giovedì 6 novembre 2014

Ci saranno «violenze mai viste» ma prevalentemente da parte del Governo contro di noi. Sarà Bruxelles a mettere in difficoltà Renzi, non il conflitto sociale


Ripropongo questa pagina - che molte polemiche pelose ha suscitato - perché illustra molto bene la situazione del paese e il comportamento delle sue classi digerenti. Per il resto, l'ipocrisia va respinta: chi, come a suo tempo Berlusconi, gioca con un certo tipo di comunicazione, sulla avvenenza fisica e sulla commistione pubblico-privato, conosce benissimo anche i rischi di questo gioco. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Tra l'altro, queste cose sono di solito concordate (sia Renzi che Boschi hanno avuto servizi fotografici su commissione, nell'ambito di una precisa strategia di marketing) e comunque fanno parte del grande Spettacolo che proprio lorsignori alimentano [SGA].

Matteo e il paradosso della corsa continua
La tattica di Renzi con la sinistra Pd e la necessità di una rinnovata coesione nazionale

di Stefano Folli Repubblica 5.11.14

LE PAROLE di Napolitano sul pericolo di «violenze mai viste», figlie di un inedito intreccio fra fanatismo mediorientale e spinte « antagoniste » interne (i centri sociali, si suppone), aggiungono altre ombre a un quadro già dominato dalle tinte scure.

Anche il nuovo asse tra la Lega di Salvini e la destra è il segno delle tensioni sociali nel Paese
ANCHE nel prossimo anno, dicono fonti autorevoli, la crescita economica rischia di essere troppo debole, quasi insignificante, mentre il debito pubblico corre.
Del resto, non esiste solo la stagnazione economica: anche sul piano istituzionale la paralisi è foriera di gravi problemi. Soprattutto è il terreno propizio per chiunque voglia sfruttare le tensioni sociali e il malcontento che serpeggia nel paese. Alcuni centri “antagonisti” sono in grado di appiccare incendi dai quali altri trarranno vantaggio. E forse non è un caso che un esponente di Casa Pound abbia dato il suo sostegno al leader leghista Salvini, il personaggio che tenta di mettersi in luce, e con successo, come esponente di una destra radicale di tipo «lepenista»: vale a dire un profilo politico che in Italia non ha mai avuto spazio e oggi invece potrebbe trovarlo, sfruttando il relativo declino del movimento di Grillo non meno della mancanza di risultati certi nell’azione del governo.
In sostanza Napolitano è tornato a offrire il suo sostegno a Renzi, ma ha chiesto il massimo di responsabilità alle forze politiche. Il senso implicito dell’intervento è chiaro. Le polemiche all’interno del centrosinistra si possono, anzi si devono superare quando s’intravede sullo sfondo la minaccia di una nuova stagione di violenze. La coesione nazionale non può essere smarrita nell’ora del pericolo. Sono espressioni già sentite in bocca al presidente della Repubblica, ma il contesto oggi è diverso proprio perché si arricchisce della denuncia di possibili atti violenti. Fra le righe si intuisce anche che Napolitano si aspetta novità sul fronte delle riforme di natura istituzionale, a cominciare dalla legge elettorale. Il fatto che il progetto si sia arenato, fra una modifica e l’altra del testo già approvato dalla Camera, appare come una dimostrazione di inerzia. O forse la prova che le difficoltà erano state sottovalutate, al punto che oggi non è così banale riannodare certi fili.
Come è evidente, Berlusconi non ha alcuna intenzione di annacquare il cosiddetto «patto del Nazareno» e tuttavia esiste una forma di attrito vischioso nei rapporti politici e parlamentari, tale da complicare anche gli accordi già abbozzati. Senza contare che la tentazione di alzare un po’ il prezzo, quando ci si avvicina agli snodi decisivi, può essere irresistibile per l’animo mercantile del leader di Forza Italia. Ecco allora l’ipotesi ricorrente, negli ambienti renziani, di aprire un piccolo secondo forno presso i Cinque Stelle. Ma l’operazione, che pure è plausibile, rischia di allungare i tempi e non di rendere le cose più semplici.
In realtà si sta creando un paradosso. Renzi ha fatto capire agli italiani di conoscere solo la marcia avanti. Lo si è visto anche ieri sera, quando sul testo della riforma del lavoro ha concesso ben poco alla minoranza del Pd e si è preoccupato piuttosto di affermare che la nuova legge dovrà essere operativa a tutti i costi entro la fine dell’anno. È un’ottima tattica per ottenere un alto grado di consenso nel paese, specie nel mondo produttivo: come l’altro giorno a Brescia, dove il premier viene applaudito quando dichiara finito il potere di veto dei sindacati. Tuttavia la permanente corsa in avanti può non dare gli stessi risultati in Parlamento, a dispetto dei vari «patti» più o meno espliciti. L’ingorgo di fine anno verso il quale siamo diretti sta anzi diventando un banco di prova per la piena maturità politica del «renzismo», un’attitudine politica che tende a fare a meno delle mediazioni ogni volta che si può. Almeno delle mediazioni alla luce del sole. Ma i prossimi mesi, come ricorda il presidente della Repubblica, richiedono grande capacità di governo in un paese prostrato.

Il voto anticipato è preferibile a un nuovo giro di vite rigorista
di Marcello Sorgi La Stampa 5.11.14
Il duro attacco di Juncker contro Renzi arriva undici giorni dopo le sue dichiarazioni sull’Europa dei burocrati. Il nuovo presidente della Commissione europea, che in un primo momento aveva lasciato correre, dev’essere stato sollecitato in questo senso dai suoi partners. Juncker infatti sa bene - è stato lui stesso a ricordarlo ieri - che il premier italiano anche in Europa si muove con un doppio registro, attento e dialogante nel chiuso delle stanze dei vertici, spavaldo e battagliero fuori, ad uso dell’opinione pubblica interna. Non a caso ieri a “Ballarò”, replicando a Juncker, Renzi non si è spostato di un centimetro. Reagendo pure alle più preoccupanti dichiarazioni del vicepresidente della Commissione Katainen, il vero guardiano dei conti dell’Unione, tornato a minacciare una procedura di infrazione per l’Italia se, com’è possibile, le cifre reali del bilancio dovessero discostarsi dalle previsioni della legge di stabilità. Ora, siccome la legge di stabilità è stata alla fine approvata con riserva (e con una notevole concessione politica, altro che burocrazia, ricorda Juncker) dalla Ue, dopo una significativa correzione del deficit e con ,la conseguenza di una sensibile riduzione del taglio delle tasse, le valutazioni della nuova Commissione, il cui percorso è appena cominciato, fanno temere che le difficoltà dell’Italia, che il governo tendeva ad attribuire a un atteggiamento personale dell’ex-presidente Barroso, siano, come dire, più strutturali, e in sostanza il nostro Paese rimanga una specie di osservato speciale, in convalescenza ma non stabilmente avviato alla guarigione.
Viene da chiedersi perché in un quadro del genere, attraversato da tensioni reali e non da semplici aggiustamenti politici, Renzi insista a prendere di petto quella che continua a considerare la burocrazia europea. Non è facile darsi una risposta. Probabilmente, Renzi, in cuor suo, condivide una parte dei timori della Commissione sulla possibilità che anche il 2015, settimo dopo sei anni di crisi, possa non essere l’anno della ripresa. E, piuttosto che rassegnarsi a un altro giro di vite di rigore, accarezzi sempre di più la via di uscita di un passaggio elettorale anticipato che riazzeri la partita.

L’opposizione Dem al contrattacco
“Matteo ci sta prendendo in giro non ci ha offerto alcuna via d’uscita”
di Goffredo De Marchis Repubblica 5.11.14
ROMA C’è una risposta sui tempi: il Jobs act dev’essere operativo entro il 1 gennaio 2015. Un paletto chiaro, una data cerchiata sul calendario. Non c’è la risposta sulle correzioni da inserire alla Camera. Da una parte Matteo Renzi lascia alla trattativa alcuni margini per arrivare a un’intesa con la minoranza Pd. Dall’altra, non offre una linea da sostenere o da criticare. «Ha fatto un catalogo — protesta Stefano Fassina — e sui titoli siamo tutti d’accordo. Sui tempi anche, bisogna fare in fretta. La riforma del lavoro si può approvare a Montecitorio anche la prossima settimana. Ma quale provvedimento votiamo? Come viene regolato il licenziamento? Matteo deve sapere che prima o poi il momento della verità arriva».
I dissidenti hanno vissuto l’assemblea di ieri sera come una presa in giro. È vero che il clima non si è scaldato e non ci sono stati ultimatum del premier. Ma i fronti restano aperti. Renzi non vuole scoprire le carte sul Jobs Act. Cerca di comprendere come si stanno muovendo i gruppi in Parlamento. Se Palazzo Chigi fa un’apertura a qualche modifica, il testo viene sommerso dagli emendamenti dei ribelli Pd e delle opposizioni, Cinque stelle in testa? Con le correzioni la minoranza Pd vota la fiducia? O tanto vale confermare la legge votata al Senato, perdere qualche pezzo e avere la certezza del risultato? Sono le domande alle quali Renzi ha scelto di non rispondere o per le quali non ha ancora una risposta.
Il premier preferisce l’accelerazione per incassare subito il Jobs Act. Ma molte sirene, non solo quelle “nemiche”, gli suggeriscono un’altra strada. Il capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza lo ha messo in guardia: «Non credo che i ribelli non ti voteranno la fiducia. Ma credo che in tanti potrebbero uscire dall’aula. E saranno più di 20. Forse 30, forse di più. Non sarebbe indolore per il Pd». C’è una base che permetterebbe di assorbire la frattura interna. È l’ordine del giorno della direzione del Pd, votata da larga maggioranza, con l’astensione dello stesso Speranza e alcuni voti contrari. «Se Renzi recepisce quel testo anche io che ho votato no in direzione, in Parlamento voto la riforma», dice Francesco Boccia. «È due mesi che gli diciamo di tenere insieme il Partito democratico su questa materia — insiste Pippo Civati —. Conviene anche a lui». Ma Renzi non fa mai quello che gli conviene se a suggerirglielo sono i suoi oppositori.
Stavolta il caso è un po’ diverso. Il lavoro di tessitura svolto da Giuliano Poletti è già a un buon punto, esiste una trattativa avviata e alcuni dissidenti lavorano a un’intesa. A cominciare da Cesare Damiano e Guglielmo Epifani. Ma Renzi non si fida. Il punto per lui è avere uno strumento operativo entro dicembre. L’obiettivo è mettere in circolo le risorse necessarie alla decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato. Il governo ha assoluto bisogno di risultati statistici già nei primi mesi del 2015. Per smentire le previsioni di Bankitalia e Istat e mandare un segnale all’opinione pubblico. «Il resto per me è tattica », ripete spesso il premier nei suoi colloqui privati.
Oggi riprende il dialogo. Con il retropensiero, espresso con chiarezza da Boccia che Renzi punti alle elezioni in primavera. E le dichiarazione sulla legge elettorale fatte all’assemblea di ieri sera hanno convinto anche qualcun altro. Per questo il premier ha precisato: «Si vota nel 2018 ma non possiamo attendere il 2017 per l’I- talicum». Dunque, in un gioco di specchi e di sospetti ricomincia la mediazione sul Jobs Act. E se i mediatori hanno ancora spazio per provare un accordo, i più scettici sono rimasti delusi per la vaghezza del discorso renziano. Fassina ad esempio resta sulle barricate, anche per quello che riguarda le ipotesi di correzioni: «Non basta inserire i disciplinari. Per me, così le modifiche sono inadeguate. Non è l’articolo 18 a frenare gli investimenti. Non è cancellandolo che si creeranno altri posti di lavoro».
Ieri è stato un giorno senza confronti. Di fronte all’attesa per le parole di Renzi, si sono tirati indietro il presidente della commissione Lavoro Cesare Damiano, il responsabile economico del Pd Filippo Taddei, il ministro Giuliano Poletti. È chiaro che a Palazzo Chigi si aspetta di capire di quante truppe dispone il dissenso. La minoranza sembra muoversi in ordine sparso. Civati e i bersaniani e Cuperlo più aggueriti. Area riformista che fa capo a Speranza disponibile al compromesso. Una parte, in queste ore, ragiona persino sul pericolo delle correzioni al Jobs Act. «Rischiamo di rendere più rigido l’articolo 18 se mettiamo le fattispecie dei licenziamenti disciplinari nella legge delega. Meglio affidarsi al ministero del Lavoro e ai decreti delegati», dice un deputato di questa minoranza della minoranza.

“Il nuovo Pd come il New Labour. La prima lotta fu con i sindacati”
Peter Mandelson, spin doctor di Blair: “I vecchi interessi danneggiano i lavoratori”
intervista di David Allegranti La Stampa 5.11.14
Peter Mandelson, già storico braccio destro di Tony Blair, sarà a Roma questo venerdì per una conferenza. Proprio nei giorni di massimo scontro fra governo e sindacati (e non solo), parla con La Stampa di Matteo Renzi e Pd.
Lord Mandelson, Renzi litiga con i sindacati come Tony Blair fece in Gran Bretagna. Lei in questo vede qualche analogia?
«Senza dubbio, la cosa più difficile che abbiamo dovuto fare è stato cambiare il nostro atteggiamento con i sindacati e Blair puntualizzò subito che questa relazione non sarebbe stata “business as usual”. I sindacati erano abituati a fare la parte del leone nella costruzione delle politiche pubbliche del Labour, nell’elezione della nostra leadership e nella selezione dei parlamentari. E quando il Labour era al governo, i leader dei sindacati si comportavano come se condividessero il potere con i ministri».
Il New Labour al governo che cosa fece?
«Creammo una maggiore equità sul posto di lavoro, attraverso la legittima protezione e dei diritti dei lavoratori e dei sindacati, ma il loro potere non è mai tornato. È impossibile fare le necessarie riforme economiche e creare nuovi posti di lavoro se gli interessi acquisiti riescono a ritardare il cambiamento. Se Blair non avesse seguito un approccio rigoroso, non avremmo migliorato le performance dell’economia, aumentato l’occupazione a livelli record e offerto migliori servizi pubblici. Era un fatto di moderna, caparbia, socialdemocrazia».
Renzi vuole costruire un nuovo Pd più simile ai Democratici americani. È la risposta giusta alla crisi di legittimità della politica?
«Internet, i social media e la copertura delle notizie ventiquattrore su ventiquattro hanno trasformato la politica: i partiti politici vecchio stile devono rimettersi in pari o rischiano l’estinzione. In Gran Bretagna, il Labour era diventato un’organizzazione per piccoli gruppi di attivisti, che decidevano le politiche pubbliche dietro porte chiuse, al riparo dalle persone e dalle comunità che avrebbero dovuto rappresentare. I partiti politici hanno bisogno di reinventarsi per questa nuova era, facendo campagna elettorale tutto l’anno e non soltanto in tempo di elezioni, aprirsi alle nuove idee e ai mezzi di comunicazione e di rafforzamento delle comunità locali. Io non chiamo tutto questo “americano”, lo chiamo ventunesimo secolo».
Il Nuovo Pd somiglia al New Labour?
«Il New Labour ebbe successo al governo, e fu rieletto tre volte con grandi maggioranze, perché avevamo riformato il partito, introducendo nuove idee, nuove politiche pubbliche e nuovi metodi di governo prima di essere eletti. Coloro i quali nel partito si opposero al New Labour non avevano una valida alternativa di programma e avevano un appeal limitato tra l’elettorato. Nel New Labour, l’elettorato sapeva che cosa stava scegliendo, perché noi eravamo eletti come New Labour e governavamo come New Labour. Quando, intorno al 2010, le nostre politiche sono diventate meno chiare e ci è sembrato di perdere la nostra strada e le nostre punte di diamante, gli elettori hanno cambiato schieramento».
È la chiave anche per il Pd?
«Sì. L’elettorato vuole dal Pd una leadership chiara, politiche forti e un governo unito. Gli elettori vogliono un nuovo inizio dopo anni di politici screditati e politiche fallimentari. Sanno che l’Italia deve cambiare per avere successo e per offrire una vita migliore alla massa di persone. Se il Pd non offre una leadership forte e una chiara, credibile rottura con il passato – per quanto questo possa essere difficile nel breve periodo – molti elettori si rivolgeranno ad altri politici con meno principi o più populisti».
Pare non esserci alternativa a Renzi in Italia. È un rischio per la qualità della democrazia?
«Come Renzi sta reinventando il centrosinistra, sarebbe salutare una rigenerazione del centrodestra. Con la crisi finanziaria abbiamo visto in tutta Europa che gli elettori hanno spostato il voto dai partiti classici a quelli più marginali».
Lord Mandelson, come si possono finanziare oggi i partiti?
«Se l’elettorato avesse molto più rispetto per i suoi politici e credesse che i partiti fossero liberi dalla corruzione, potrebbe essere preparato a vedere più fondi statali come un’alternativa per questi partiti che dipendono dalle risorse private della finanza. La chiave è che i partiti politici non dovrebbero essere “di proprietà” degli uomini ricchi per servire il loro interesse piuttosto che l’interesse pubblico. E la raccolta fondi dovrebbe essere trasparente».

Il dramma del lavoro che spacca l’identità della sinistra
Da anni il Pd attendeva di allargare la sua base elettorale. Questa è un’occasione per il partito, per il Paese A condizione di non cambiare la propria naturadi Ezio Mauro Repubblica 5.11.14
DICE il presidente del Consiglio che non bisogna usare il tema del lavoro per spaccare l’Italia. In realtà più che un tema è un dramma, con la disoccupazione al 12,6 per cento, e un ragazzo — quasi — su due che non ha un posto, nemmeno precario: l’Italia è in realtà già spaccata, e nel modo peggiore, tra chi è garantito e chi no. Dunque non possiamo permetterci strumentalizzazioni. Ma nemmeno ideologizzazioni. E invece ci sono state, in abbondanza. Anzi, per settimane abbiamo assistito ad una dichiarata trasformazione dell’articolo 18 in tabù, totem e simbolo per entrambe le parti in causa, governo e sindacati. Finché l’ideologia ha prevalso sulla sostanza. E nello scontro tra le opposte ideologie ha vinto quella dominante: perché anche i mercati e la Ue ne hanno una, capace di resistere persino all’evidenza della crisi che dovrebbe sconfessarla.
Bisogna dunque essere onesti, e dire che l’occasione ideologica è stata colta al volo da Renzi e dalla sinistra sindacale per un’evidente ragione identitaria, con obiettivi contrapposti. Per il Premier, un blairismo a portata di mano (in un Paese che però ha avuto vent’anni di Berlusconi, non di Thatcher: populismo demagogico invece di estremismo liberista), e soprattutto una carta da giocare sull’altare del rigore europeo, per provare a guadagnare credito da convertire in flessibilità per la crescita. Per la Cgil un plusvalore politico immediato, che richiama la tradizione, recupera la storia, costituisce l’identità, crea automaticamente un campo.
E INFATTI la minoranza interna del Pd si è immediatamente iscritta a quel campo, recuperando un significato generale per la sua battaglia particolare di resistenza al potere renziano.
Già qui, ci sarebbe da riflettere sull’importanza culturale della questione-lavoro, se nel 2014 è ancora capace di attribuire soggettività e dignità politica, di creare una piattaforma strategica, di costituire un perimetro identitario. Altro che Novecento, altro che post- fordismo, altro che stella morta. C’è un’evidente sostituzione tecnologica in atto con il capitale che tenta di farsi direttamente lavoro, c’è una lunga generazione che è diventata adulta restando precaria, c’è una nuova fascia di espulsi cinquantenni che perdendo il posto rischiano di perdere anche la fiducia nella democrazia materiale, sospettata in questi anni di crisi di far valere i suoi buoni principi soltanto per i garantiti. Ma la questione resta centrale per qualsiasi Paese, per qualunque governo: e per ogni sinistra contemporanea, di vecchio o nuovo conio.
Alla questione del lavoro si legano infatti i valori a cui la sinistra non può fare a meno di far riferimento, anche nel nuovo secolo, le opportunità, i bisogni, la nuovissima necessità — come dice il Premier francese Valls — di «orientare la modernità per accelerare l’emancipazione degli individui». Infine e come sempre l’uguaglianza, questa volta in forma difensiva. Perché non c’è dubbio che le disuguaglianze stiano diventando la cifra dell’epoca. E se in passato la crescita e l’ascensore sociale di una società in espansione “scusavano” le disuguaglianze, oggi la crisi del lavoro le trasforma in vere e proprie esclusioni, che una democrazia molto semplicemente non può permettersi, perché non le contempla.
Questo significa che Renzi doveva fermarsi sull’articolo 18? No, ho già spiegato le ragioni del suo calcolo europeo, di cui non conosciamo ancora l’esito. Ma c’era e c’è ancora una modalità diversa di governare la questione, cioè una cultura e una consapevolezza che sono il segno distintivo di un leader di sinistra, e a mio giudizio non tolgono efficacia all’azione di cambiamento, anzi l’aumentano.
Il Premier poteva infatti spiegare al Pd che tocca alla sinistra di governo affrontare la riforma del lavoro perché altrimenti lo farà la crisi che non è un soggetto neutro, ma trasformando in politica il dogma della necessità mette i Paesi con le spalle al muro, tagliando a danno dei più deboli e non riformando nell’interesse generale. Nello stesso tempo poteva richiamare davanti ai suoi ministri il rischio che la crisi comprima soltanto i diritti del lavoro, come se fossero — unici tra tutti — variabili dipendenti, diritti nani, pretendendo quindi un’attenzione particolare alle tutele degli ammortizzatori sociali.
Poi poteva dire agli imprenditori che non ci sono pasti gratis neppure per loro, e che dopo la modifica dell’articolo 18 e il taglio dell’Irap dovevano fare la loro parte contribuendo a mantenere i costi della democrazia, quindi del welfare, di quella qualità complessiva del sistema sociale di cui tutti ci gioviamo, qualunque sia il nostro ruolo. Quindi doveva avvertire tutti i soggetti sociali del rischio che si rompa il vincolo tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, con i primi (abitanti degli spazi sovranazionali dove si muove il vero potere dei flussi informatici e finanziari) che non sentono più alcun legame di comune responsabilità con i secondi, segregati nello Stato- nazione che non ha più alcun potere di intervento e di controllo sulla crisi, salvo subirne tutti i contraccolpi. E infine, doveva avvertire il sistema politico e istituzionale, e addirittura l’Europa, del pericolo che attraverso il lavoro salti il nucleo stesso della civiltà occidentale, ciò che ha tenuto insieme per decenni capitalismo, democrazia rappresentativa e welfare state .
Di questo si tratta: e capisco che sia difficile comprimere la questione in un tweet. Ma in politica non tutto è istantaneo e non tutto è istintivo, se non vuole diventare tutto isterico, e alla fine instabile. Renzi è percepito come un politico capace di cambiare, e la sua spinta al cambiamento ha tagliato le gambe al populismo della vecchia destra berlusconiana e al furore anti-istituzionale della nuova destra grillina. Dunque il processo di riforma può essere utile al Paese e persino ad un sistema politico screditato ed estenuato, di cui il Pd oggi è nonostante tutto la spina dorsale. Ma qui nasce una seconda domanda: per Renzi il Pd è uno strumento opportunistico attraverso cui conquistare il potere o è una scelta culturale, politica, identitaria di responsabilità? Io credo sia una scelta di convinzione, come dimostra anche il fatto che Renzi è il primo segretario democratico che ha portato il Pd nel Partito Socialista Europeo. Ma questa scelta comporta alcune conseguenze che possono sembrare obblighi, e a mio parere sono invece opportunità. Non mi spaventa l’idea di fare del Pd un partito-nazione, se questo significa non certo cambiare nome, natura e impianto, ma saper rappresentare l’interesse generale chiedendo un consenso maggioritario, nella scia del countryparty contrapposto al courtparty chiuso in sé. La sinistra italiana ha non solo il diritto, ma il dovere (come in altre democrazie) di parlare all’intero Paese. Ma a patto che lo faccia in nome e per conto della sua identità: questo è il punto. Un’identità certo risolta, compiuta, modernizzata, ma che si può testimoniare a testa alta senza camuffarla o renderla ambigua. Per intenderci: nel New Labour di Tony Blair c’è certo il new, inseguito da Renzi, ma c’è pur sempre il labour, che il Premier non vede.
Diventa dunque singolare che nella sua spinta al cambiamento il segretario del Pd non consigli al Premier di usare anche l’altra metà del partito, quella di non stretta osservanza renziana, e il suo deposito di valori, di passioni, di storia e di tradizione. Diventa incomprensibile che a questa metà regali addirittura la bandiera del lavoro, con tutti i riflessi — anche condizionati — che comporta, compresa la costituzione immediata di un’identità storico-culturale, dunque politica. Da anni il Pd attendeva un’occasione di allargamento della sua base elettorale, e se la leadership di Renzi la realiz- za (come testimonia la ricerca di Ilvo Diamanti sui ceti sociali e le professioni), questa è un’occasione per il partito, per la sinistra, per il Paese. A condizione di non cambiare la propria natura. Io credo, in sostanza, che la sinistra vada modernizzata in senso europeo, occidentale, riformista, intendendo con questo la capacità di assumersi le responsabilità che la sfida di governo comporta, compresi i compromessi, compresi gli strappi. Ma credo che la sinistra debba ricordarsi di sé cambiando, non smarrirsi. Anzi, più è cosciente di se stessa, e insieme della necessità di cambiare, più può spiegare al Paese che gli strumenti politici che ha nello zaino sono i più adatti a gestire questa lunga fase di crisi: non i manganelli di Alfano nei cortei degli operai che hanno perso il lavoro.
La sfida è tutta qui, e non è poco. D’altra parte lo ricordava proprio lunedì una vecchia lettera di un antifascista liberale come Franco Antonicelli riproposta da Repubblica: «Ci vuole molto, molto amore per distruggere a fondo, molto e tenace orgoglio del passato per rinnovarsi davvero».

Renzi-sindacati Un gioco a perdere
di Luca Ricolfi La Stampa 5.11.14
La nebbia che per settimane ha circondato la Legge di stabilità si sta finalmente diradando. Dopo le slide, i tweet, gli slogan, le promesse in tv di Renzi e dei suoi ministri, un po’ di chiarezza la stanno facendo gli altri. Dove per «altri» intendo soggetti leggermente più inclini a dire la verità, come l’Istat, la Banca d’Italia, la Commissione europea. E la verità che emerge, non detta a chiare lettere ma neppure nascosta, è decisamente deprimente: la manovra del governo non è né buona né cattiva, è semplicemente debole, molto debole. Nulla, nella Legge di stabilità, autorizza a pensare che, grazie ad essa, le cose possano andare in modo sostanzialmente diverso e migliore di come sarebbero andate senza.
Dicendo questo, naturalmente, non mi riferisco agli interessi particolari, che sono invece ben tutelati o colpiti come è sempre successo: i lavoratori dipendenti avranno la conferma del bonus, gli statali l’ennesimo blocco degli scatti stipendiali; le imprese pagheranno un po’ meno Irap e contributi, i risparmiatori pagheranno più tasse; i cittadini avranno peggiori servizi (per la riduzione dei fondi a Regioni, Province, Comuni), ma le mamme avranno il bonus bebè.
Tutto questo è normale, ogni governo si procaccia il consenso come può e come vuole, e la manovra di fine anno (che ora si chiama Legge di stabilità) serve innanzitutto a questo. Quello che non è normale, ed è anzi molto deludente, è che così poco si riesca a intravedere sul piano dell’interesse generale. La manovra è debole non perché favorisce alcuni e danneggia altri, ma perché il futuro che le tabelle della Legge di stabilità ci consegnano pare proprio essere la continuazione del nostro triste presente.
Per avere la prova di quel che dico c’è un mezzo semplicissimo: controllare che cosa si prevede sul versante fondamentale per il futuro dell’Italia, che è quello dell’occupazione. Ebbene, con 3 milioni di disoccupati e un tasso di occupazione fra i più bassi del mondo sviluppato, il governo prevede che nel 2015 l’occupazione aumenti dello 0,1%, e nel 2016 dello 0,5%, mentre l’Istat, che è un po’ più ottimista del governo, prevede un aumento dello 0,2% nel 2015 e dello 0,7% nel 2016.
Sono in entrambi i casi cifre irrisorie, che non incidono sul tasso di disoccupazione, e prospettano per l’Italia un futuro di stagnazione. Un futuro che, in realtà, potrebbe risultare anche più cupo se si considera che già fra 14 mesi potrebbero scattare gli aumenti dell’Iva e di altre tasse (messi in conto dalle «clausole di salvaguardia» della Legge di Stabilità), e che tutte le previsioni del governo sono state formulate prima che l’Europa ci obbligasse, in barba alle battute polemiche di Renzi, a ripiegare su una manovra meno espansiva.
In questa situazione non stupisce che gli unici a compiacersi delle scelte del governo siano gli industriali (il presidente Squinzi ha detto che «la manovra toglie il freno al Paese»), e che i sindacati siano in difficoltà. Gli industriali apprezzano il fatto che, con la riduzione dell’Irap e l’eliminazione dei contributi per i neoassunti, sia arrivato anche il loro turno: una boccata d’ossigeno per i conti delle imprese, dopo quella che il bonus da 80 euro ha dato ai conti delle famiglie. Così come apprezzano che con il decreto Poletti, e presumibilmente con il Jobs Act, la disciplina dei licenziamenti stia evolvendo in modo più favorevole alle imprese.
I sindacati, invece, soffrono come non mai perché Renzi, con il bonus da 80 euro e la polemica anti-casta, li ha messi in trappola. Vorrebbero marciare contro il governo (e lo faranno, presumo), ma sanno anche che una parte considerevole dei lavoratori dipendenti (la maggioranza?) non li seguirebbe, perché sta con Renzi. E ci sta per due elementari motivi, uno materiale e l’altro estetico: il bonus da 80 euro, che fanno sempre comodo, e il piacere di vedere un premier-ragazzo che fa il bullo con i vecchi tromboni della politica, siano essi parlamentari, sindaci, governatori o sindacalisti.
Di qui lo stallo. Renzi, dei sacrosanti diritti dei lavoratori, e delle gloriose conquiste di quarant’anni di lotte, se ne fa un baffo. Da parte loro i sindacati sembrano pensare solo a quello: sacrosanti diritti e gloriose conquiste. Non paiono rendersi conto che quel che non va bene nella politica di questo governo non è che cancella il mondo incantato dello Statuto dei lavoratori, ma che non ne offre in cambio un altro che funzioni. Il dramma della Legge di stabilità è che essa certifica proprio questo: anche fra qualche anno, nonostante migliaia di atti di legge e la riforma del mercato del lavoro, l’Italia avrà 3 milioni di disoccupati, e più o meno lo stesso numero di occupati di oggi.
Da questo punto di vista Renzi e i sindacati non sono nemici, ma parti in commedia dello stesso gioco infernale. Un gioco in cui sembra che tutto, nel bene e nel male, dipenda dall’articolo 18, mentre le tabelle della Legge di stabilità mostrano che non è così. Le vecchie regole del mercato del lavoro possono avere depresso l’occupazione, ma le fosche previsioni delle tabelle ministeriali svelano che le nuove regole del Jobs Act non basteranno a far «cambiare verso» all’Italia.
Il guaio è che né il governo, né il sindacato, hanno il coraggio di prendere atto che il problema dell’occupazione è un problema di costi, prima ancora che di regole. Il governo teme di non avere i soldi per abbassare veramente e stabilmente il costo del lavoro, e infatti prevede una decontribuzione limitata alle assunzioni del 2015, con un budget decisamente insufficiente (1,9 miliardi nel 2015). Il sindacato teme, e in questo ha perfettamente ragione, che la decontribuzione si limiti ad alleggerire i conti aziendali, senza creare occupazione addizionale. Entrambi appaiono sordi e ciechi di fronte al vero problema: che non è regolare i diritti di chi un lavoro già ce l’ha, ma di occuparsi dei milioni di italiani che un posto di lavoro non ce l’hanno.

Tre regole per stare in Europa
L’impressione è che lo stile aggressivo adottato da Renzi ci condanni alla stessa marginalità della condotta passiva tenuta dai governi precedentidi Tito Boeri Repubblica 6.11.14
MATTEO Renzi si vanta spesso di avere cambiato l’atteggiamento dell’Italia in Europa. L’Italia è forse il paese fondatore maggiormente assente dall’arena comunitaria negli ultimi 15 anni, avendo giocato un ruolo marginale nella costruzione delle istituzioni europee. Quindi di un cambio di passo ci sarebbe bisogno. E quale migliore occasione del semestre italiano per metterlo in atto?
NON passa giorno senza che ci sia, in effetti, qualche scontro istituzionale fra il governo italiano e la Commissione Europea. Ma l’impressione è che lo stile aggressivo, “confrontational”, adottato da Renzi, ci condanni alla stessa marginalità dell’atteggiamento passivo adottato dai governi precedenti. Potrà forse la rissosità servire a raccogliere consensi in Italia, trovando un comodo capro espiatorio, ma non ci permette di meglio tutelare i nostri interessi e soprattutto quelli che sono convergenti con gli interessi dell’Unione Europea nel suo insieme. Le organizzazioni complesse, e ancora più quelle intergovernative, procedono per aggiustamenti marginali e si chiudono a riccio quando aggredite. Chi, come noi, è in una posizione contrattuale debole può costruire coalizioni vincenti solo rendendosi credibile come rappresentante di interessi più vasti di quelli del proprio paese. Purtroppo i resoconti degli incontri comunitari sono di tutt’altro tenore. E soprattutto tre esempi recenti sono sotto gli occhi di tutti.
Il primo è quello del cammino della legge di stabilità. La Commissione Europea ci ha imposto di dimezzare il contenuto espansivo della nostra legge di bilancio, facendoci ridurre l’aumento del disavanzo nel 2015 da 11,3 a meno di 6 miliardi. Ora, a una sola settimana dal via libera concesso dal vice-presidente Katainen alla legge di stabilità così “dimezzata”, sono arrivate le previsioni della Commissione che prefigurano la richiesta a breve di un’altra correzione di circa 3 miliardi in quanto l’indebitamento strutturale migliorerebbe solo dello 0,1 per cento rispetto al 2014, in luogo dello 0,3 previsto. Legittima la frustrazione di chi deve affrontare il confronto parlamentare su di una manovra che deve costantemente ripartire da capo, come nel gioco dell’oca, con tempistiche che per di più non hanno alcun rispetto per il dibattito parlamentare. Ancora più grave il fatto che la Commissione ci chieda di fatto di annullare il contenuto espansivo della manovra di fronte a un peggioramento della congiuntura. Ma presumibilmente nella situazione dell’Italia si potevano trovare molti altri paesi. Se avessimo fatto presente questi problemi di calendario a tempo debito, avremmo potuto evitare queste incongruenze. Potevamo anche incidere sul contenuto delle raccomandazioni, che oggi comportano un avvitamento in negativo, con manovre sempre più restrittive e revisioni al ribasso delle stime di crescita. Bastava mettere in discussione il modo con cui vengono stimati parametri cruciali nelle raccomandazioni della Commissione e come vengono interpretate queste stime. Il problema, in soldoni, è che la Commissione attribuisce una parte eccessiva della caduta del reddito in Italia a fattori strutturali, anziché legati alla congiuntura negativa. Questo significa che non abbiamo grandi giustificazioni per politiche espansive anticicliche. Come spiegano Cottarelli e altri su lavoce.info, bastano variazioni di pochi decimali di queste stime, ad esempio allineando quelle della Commissione alle stime dell’Ocse e del Fondo monetario, per legittimare il via libera a manovre molto più espansive di quella che saremo costretti a mettere in atto seguendo i dettami della Commissione. I dati utilizzati a Bruxelles a supporto di queste stime sono poi discutibili: ad esempio, attribuiscono alle ore di cassa integrazione una riduzione permanente, anziché temporanea, delle ore lavorate, contribuendo a ridurre di un terzo il prodotto potenziale, il livello del Pil in condizioni normali. Perché allora il nostro paese non ha contestato fin dall’inizio questi metodi, perché non ha chiesto che le ipotesi e i dati su cui si reggono gli scenari della Commissione venissero resi maggiormente trasparenti, creando un organismo tecnico in grado di valutare i margini di errore cui sono soggette le stime dei modelli e di segnalarne i limiti alle autorità comunitarie? Nessun paese ha interesse a entrare in una specie di lotteria, in cui per via di un decimale di troppo o di meno si rischia di dover riscrivere una legge di bilancio. Non è questione di cambiare i trattati. Né c’è bisogno di rimettere in discussione le regole. Basta ridiscutere il modo con cui vengono messe in atto, per il bene di tutti.
Il secondo esempio è quello degli stress test sul sistema bancario, che si sono conclusi a fine ottobre. Messaggio devastante per la credibilità del nostro sistema bancario e per la stessa Banca d’Italia in quanto siamo il paese in cui il patrimonio iscritto a bilancio dagli istituti di credito sarebbe il più lontano dalla realtà. Anche in questo caso c’è stata una levata di scudi perché gli stress test sarebbero stati troppo penalizzanti nei confronti delle banche italiane e troppo generosi nei confronti di quelle tedesche per via del fatto che hanno valutato in modo eccessivamente benigno i derivati in pancia a Commerzbank e Deutsche Bank. Giuseppe Guzzetti, che ha coalizzato le fondazioni bancarie contro gli aumenti di capitale a Siena e Genova, impedendo che Monte dei Paschi e Carige si rafforzassero patrimonialmente in vista degli stress test, ha avuto parole di fuoco contro la revisione degli attivi bancari da parte della Bce. Ora, ammesso e non concesso che i test fossero artatamente sbilanciati a favore della Germania, dove erano le nostre autorità di vigilanza, i tecnici del nostro ministero dell’economia, quando queste regole sono state discusse e adottate?
L’impressione è che il nostro governo, che si lamenta spesso per la burocrazia di Bruxelles, dovrebbe innanzitutto preoccuparsi di dotare il nostro paese di una burocrazia adeguata. Altri episodi recenti, non comunitari, certificano questa assoluta necessità. Pensiamo al caso dei test di medicina, di cui alle cronache di questi giorni, destinato a lasciarci uno strascico di ricorsi per molti anni a venire (viaggiando su Internet si trovano siti di avvocati che si offrono di preparare ricorsi con tariffe leggermente superiori alle quote di iscrizione ai corsi di laurea). Sorprende che nessuno abbia posto il seguente interrogativo: perché il ministero dell’Università e della Ricerca deve concedere un potere di monopolio assoluto a un ente privato, come Cineca, che non sembra contemplare procedure di controllo ex ante dei test somministrati agli aspiranti medici? E perché non è in grado di gestire al suo interno anche le banche dati che raccolgono le informazioni sulle carriere dei docenti universitari?
Il cambio di passo dell’Italia a livello comunitario dovrebbe infine comportare una maggiore presenza del nostro paese sui temi più importanti di cui si dibatte anche al di fuori del Club Med, il circolo dei paesi del Sud. Di qui il terzo esempio. Si sta consumando in questi giorni uno scontro molto acceso fra Angela Merkel e David Cameron che vorrebbe imporre tetti alla mobilità dei lavoratori comunitari all’interno dell’Unione. Quello della libera circolazione è un principio basilare, fondamentale da presidiare soprattutto all’interno di una unione monetaria. Il nostro paese potrebbe essere alleato di Juncker e della Germania in questa battaglia a difesa della mobilità del lavoro, difendendo un bene molto importante per i paesi che hanno la disoccupazione più alta. Non mi sembra, tuttavia, di avere udito pronunciamenti del governo italiano a riguardo. Mi auguro di essermi sbagliato.

D’Alimonte: “Le modifiche convengono solo al Pd. Ncd rischia di sparire”
Il politologo: con le nuove soglie governabilità certa. E si creerebbe una forte spinta verso il bipartitismo
intervista di Carlo Bertini La Stampa 6.11.14
«Sarebbe un’ottima cosa se il partito vincente avesse il 55% dei seggi, perché ciò consentirebbe di governare con una trentina di voti di scarto, una soglia di sicurezza fondamentale per la stabilità».
Roberto D’Alimonte, politologo della Luiss, mette l’accento sul punto per lui fondamentale - la governabilità -, ma fa notare anche un altro elemento decisivo. E cioè che «a Berlusconi in realtà non conviene il premio alla lista».
Perché professore?
«Perché gli creerebbe solo un mucchio di problemi e il rischio di finire terzo in una contesa elettorale».
E dunque?
«E dunque gli converrebbe il premio di coalizione per poter aggregare le altre forze, grazie anche al meccanismo degli sconti sulle soglie per avere seggi. Chi si aggrega ce l’ha dimezzata, Verdini l’ha pensata bene».
Fa bene Berlusconi a prendere tempo, visti i rischi che correrebbe nel dare una pistola carica a Renzi?
«No, anche con l’Italicum approvato la pistola non sarebbe carica, perché funzionerebbe solo per la Camera. E quindi fin che non sarà approvata la riforma costituzionale che abolisce il Senato elettivo, sarebbe solo una pistola mezza carica».
Lo schema di legge che si va delineando, premio alla lista del 40% e soglia unica al 5 per tutti, a chi conviene oltre a Renzi?
«Solo a lui: in questo momento abbiamo un sistema con un partito intorno al 40% e il secondo con più o meno la metà dei voti in base ai sondaggi, cioè i 5 Stelle. E poi Forza Italia valutata al 15-16%. E quindi ne beneficerebbe di sicuro solo il Pd. Anche con la soglia al 40%, Renzi non andrebbe al ballottaggio sulla base dei voti presi alle Europee».
Una legge con uno schema bipartitico dunque può essere un abito fuori misura per un sistema tripolare come il nostro?
«In verità no e spiego perché. La spinta bipartitica ci sarebbe comunque quando, dopo ripetute elezioni, i cittadini concentreranno i loro voti sui due partiti più competitivi. E poi il ballottaggio rende ancora più evidente il potere che si dà agli elettori di scegliere chi governerà il Paese».
Se il patto del Nazareno riveduto e corretto si chiudesse con un accordo sul premio alla lista, Alfano cosa potrebbe fare?
«O ottiene una soglia del 3%, che molto difficilmente gli verrà data, oppure potrebbe negoziare col Pd o con Forza Italia dei posti nel listone unico, ma in ogni caso scomparirebbe quello che oggi si chiama Ncd. Alfano in realtà vuole il premio alla lista perché non vuole essere costretto a tornare in coalizione con Berlusconi. Ma se non ottiene la soglia bassa per lui il rischio è di scomparire».
Berlusconi e Renzi hanno poi il problema delle preferenze, chieste a gran voce in entrambi i loro partiti. Come superarlo?
«L’orientamento è di inventarsi una formula simile alla legge Toscana con una quota degli eletti con le preferenze e un’altra in un listino bloccato. Si parla di 70-30. Credo che i critici delle liste bloccate potrebbero esser moderatamente soddisfatti. Sarebbe un buon compromesso».

Il bipartitismo sfida pericolosa per l’ex premier 
Il premio alla lista resta solo un'ipotesi
Roberto D'Alimonte Il Sole 6.11.14
Non ci sono ancora certezze sulle modifiche dell'Italicum, anche se alcuni tasselli si vanno sistemando. Questo è il senso dell'ennesimo incontro di ieri tra Renzi e Berlusconi. Il testo approvato alla Camera a marzo verrà cambiato. Non è una grossa novità.
Si era capito da un pezzo che c'erano aspetti critici che dovevano essere rivisti. Le soglie, per esempio. Una soglia dell'8% per avere seggi è oggettivamente troppo elevata per i partiti che vogliono presentarsi da soli. In Europa non esiste una soglia di sbarramento legale così alta. Questa soglia verrà abbassata. Ma il punto non è tanto questo. Nel testo approvato alla Camera le soglie sono due. Una per le liste singole e una per quelle che scelgono di coalizzarsi. Quest'ultima è fissata al 4,5 per cento. Dall'8% al 4,5% fa una bella differenza in termini di possibilità di ottenere seggi. Lo sconto è il meccanismo con cui si incentivano i partiti più piccoli a allearsi con quelli più grandi. Per Forza Italia è sempre stato un elemento cruciale dell'Italicum perché dovrebbe consentire a Berlusconi di giocare di nuovo un ruolo di federatore dei vari pezzi del centrodestra. Con lo sconto il Cavaliere può sperare di rimettere insieme un polo o una casa, come ai bei tempi.
Ma lo sconto ha senso se il premio di maggioranza previsto dall'Italicum può andare anche alle coalizioni di partiti e non solo alle liste singole. E invece qui sta la vera novità. Renzi vuole un Italicum senza coalizioni. Per questo il premio dovrebbe andare solo alle liste. Quindi, sparite le coalizioni, non c'è più bisogno della doppia soglia. Una soglia unica basta. Quale? Non si sa. Forse il 5 per cento. Soglia tedesca. Quella che in Germania è costata la rappresentanza ai Liberali e al nuovo partito anti-euro. Troppo alta per i piccoli partiti. Magari non per la Lega che oggi sembra avere il vento in poppa, ma certamente per il Ncd, Fdi e Sel.
La combinazione di soglia al 5% e premio alla lista rappresenta un incentivo molto forte verso il bipartitismo. Si capisce l'interesse di Renzi a procedere in questa direzione. È il capo di un partito che viene dato al 40% delle intenzioni di voto. Per vincere il premio direttamente, o per conquistare il passaggio al secondo turno, non ha bisogno di alleati. Ma perché Berlusconi dovrebbe accettare un meccanismo del genere che lo priva della possibilità di essere più competitivo? È una domanda che abbiamo già sollevato su queste pagine. E non ha una risposta razionale. È vero che il Cavaliere ha maturato da molto tempo una profonda avversione ai partitini, ma in questo momento il suo partito è al 15% delle intenzioni di voto. Può sperare di risalire la china, ma non al punto di poter sfidare credibilmente il Pd di Renzi senza alleati. Forse qualcuno dentro Forza Italia glielo sta facendo notare.
Questo spiegherebbe l'assenza di informazioni certe sull'esito dell'incontro di ieri. La decisione sul premio alla lista potrebbe essere ancora in alto mare.
Su altre questioni invece l'accordo sembra che sia stato raggiunto. Tra queste l'innalzamento della soglia del 37% per il ballottaggio. Nel testo attuale se un partito o una coalizione arriva a questa percentuale ottiene il premio di maggioranza tout court e il ballottaggio salta. È giusto alzare questa soglia al 40 per cento. Ed è ancora più giusto che chi vince al ballottaggio ottenga non il 52% dei seggi, come è previsto ora, ma almeno il 54 per cento. Pare che anche su questa modifica si sia trovato un accordo. Il 52% dei seggi vuol dire 321 deputati. Sono 5 più della maggioranza. Un margine troppo risicato per assicurare governabilità. Il 54% fa 340 seggi. Non sono una garanzia assoluta di stabilità, data la cultura politica dei nostri parlamentari, ma è decisamente meglio di 321.
Resta il nodo delle liste bloccate. Ma anche su questo punto si avverte un mutamento di opinione sia dentro Forza Italia, che fino ad oggi le ha sempre difese, sia tra le fila di Renzi che le ha finora accettate pur di fare l'accordo con Berlusconi. La soluzione dei soli capilista bloccati, di cui si è parlato in passato, non va bene. Pare che i protagonisti se ne siano accorti.
L'ipotesi allo studio è un modello misto. Una certa percentuale dei candidati sarebbero eletti con le preferenze e una altra con lista bloccata. Bisognerà vedere la soluzione tecnica scelta prima di poter esprimere una opinione su come funzionerà il sistema. Staremo a vedere. Per adesso speriamo che il timore di possibili elezioni anticipate subito dopo l'approvazione dell'Italicum non serva da alibi per rinviare tutto alle calende greche.

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