Alla fine la batosta annunciata c’è stata e l’America si è svegliata con una maggioranza d’opposizione, la più grande dai tempi di Truman. Non solo il Gop ha rafforzato l’ampia maggioranza di cui godeva alla camera già da quattro anni e conquistato il senato per 53–46 seggi (potrebbero diventare 54 dopo il ballottaggio della Louisiana che avverrà a dicembre) ma lo ha fatto vincendo decisamente in stati «obamiani» come il Colorado , l’Iowa e il North Carolina.
Martin Amis “Traditi i sogni degli americani. Ora la sinistra dovrà riflettere”
La delusione dello scrittore “È andata al di là delle peggiori aspettative, ma è sbagliato demonizzare l’avversario Adesso è urgente l’analisi dei tanti errori commessi Il presidente vive sulla propria pelle il declino degli Usa, e lui non ha saputo reagire”intervista di Antonio Monda Repubblica 6.11.14
NEW YORK MARTIN Amis appartiene alla numerosa schiera dei delusi da Barack Obama, e oggi afferma che si è trattata di una sconfitta prevedibile e meritata. Anzi per usare un suo termine, di una terribile disfatta. «È andata al di là delle peggiori aspettative — racconta nella sua casa di Brooklyn — ed è un risultato sul quale il mondo liberal dovrebbe riflettere, cosa che mi sembra non stia avvenendo». Lo scrittore britannico, da sempre un attento e appassionato osservatore della vita e della politica americana, è molto spesso negli Stati Uniti.
Cosa intende?
«Che la prima reazione è stata quella di demonizzare l’avversario, parlare del risorgere delle forze reazionarie o di prendersela con l’elettorato, colpevole di non aver compreso quanto di buono è stato fatto in questi anni, come se si trattasse di un problema di comunicazione. L’analisi che invece mi aspetto è quella sui tanti errori commessi, specie in Medio Oriente, e sull’incertezza manifestata in tante occasioni che è finita per diventare debolezza. Anche gli osservatori stranieri non sono da meno: risorge l’anti-americanismo più greve e superficiale, che condanna come irrecuperabili le stesse persone che pochi anni fa hanno votato in maniera opposta o parla di un’America che si barrica dietro le proprie convinzioni. Insomma, la necessità di comprendere è sostituita dalla volontà di accusare e trovare un capro espiatorio».
Qual è la sua lettura su questa disfatta?
«Con l’eccezione della riforma sanitaria, azzoppata nella realizzazione e certamente migliorabile, Obama ha fatto molto meno di quanto ci si aspettava.
E in politica estera ha consegnato al mondo l’idea di una leadership debole o addirittura assente: ed è una cosa semplicemente inaccettabile per un cittadino americano.
Questa delusione è da mettere in parallelo con le aspettative enormi che lui stesso aveva creato, grazie anche alla sua magnifica oratoria. Il titolo di un suo libro era l’”Audacia della speranza”: abbiamo visto poca audacia e le speranze sono state disattese».
Anche i giornali liberal come il “New York Times” in questi ultimi tempi sono stati feroci: in alcuni editoriali si è parlato perfino di incompetenza.
«Non arriverei a questo, ma l’impressione costante è che Obama sia più un teorico che un leader. Non dimentichiamo che ha un background accademico: questo non è necessariamente un bene per chi deve comandare. Alla fine del primo mandato circolava la voce che fosse depresso, e non potesse prendere medicinali. Dava l’impressione che avesse compreso che il potere, in apparenza enorme, fosse in realtà molto limitato e soggetto ad una sequenza infinita di compromessi. E, soprattutto, di non avere il talento di gestirlo per ottenere il meglio. In questi ultimi tempi si e avuta l’impressione che avesse la consapevolezza che la navigazione della corazzata che guidava potesse essere spostata solo di qualche grado. E che reagisse a questa consapevolezza con sconforto e perfino con noia».
L’accusa ricorrente è quella di non essere un “comandante in capo”.
«Se si eccettua l’uccisione di Osama Bin Laden, l’impressione è proprio questa, aggravata dalla crisi mediorientale degli ultimi anni. La risposta alla minaccia rappresentata dallo Stato Islamico è debole e oscillante».
Dove ha fallito il presidente?
Il tentativo di sanare la ferita del razzismo ha sortito risultati molto modesti, così come quello delle incarcerazioni di massa di gente di colore. Anche sull’immigrazione i risultati sono scarsi. C’è tuttavia un dato generale, che prescinde la sua presidenza: Obama sta vivendo sulla sua pelle il declino dell’America: un fenomeno ancora nella fase iniziale, e che riguarderà soprattutto le prossime generazioni, ma tuttavia sembra senza via di ritorno. Il mio paese, l’Inghilterra, ha vissuto questo trauma con dignità, salvo momenti in cui ha creduto di essere ancora una grande potenza come nella crisi di Suez nel 1956: in America sarà tutto più traumatico, considerata la promessa di un paese che esprime energia e potenza».
Si può parlare anche di declino del progressismo americano?
«Io parlerei del declino della sinistra planetaria: le prove offerte dai leader progressisti sono deludenti ovunque, e viviamo in società sempre più plutocratiche. È il denaro che comanda, come mai in precedenza, «Oltre alla debolezza in politica estera, il ten- e le sinistre hanno accettato di stare al gioco, con esiti modestissimi, e, soprattutto, perdendo la propria anima. I leader tentano di differenziarsi con riforme su questioni etiche, ma questo non può essere un discrimine tra la destra e la sinistra».
Cosa salva di questi primi sei anni della presidenza Obama?
«L’Obamacare, ossia la riforma sanitaria, nonostante i compromessi che ha dovuto accettare e le troppe complicazioni burocratiche. Milioni di persone oggi godono di una copertura un tempo inimmaginabile, e la riforma ha avuto anche il merito di far penetrare nella coscienza del popolo americana un principio lontanissimo dalla sua mentalità: il fatto che il paese ti chieda di spendere una parte dei propri guadagni per la salute altrui».
Usa, la restaurazione dei repubblicani
All’Apec, infatti, tra accordi su proprietà intellettuale e clima, gli Usa dovranno lavorare per lo più in difesa, cercando di bloccare sul nascere quell’accordo economico che la Cina vorrebbe proporre ad altri paesi dell’area, in netto contrasto con quello proposto dagli Usa (che taglia fuori proprio Pechino).
Ma internamente, dopo le elezioni di metà mandato, tengono banco i repubblicani. «Siamo tornati ad una maggioranza così consistente che nessuno di noi ha mai visto, potrebbe essere una maggioranza da 100 anni» ha esultato Greg Waldet, presidente del National Republican Congressional Committee.
Alla Camera i repubblicani hanno visto crescere la loro già consistente maggioranza a 243 dei 435 seggi, un record dai tempi dell’amministrazione Truman oltre 60 anni fa. Si tratta di un successo che ha ancora margini di crescita, perché ci sono ancora dei seggi contesi. Se tutto dovesse andare bene i repubblicani potrebbero arrivare a 249 seggi.
Si tratterebbe dunque di una vittoria ben superiore all’iniziale obiettivo di conquistare 11 seggi. I repubblicani così sembrano sul punto di riuscire ad ottenere nell’era di Obama quello che veniva teorizzato dieci anni fa da Karl Rove, il super stratega di Bush Obama, che sognava di costruire una maggioranza repubblicana «permanente» a Washington.
E i repubblicani cominciano subito a fare intuire cosa potrebbe succedere dopo queste elezioni.
Un esempio? Malgrado il successo del referendum del 4 novembre sull’uso ricreativo della marijuana, vincente anche nella capitale federale americana, una deputata repubblicana del Maryland, Andy Harris ha già preannunciato battaglia per bloccare tutto e pare possa perfino riuscirci.
Il Congresso americano ha infatti il potere di mettere il veto sulle leggi approvate nel distretto di Columbia. Si tratta di una procedura straordinaria, che prevede l’assenso delle due camere e del presidente degli Stati uniti entro 60 giorni dall’approvazione del provvedimento nel parlamento locale di Washington DC.
Il Congresso a maggioranza repubblicana sicuramente si farà valere, su questo e su altri temi, nonostante Obama durante la sua conferenza stampa dopo i risultati elettorali, abbia da un lato teso la mano, dall’altro cercato di confermare la sua volontà di andare avanti su alcuni provvedimenti.
Nel frattempo, mentre si discute ancora sulle cause della sconfitta democratica, il Wall Street Journal ha pubblicato la notizia di una lettera che Obama avrebbe scritto a Khamenei, su un’eventuale collaborazione per la guerra contro l’Isis.
Nella lettera, che il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest non ha commentato, Obama sottolinea a Khamenei che qualsiasi cooperazione contro lo Stato islamico è in gran parte condizionata dal raggiungimento di un accordo tra l’Iran e le potenze mondiali sul programma nucleare di Teheran entro la scadenza del 24 novembre.
È la quarta volta che il presidente americano scrive alla Guida suprema iraniana dal suo insediamento nel 2009.
La corrispondenza, evidenzia il Wall Street Journal, sottolinea il fatto che Obama vede l’Iran come un Paese importante per le sorti della campagna militare e diplomatica avviata da Washington per contrastare l’Isis. E di certo su questi e altri argomenti di politica estera — un po’ in ombra durante la campagna elettorale — presto arriveranno le trombe interventiste dei repubblicani.
Diario di un democratico nell’America delusa da Obama
di Aexander Stille Repubblica 7.11.14
FORSE avrei dovuto capire che i democratici andavano verso un disastro elettorale quando un mio amico, un elettore di sinistra, mi ha chiesto due o tre mesi fa: «Obama ti ha deluso?. Ricordo l’euforia, le grandi speranze per l’elezione del 2008, le promesse sui grandi temi — rovesciare la crescente disuguaglianza nel Paese, creare una società post-razziale, sviluppare l’energia verde, garantire un’assicurazione sanitaria per tutti, riformare la legge sull’immigrazione. Quello che abbiamo ottenuto sembra così poco...».
«Dipende da come la vedi», gli ho risposto. «Se consideri dov’era il paese alla fine dell’amministrazione Bush, Obama non ha governato male: siamo usciti da una terribile recessione, non ci siamo invischiati in un’altra inutile guerra e adesso più di dieci milioni di persone hanno un’assicurazione sanitaria che prima non avevano. Ma è chiaro che, se usi come metro di valutazione le speranze che erano state riposte in Obama, chiaramente il giudizio è deludente».
Sembrerebbe, a giudicare dalla sconfitta subita da tanti candidati democratici, che il sentimento di delusione abbia prevalso sullo spirito pragmatico del meno peggio. Le possibilità di vittoria per molti senatori ed esponenti democratici sono diminuite proporzionalmente con il gradimento del presidente, calato recentemente sotto il 40 per cento, circa 30 punti in meno di quel 69 per cento che aveva al momento del giuramento nel gennaio del 2009.
All’opinione pubblica piacciono ancora meno i repubblicani al Congresso — hanno un consenso inferiore al 20 per cento — dal momento che hanno dedicato tutti i loro sforzi a rendere il paese ingovernabile. Ma il loro calcolo cinico ha funzionato: in una elezione nazionale quando l’elettorato è scontento è il presidente insieme con il suo partito a pagarne il prezzo. Secondo gli exit poll , circa il 60 per cento degli elettori andati alle urne martedì pensano che il paese sta andando «nella direzione sbagliata». E questo è un campanello d’allarme per il partito che è al governo.
«Ha perso molta della sua base elettorale perché ha promesso tutto e ha fatto troppo poco», ha commentato Charles Lipson, professore di scienze politiche all’Università di Chicago, intervistato dal quotidiano conservatore The Washington Times. «Ci sono molte ragioni per essere delusi», ha sottolineato.
Il rischio serio per i democratici — nel 2016 e non solo ora — è che la nuova maggioranza progressista risultata vincente con Obama nel 2008 e nel 2012 rischia di sgretolarsi. I democratici sono stati sconfitti in posti come il Colorado e la North Carolina — e hanno quasi perso in Virginia, nonostante un candidato estremamente popolare — tutti Stati tradizionalmente repubblicani che, nelle due ultime elezioni presidenziali, erano passati sul fronte opposto.
I cambiamenti demografici negli Stati Uniti sembravano promettere un futuro dorato per i democratici. La crescente popolazione ispanica, che ormai ha superato quella dei neri come principale minoranza in America, si era orientato sempre di più verso il partito dell’Asinello, in opposizione alle politiche dei repubblicani, troppo ostili sui temi dell’immigrazione. E la nuova generazione di giovani — quelli cresciuti nel mondo della rete — era decisamente obamiana. Ma con queste elezioni di midterm il vento sembra essere decisamente cambiato.
Secondo un sondaggio dell’Istituto di politica della Harvard University, gli elettori tra 18 e 29 anni hanno preferito i repubblicani ai democratici 51 al 47 per cento: un ribaltamento totale rispetto al 2010, quando i democratici godevano di un vantaggio di dieci punti. «È tutto falsato, Obama non ha fatto quello che aveva promesso ma i repubblicani non sono meglio» era il commento di uno studente dell’università statale di New York a un giornale dell’ateneo, confermando di non aver alcuna intenzione di andare a votare.
La delusione degli ispanici è ancora più inquietante. La percentuale di chi si identifica con il partito democratico è scesa dal 70 al 63 per cento, nonostante il fatto che il partito repubblicano si sia dichiarato contrario in modo netto alla riforma dell’immigrazione. Dieci anni fa, molti leader repubblicani — tra i quali il presidente Bush — si sono dimostrati moderatamente aperti all’idea di concedere la cittadinanza ai circa 11 milioni di immigrati entrati illegalmente negli Stati Uniti dove, però, ormai vivono e lavorano da molti anni. Ma negli ultimi sei anni, hanno sempre più socchiuso quella porta, fino a chiuderla del tutto.
Per adesso, comunque, a rimetterci è Obama. In campagna elettorale, durante un incontro pubblico, il presidente è stato contestato da una donna che gli ha rimproverato di non aver condotto in porto l’annunciata riforma dell’immigrazione. Dimostrando un certo grado di frustrazione, Obama ha risposto: «Questa signora dovrebbe contestare i repubblicani perché sono loro a bloccare la riforma che stiamo promuovendo al Congresso».
Se permane questo senso di disillusione, i problemi per i democratici potrebbero diventare seri. I repubblicani appaiono davvero molto motivati a riprendersi il potere mentre gli elettori democratici sembrano decisamente sfiduciati. «Non c’era quasi nessuno quando sono andata a votare», mi dice un’amica, «e quando sono uscita dalle urne ho incontrato una conoscente. “Sei andata a votare?”, le ho chiesto. “No”, mi ha risposto, “sono venuta in un centro estetico a farmi una pedicure”».
La partecipazione al voto di martedì è stata solo del 36 per cento, la più bassa da oltre 70 anni. I repubblicani hanno trovato una formula vincente: non far funzionare il governo in modo da generare il cinismo e l’insoddisfazione che simultaneamente fa aumentare l’astensionismo e promuove una visione neoliberista del mondo. Grazie a certe recenti decisioni della Corte Suprema (a maggioranza repubblicana) sono caduti quasi tutti i limiti al finanziamento privato alla politica. La voce dei ricchi è sempre più forte. E questo fa apparire inutile il voto del cittadino qualunque.ì
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