma sono finiti i dentifrici. Cosa si prenderà, per poco o niente, alle signore amiche?
Prima del Muro, negli anni ancora Cinquanta, si veniva qui attratti dal mito molto esclusivo di Christopher Isherwood e Goodbye to Berlin. Pochi anziani americani amici di W. H. Auden, che consigliava l’Ellis Bierbar, locale di cuoio storicoespressionistico sopravvissuto in un cul-de-sac sotto i binari dell’S-Bahn. E lì, fra i tavolini del ginand- tonic si tenevano incontri di boxe fra apprendisti pugili del quartiere proletario e affamato di Moabit. Prima di ogni Cabaret, musical o film. Si ignorava che la protagonista Sally Bowles si chiamava così ricordando Paul Bowles, apprendista musicista qui nei primi anni Trenta, accanto a Kurt Weill. E prima di ogni Tangeri.
Si fece in tempo a conoscere quel Mr. Norris che nei racconti di Isherwood «cambiava treno». Perfido e dispettoso, in una Madrid pre-movida ai tempi del produttore Samuel Bronston ( La caduta dell’impero romano , con Sophia Loren)... Stizze e ripicche: «Quegli anni dell’Espressionismo? I più noiosi, a Berlino! Tutti a letto presto, atmosfere da Salvation Army!». E le famose dissolutezze, allora? «La stagione più sfrenata fu l’inverno-primavera 1912! Top della depravazione berlinese! Ma già nell’autunno del ‘13 era finito tutto!».
Prima del Muro, si andava «di là» con taxi e passaporto. Anche da «Zoo» (Ovest) a «Friedrichstrasse » all’Est. E naturalmente si trovavano ridicoli quegli stendardi con «Liberate Angela Davis » sull’Unter den Linden, mentre “loro” non erano liberi di visitare il Louvre. «Ma loro stanno benissimo, sono contenti così!». Straparlando sul «dare la linea» con «la centralità della Fabbrica»... «Il primato dell’ideologia»... E giammai, con la busta delle stecche sotto il braccio, un po’ di Contestazione e Trasgressione... Così, avanti e indietro fra il Pergamon Museum e la Gemäldegalerie, con in mano il grosso catalogo di «Kaiser Augustus und die Verlorene Republik » e in tasca i biglietti per Jessye Norman alla Philarmonie. Alla Akademie der Künste certuni «come noi» esaminano un catalogo di Hans Hartung, che è appena morto, o commentano un epistolario di Hermann Scherchen circa il Moses und Aron . Ma questi vecchietti tremanti in stracci da officina frugano in borsellini da bisnonna monetine che valgono quasi niente. Rieccoci carichi di imbarazzi incolpevoli, poiché un intellettuale di Gotha, al contrario d’uno di Coburg (benché già uniti in un solo piccolo ducato, come Parma e Piacenza), per tutta una carriera potrebbe trovarsi privo delle informazioni culturali disponibili per noi in qualunque edicola.
Soprattutto impressiona e sgomenta, dopo la caduta del Muro, questa drammatica differenza di colore e di nutrizione e “texture” nella pelle e nei corpi, oltre che nell’indumento desolato e derelitto. Corpi e abiti senza Forme e colori, come negli squallori grigiastri del neorealismo strappalacrime circa gli sfollati in carri-bestiame o i sinistrati in cerca di cibo... Epidermidi terree, plumbee, che mai poterono avvicinare una spiaggia al sole o una cremina nutriente... Capelli che mai conobbero parrucchiere e shampoo... Giubboni uniformi e sformati, color fango e pozzanghera, in tessuti grami come vecchi sacchi di fertilizzanti o cementifici... Berrettini o pantaloni da piangere, denotano un’officinetta in cucina, armadi vuoti, non un colore o una catenina o un sorriso, davanti all’Intimo Giovane, la Moda Bagno, la Sposa In, le Tendenze Bimbo, il rococò rustico che affascina l’animo germanico, Sette Nani e Babbi Natale fra centrini di pizzo, lustrini, paillettes...
Allora, a Dresda? (Quando la Madonna Sistina non era su tutti i calendari, anni fa).
La prima volta, tornando in macchina da Varsavia a Praga, il permesso di polizia stabiliva un’ora obbligatoria di partenza e un’ora tassativa di arrivo. Con divieto di ogni deviazione o sosta. E si era calcolato di fermarsi abusivamente a Dresda.
Ma i controlli di frontiera sono stati così interminabili (forse a causa della MG rossa) che anche correndo poi come scioccherelli all’italiana per stradine antiche come Augusto il Forte il detour è stato inutile. Ci si limitò a salutare il fiume Elba, non nei dipinti del Bellotto ma live.
La seconda volta, il permesso da Berlino Est venne rifiutato dalla polizia. Così, feci i calcoli. Abusivamente, su un treno espresso carico di contadini in piedi e cassette di polli vivi. E dovendo rientrare all’Ovest entro la chiusura dello Stato a mezzanotte. Così Canaletto e Crespi e Liotard e Lancret, al secondo piano, di corsa.
La terza volta è stata la più mortificante, perché i timbri e i permessi c’erano tutti, la valuta “forte” obbligatoria anche, si stava all’Elefante di Weimar, ma per la benzina super e i pasti d’albergo bisognava rivolgersi coi demonizzati marchi occidentali a pompe e ristoranti off-limits per i nativi con denaro locale. Come nei night-clubs per alleati con puttane e dollari nella Napoli del dopoguerra.
Tirare le bombe? Mangia e beve solo chi ha in tasca la moneta del “sistema” che si è addestrati a combattere, e autorevolmente descritto in rovina? Nel lusso astratto di un rococò forse rifatto dai giapponesi, serviti da un personale paramilitare che può aver appreso le maniere alberghiere da qualche vecchio film di mondanità Ufa?
Così, intanto, mangiano i ragionieri italiani in vacanza, che pagano con carta di credito e dànno la mancia assai gradita in lire. Mangiano i congiunti dei satrapi locali, e si portano via la bottiglia di whisky vietata ai sudditi. Non mangiano il buon patriota e il piccolo pioniere, né forse il bravo violinista, cittadini non capitalisti e dunque scacciati dalle guardie alla porta. Niente salmone, niente arrosto, per loro; né “etichetta nera”.
In quanto turisti privilegiati con lire, ci si vergognava a Dresda e a Lipsia, oltre che a Berlino, più che in India.
Poi, «fate l’italiano qui» mi disse un vecchio principe francese, memore delle vacanze con «Prince Paul» a Pratolino; e gli avevo raccontato di una mancia in lire, per entrare nel duomo di Weimar e vedere una pala d’altare. Andò bene.
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