giovedì 6 novembre 2014

Il declino di Vendola nero, uno dei presidenti statunitensi peggiori e più guerrafondai. Repubblica e Manifesto disperati


Ricordiamo il giubilo con il quale a suo tempo la sua elezione fu salutata da tutta la sinistra, moderata, radicale e persino "comunista". Va notato come ancora oggi il Manifesto parli di "restaurazione" repubblicana, lasciando intendere che ci fu una "rivoluzione" democratico-obamiana [SGA].

Sotto l’onda repubblicanaStati Uniti, elezioni midterm. Nella cronaca di una batosta annunciata si evidenzia il declino di un presidente che paga l’amarezza di un elettorato smarrito. Per Obama si tratta dell’inizio di un biennio a rischio «immobilismo»

Luca Celada, il Manifesto LOS ANGELES, 5.11.2014
Alla fine la bato­sta annun­ciata c’è stata e l’America si è sve­gliata con una mag­gio­ranza d’opposizione, la più grande dai tempi di Tru­man. Non solo il Gop ha raf­for­zato l’ampia mag­gio­ranza di cui godeva alla camera già da quat­tro anni e con­qui­stato il senato per 53–46 seggi (potreb­bero diven­tare 54 dopo il bal­lot­tag­gio della Loui­siana che avverrà a dicem­bre) ma lo ha fatto vin­cendo deci­sa­mente in stati «oba­miani» come il Colo­rado , l’Iowa e il North Carolina. 

Al con­trollo del senato i repub­bli­cani hanno aggiunto una valanga di gover­na­tori – 24 su 36 com­presi quelli di tra­di­zio­nali roc­ca­forti demo­cra­ti­che come il Maine, Mary­land e Mas­sa­chi­setts e addi­rit­tura l’Illnois — lo stato di Obama. E l’onda repub­bli­cana ha com­preso espo­nenti della destra estre­mi­sta come Joni Ernst la fami­ge­rata «castra­trice di maiali» (come si era pre­sen­tata in un cele­bre spot elet­to­rale), una reduce della guerra Iraq che di Obama ha recla­mato l’impeachment e Scott Wal­ker il falco del tea party, archi­tetto dello sman­tel­la­mento dei sin­da­cati nell’ex roc­ca­forte labor del Wiscon­sin, un benia­mino degli arci­con­ser­va­tori finan­zieri Koch. I timidi ten­ta­tivi di con­trat­tacco demo­cra­tico sono mise­ra­mente fal­liti come la can­di­da­tura di Wendy Davis, pala­dina dei diritti delle donne e gio­vane spe­ranza del par­tito, spaz­zata via nel Texas pro­fon­da­mente «rosso» (il colore asse­gnato ai repub­bli­cani sulle mappe elet­to­rali ame­ri­cane). La supre­ma­zia dei repub­bli­cani al con­gresso, più di 70 seggi di van­tag­gio, rap­pre­senta un cam­bia­mento epo­cale rispetto all’inizio dell’era Obama, quando i demo­cra­tici con­trol­la­vano camera, senato e Casa bianca. Net­ta­mente insomma oltre quello che ci si aspet­tava da un ele­zione in cui i demo­cra­tici erano for­te­mente sfa­vo­riti ma spe­ra­vano di poter argi­nare il peggio. 

Non è stato così in parte per lo sforzo coor­di­nato dei repub­bli­cani e la fon­da­men­tale effi­ca­cia di una cam­pa­gna basata sull’allarmismo pro­get­tata per coop­tare paure e fru­stra­zioni di un elet­to­rato pes­si­mi­sta in cui sono stati arruo­lati e ingi­gan­titi per­fino l’ebola e ter­ro­ri­smo come sim­boli dell’«inefficienza» di Obama. I repub­bli­cani, favo­riti dal fatto che la mag­gior parte dei seggi in palio erano in stati tra­di­zio­nal­mente con­ser­va­tori, hanno eroso il van­tag­gio dei demo­cra­tici con le elet­trici e mobi­li­tato grandi mag­gio­ranze di uomini bian­chi rispetto alle mino­ranze che sono la base demo­cra­tica. È vero che si è proa­bil­mente trat­tato di un voto di pro­te­sta dovuto a un gene­rale riflesso di insof­fe­renza più che di un ple­bi­scito ideo­lo­gico; in quat­tro stati infatti, sono anche pas­sate misure pro­gres­si­ste per l’aumento del minimo sin­da­cale men­tre Ore­gon e Washing­ton DC hanno depe­na­liz­zato la marijuana. 
Que­sto non cam­bia la sostanza di un pano­rama poli­tico radi­cal­mente dif­fe­rente che per Obama pone ora con urgenza il pro­blema di come gover­nare nei pros­simi due anni. Se prima poteva esserci il dub­bio, da ieri Obama è uffi­cial­mente un’«anatra zoppa». Il nuovo assetto di Washing­ton rischia di tra­mu­tarsi in un muro con­tro muro ad oltranza impo­sto dall’ala intran­si­gente della nuova mag­gio­ranza e l’ostruzionismo è già di fatto stato stata la prin­ci­pale stra­te­gia poli­tica dei repub­bli­cani. La camera con­trol­lata dal Gop ad esem­pio negli ultimi due anni ha votato ben 55 volte per abro­gare la legge sulla pub­blica sanità varata da Obama, voti sim­bo­lici inva­li­dati dal senato democratico. 
Il prin­ci­pale movente dei repub­bli­cani ora è di sabo­tare il governo Obama e con lui le pro­spet­tive demo­cra­ti­che nelle pros­sime ele­zioni pre­si­den­ziali del 2016. Un banco di prova della nuova acri­mo­nia ci sarà già prima della fine dell’anno quando occor­rerà appro­vare il bilan­cio, il voto che già l’anno scorso pro­vocò lo «shut­down» la ser­rata del governo a causa del boi­cot­tag­gio repub­bli­cano. I repub­bli­cani hanno ora il potere di bloc­care le nomine giu­di­zia­rie di Obama, fon­da­men­tali per influen­zare la dire­zione poli­tica del paese sul lungo ter­mine e quelle mini­ste­riali; infine avranno il potere di con­trol­lare le com­mis­sioni che gesti­scono i bud­get e la spesa. Si restrin­gono invece le pro­spet­tive di Obama per com­ple­tare la pro­pria agenda: riforma dell’immigrazione, pro­gresso sul muta­mento cli­ma­tico e soprat­tutto misure con­tro l’ineguaglianza eco­no­mica la vera bomba a oro­lo­ge­ria socioe­co­no­mica del pre­sente. Per lui a que­sto punto, oltre al potere di veto, rimane poco più che l’azione mediante decreto esecutivo. 
Una situa­zione che si repli­cherà in campo inter­na­zio­nale. La poli­tica estera non è stata un argo­mento cen­trale della cam­pa­gna elet­to­rale, ma i son­daggi indi­ca­vano che appena il 34% degli ame­ri­cani approva della poli­tica estera di Obama, il 38% del suo ope­rato con­tro l’Isis, il 37% della sua posi­zione su Israele e il 35% del suo ope­rato in Ucraina. 
È pro­ba­bile ora un allon­ta­na­mento dalla real­po­li­tik oba­miana verso un mag­giore inter­ven­ti­smo. Ma oltre ad alcune istanze spe­ci­fi­che (si allon­tana ora defi­ni­ti­va­mente la pro­spet­tiva della chiu­sura di Guan­ta­namo), i repub­bli­cani non hanno un’agenda pre­cisa al di la di un gene­rico mag­giore mili­ta­ri­smo. Nel par­tito ci sono, è vero, fal­chi come John McCain, fau­tori dell’invio imme­diate di truppe in Siria e Iraq ma in mate­ria di inter­venti mili­tari nell’ordinamento ame­ri­cano l’ultima parola rimane quella del com­man­der in chief e fra gli stessi repub­bli­cani esi­ste anche una cor­rente neo-isolazionista che fa capo alla fazione “liber­ta­rian” di Rand Paul, uno dei benia­mini del Tea Party con aspi­ra­zioni presidenziali. 
La diver­genza di opi­nioni in merito sot­to­li­nea le divi­sioni interne del par­tito repub­bli­cano che para­dos­sal­mente potreb­bero essere accen­tuate dalla vit­to­ria di ieri. Dopo la vit­to­ria Mitch McCon­nell, il neo lea­der della mag­gio­ranza del senato, ha soste­nuto la neces­sità di col­la­bo­rare col pre­si­dente almeno su alcuni temi di vitale impor­tanza nazio­nale ma Ted Cruz, lea­der dei fal­chi Tea Party del Texas lo ha imme­dia­ta­mente smen­tito, giu­rando resi­stenza ad oltranza. 
Cruz come Rand Paul e Paul Rubio della Flo­rida è uno dei «colon­nelli» della destra che si ado­pre­ranno per il sabo­tag­gio ad oltranza per asse­con­dare la base in vista di una pos­si­bile can­di­da­tura pre­si­den­ziale. McCon­nell e l’ala isti­tu­zio­nale del par­tito avranno un bel daf­fare per con­te­nerli. Nel con­se­guente stallo poli­tico il per­dente quasi cer­ta­mente sarà il paese.

Martin Amis “Traditi i sogni degli americani. Ora la sinistra dovrà riflettere”
La delusione dello scrittore “È andata al di là delle peggiori aspettative, ma è sbagliato demonizzare l’avversario Adesso è urgente l’analisi dei tanti errori commessi Il presidente vive sulla propria pelle il declino degli Usa, e lui non ha saputo reagire”intervista di Antonio Monda Repubblica 6.11.14
NEW YORK MARTIN Amis appartiene alla numerosa schiera dei delusi da Barack Obama, e oggi afferma che si è trattata di una sconfitta prevedibile e meritata. Anzi per usare un suo termine, di una terribile disfatta. «È andata al di là delle peggiori aspettative — racconta nella sua casa di Brooklyn — ed è un risultato sul quale il mondo liberal dovrebbe riflettere, cosa che mi sembra non stia avvenendo». Lo scrittore britannico, da sempre un attento e appassionato osservatore della vita e della politica americana, è molto spesso negli Stati Uniti.
Cosa intende?
«Che la prima reazione è stata quella di demonizzare l’avversario, parlare del risorgere delle forze reazionarie o di prendersela con l’elettorato, colpevole di non aver compreso quanto di buono è stato fatto in questi anni, come se si trattasse di un problema di comunicazione. L’analisi che invece mi aspetto è quella sui tanti errori commessi, specie in Medio Oriente, e sull’incertezza manifestata in tante occasioni che è finita per diventare debolezza. Anche gli osservatori stranieri non sono da meno: risorge l’anti-americanismo più greve e superficiale, che condanna come irrecuperabili le stesse persone che pochi anni fa hanno votato in maniera opposta o parla di un’America che si barrica dietro le proprie convinzioni. Insomma, la necessità di comprendere è sostituita dalla volontà di accusare e trovare un capro espiatorio».
Qual è la sua lettura su questa disfatta?
«Con l’eccezione della riforma sanitaria, azzoppata nella realizzazione e certamente migliorabile, Obama ha fatto molto meno di quanto ci si aspettava.
E in politica estera ha consegnato al mondo l’idea di una leadership debole o addirittura assente: ed è una cosa semplicemente inaccettabile per un cittadino americano.
Questa delusione è da mettere in parallelo con le aspettative enormi che lui stesso aveva creato, grazie anche alla sua magnifica oratoria. Il titolo di un suo libro era l’”Audacia della speranza”: abbiamo visto poca audacia e le speranze sono state disattese».
Anche i giornali liberal come il “New York Times” in questi ultimi tempi sono stati feroci: in alcuni editoriali si è parlato perfino di incompetenza.
«Non arriverei a questo, ma l’impressione costante è che Obama sia più un teorico che un leader. Non dimentichiamo che ha un background accademico: questo non è necessariamente un bene per chi deve comandare. Alla fine del primo mandato circolava la voce che fosse depresso, e non potesse prendere medicinali. Dava l’impressione che avesse compreso che il potere, in apparenza enorme, fosse in realtà molto limitato e soggetto ad una sequenza infinita di compromessi. E, soprattutto, di non avere il talento di gestirlo per ottenere il meglio. In questi ultimi tempi si e avuta l’impressione che avesse la consapevolezza che la navigazione della corazzata che guidava potesse essere spostata solo di qualche grado. E che reagisse a questa consapevolezza con sconforto e perfino con noia».
L’accusa ricorrente è quella di non essere un “comandante in capo”.
«Se si eccettua l’uccisione di Osama Bin Laden, l’impressione è proprio questa, aggravata dalla crisi mediorientale degli ultimi anni. La risposta alla minaccia rappresentata dallo Stato Islamico è debole e oscillante».
Dove ha fallito il presidente?
Il tentativo di sanare la ferita del razzismo ha sortito risultati molto modesti, così come quello delle incarcerazioni di massa di gente di colore. Anche sull’immigrazione i risultati sono scarsi. C’è tuttavia un dato generale, che prescinde la sua presidenza: Obama sta vivendo sulla sua pelle il declino dell’America: un fenomeno ancora nella fase iniziale, e che riguarderà soprattutto le prossime generazioni, ma tuttavia sembra senza via di ritorno. Il mio paese, l’Inghilterra, ha vissuto questo trauma con dignità, salvo momenti in cui ha creduto di essere ancora una grande potenza come nella crisi di Suez nel 1956: in America sarà tutto più traumatico, considerata la promessa di un paese che esprime energia e potenza».
Si può parlare anche di declino del progressismo americano?
«Io parlerei del declino della sinistra planetaria: le prove offerte dai leader progressisti sono deludenti ovunque, e viviamo in società sempre più plutocratiche. È il denaro che comanda, come mai in precedenza, «Oltre alla debolezza in politica estera, il ten- e le sinistre hanno accettato di stare al gioco, con esiti modestissimi, e, soprattutto, perdendo la propria anima. I leader tentano di differenziarsi con riforme su questioni etiche, ma questo non può essere un discrimine tra la destra e la sinistra».
Cosa salva di questi primi sei anni della presidenza Obama?
«L’Obamacare, ossia la riforma sanitaria, nonostante i compromessi che ha dovuto accettare e le troppe complicazioni burocratiche. Milioni di persone oggi godono di una copertura un tempo inimmaginabile, e la riforma ha avuto anche il merito di far penetrare nella coscienza del popolo americana un principio lontanissimo dalla sua mentalità: il fatto che il paese ti chieda di spendere una parte dei propri guadagni per la salute altrui».

Usa, la restaurazione dei repubblicani
Il giorno dopo la scon­fitta, la con­fe­renza stampa e la con­si­de­ra­zione di essere rima­sto iso­lato, Obama ha la neces­sità di rica­ri­care in fretta le pile, per­ché è atteso da un appun­ta­mento inter­na­zio­nale di prima gran­dezza, a Pechino.
Fuori casa, nella tana di un Par­tito comu­ni­sta che sta siste­mando le pro­prie riforme interne e mira ormai a riba­dire la pro­pria gran­dezza nell’area asia­tica, pro­prio quella al cen­tro dell’intervento oba­miano con il suo pivot to Asia.
All’Apec, infatti, tra accordi su pro­prietà intel­let­tuale e clima, gli Usa dovranno lavo­rare per lo più in difesa, cer­cando di bloc­care sul nascere quell’accordo eco­no­mico che la Cina vor­rebbe pro­porre ad altri paesi dell’area, in netto con­tra­sto con quello pro­po­sto dagli Usa (che taglia fuori pro­prio Pechino).
Ma inter­na­mente, dopo le ele­zioni di metà man­dato, ten­gono banco i repub­bli­cani. «Siamo tor­nati ad una mag­gio­ranza così con­si­stente che nes­suno di noi ha mai visto, potrebbe essere una mag­gio­ranza da 100 anni» ha esul­tato Greg Wal­det, pre­si­dente del Natio­nal Repu­bli­can Con­gres­sio­nal Committee.
Alla Camera i repub­bli­cani hanno visto cre­scere la loro già con­si­stente mag­gio­ranza a 243 dei 435 seggi, un record dai tempi dell’amministrazione Tru­man oltre 60 anni fa. Si tratta di un suc­cesso che ha ancora mar­gini di cre­scita, per­ché ci sono ancora dei seggi con­tesi. Se tutto dovesse andare bene i repub­bli­cani potreb­bero arri­vare a 249 seggi.
Si trat­te­rebbe dun­que di una vit­to­ria ben supe­riore all’iniziale obiet­tivo di con­qui­stare 11 seggi. I repub­bli­cani così sem­brano sul punto di riu­scire ad otte­nere nell’era di Obama quello che veniva teo­riz­zato dieci anni fa da Karl Rove, il super stra­tega di Bush Obama, che sognava di costruire una mag­gio­ranza repub­bli­cana «per­ma­nente» a Washington.
E i repub­bli­cani comin­ciano subito a fare intuire cosa potrebbe suc­ce­dere dopo que­ste elezioni.
Un esem­pio? Mal­grado il suc­cesso del refe­ren­dum del 4 novem­bre sull’uso ricrea­tivo della mari­juana, vin­cente anche nella capi­tale fede­rale ame­ri­cana, una depu­tata repub­bli­cana del Mary­land, Andy Har­ris ha già pre­an­nun­ciato bat­ta­glia per bloc­care tutto e pare possa per­fino riuscirci.
Il Con­gresso ame­ri­cano ha infatti il potere di met­tere il veto sulle leggi appro­vate nel distretto di Colum­bia. Si tratta di una pro­ce­dura straor­di­na­ria, che pre­vede l’assenso delle due camere e del pre­si­dente degli Stati uniti entro 60 giorni dall’approvazione del prov­ve­di­mento nel par­la­mento locale di Washing­ton DC.
Il Con­gresso a mag­gio­ranza repub­bli­cana sicu­ra­mente si farà valere, su que­sto e su altri temi, nono­stante Obama durante la sua con­fe­renza stampa dopo i risul­tati elet­to­rali, abbia da un lato teso la mano, dall’altro cer­cato di con­fer­mare la sua volontà di andare avanti su alcuni provvedimenti.
Nel frat­tempo, men­tre si discute ancora sulle cause della scon­fitta demo­cra­tica, il Wall Street Jour­nal ha pub­bli­cato la noti­zia di una let­tera che Obama avrebbe scritto a Kha­me­nei, su un’eventuale col­la­bo­ra­zione per la guerra con­tro l’Isis.
Nella let­tera, che il por­ta­voce della Casa Bianca Josh Ear­nest non ha com­men­tato, Obama sot­to­li­nea a Kha­me­nei che qual­siasi coo­pe­ra­zione con­tro lo Stato isla­mico è in gran parte con­di­zio­nata dal rag­giun­gi­mento di un accordo tra l’Iran e le potenze mon­diali sul pro­gramma nucleare di Tehe­ran entro la sca­denza del 24 novembre.
È la quarta volta che il pre­si­dente ame­ri­cano scrive alla Guida suprema ira­niana dal suo inse­dia­mento nel 2009.
La cor­ri­spon­denza, evi­den­zia il Wall Street Jour­nal, sot­to­li­nea il fatto che Obama vede l’Iran come un Paese impor­tante per le sorti della cam­pa­gna mili­tare e diplo­ma­tica avviata da Washing­ton per con­tra­stare l’Isis. E di certo su que­sti e altri argo­menti di poli­tica estera — un po’ in ombra durante la cam­pa­gna elet­to­rale — pre­sto arri­ve­ranno le trombe inter­ven­ti­ste dei repubblicani.

Diario di un democratico nell’America delusa da Obama

di Aexander Stille Repubblica 7.11.14
FORSE avrei dovuto capire che i democratici andavano verso un disastro elettorale quando un mio amico, un elettore di sinistra, mi ha chiesto due o tre mesi fa: «Obama ti ha deluso?. Ricordo l’euforia, le grandi speranze per l’elezione del 2008, le promesse sui grandi temi — rovesciare la crescente disuguaglianza nel Paese, creare una società post-razziale, sviluppare l’energia verde, garantire un’assicurazione sanitaria per tutti, riformare la legge sull’immigrazione. Quello che abbiamo ottenuto sembra così poco...».
«Dipende da come la vedi», gli ho risposto. «Se consideri dov’era il paese alla fine dell’amministrazione Bush, Obama non ha governato male: siamo usciti da una terribile recessione, non ci siamo invischiati in un’altra inutile guerra e adesso più di dieci milioni di persone hanno un’assicurazione sanitaria che prima non avevano. Ma è chiaro che, se usi come metro di valutazione le speranze che erano state riposte in Obama, chiaramente il giudizio è deludente».
Sembrerebbe, a giudicare dalla sconfitta subita da tanti candidati democratici, che il sentimento di delusione abbia prevalso sullo spirito pragmatico del meno peggio. Le possibilità di vittoria per molti senatori ed esponenti democratici sono diminuite proporzionalmente con il gradimento del presidente, calato recentemente sotto il 40 per cento, circa 30 punti in meno di quel 69 per cento che aveva al momento del giuramento nel gennaio del 2009.
All’opinione pubblica piacciono ancora meno i repubblicani al Congresso — hanno un consenso inferiore al 20 per cento — dal momento che hanno dedicato tutti i loro sforzi a rendere il paese ingovernabile. Ma il loro calcolo cinico ha funzionato: in una elezione nazionale quando l’elettorato è scontento è il presidente insieme con il suo partito a pagarne il prezzo. Secondo gli exit poll , circa il 60 per cento degli elettori andati alle urne martedì pensano che il paese sta andando «nella direzione sbagliata». E questo è un campanello d’allarme per il partito che è al governo.
«Ha perso molta della sua base elettorale perché ha promesso tutto e ha fatto troppo poco», ha commentato Charles Lipson, professore di scienze politiche all’Università di Chicago, intervistato dal quotidiano conservatore The Washington Times. «Ci sono molte ragioni per essere delusi», ha sottolineato.
Il rischio serio per i democratici — nel 2016 e non solo ora — è che la nuova maggioranza progressista risultata vincente con Obama nel 2008 e nel 2012 rischia di sgretolarsi. I democratici sono stati sconfitti in posti come il Colorado e la North Carolina — e hanno quasi perso in Virginia, nonostante un candidato estremamente popolare — tutti Stati tradizionalmente repubblicani che, nelle due ultime elezioni presidenziali, erano passati sul fronte opposto.
I cambiamenti demografici negli Stati Uniti sembravano promettere un futuro dorato per i democratici. La crescente popolazione ispanica, che ormai ha superato quella dei neri come principale minoranza in America, si era orientato sempre di più verso il partito dell’Asinello, in opposizione alle politiche dei repubblicani, troppo ostili sui temi dell’immigrazione. E la nuova generazione di giovani — quelli cresciuti nel mondo della rete — era decisamente obamiana. Ma con queste elezioni di midterm il vento sembra essere decisamente cambiato.
Secondo un sondaggio dell’Istituto di politica della Harvard University, gli elettori tra 18 e 29 anni hanno preferito i repubblicani ai democratici 51 al 47 per cento: un ribaltamento totale rispetto al 2010, quando i democratici godevano di un vantaggio di dieci punti. «È tutto falsato, Obama non ha fatto quello che aveva promesso ma i repubblicani non sono meglio» era il commento di uno studente dell’università statale di New York a un giornale dell’ateneo, confermando di non aver alcuna intenzione di andare a votare.
La delusione degli ispanici è ancora più inquietante. La percentuale di chi si identifica con il partito democratico è scesa dal 70 al 63 per cento, nonostante il fatto che il partito repubblicano si sia dichiarato contrario in modo netto alla riforma dell’immigrazione. Dieci anni fa, molti leader repubblicani — tra i quali il presidente Bush — si sono dimostrati moderatamente aperti all’idea di concedere la cittadinanza ai circa 11 milioni di immigrati entrati illegalmente negli Stati Uniti dove, però, ormai vivono e lavorano da molti anni. Ma negli ultimi sei anni, hanno sempre più socchiuso quella porta, fino a chiuderla del tutto.
Per adesso, comunque, a rimetterci è Obama. In campagna elettorale, durante un incontro pubblico, il presidente è stato contestato da una donna che gli ha rimproverato di non aver condotto in porto l’annunciata riforma dell’immigrazione. Dimostrando un certo grado di frustrazione, Obama ha risposto: «Questa signora dovrebbe contestare i repubblicani perché sono loro a bloccare la riforma che stiamo promuovendo al Congresso».
Se permane questo senso di disillusione, i problemi per i democratici potrebbero diventare seri. I repubblicani appaiono davvero molto motivati a riprendersi il potere mentre gli elettori democratici sembrano decisamente sfiduciati. «Non c’era quasi nessuno quando sono andata a votare», mi dice un’amica, «e quando sono uscita dalle urne ho incontrato una conoscente. “Sei andata a votare?”, le ho chiesto. “No”, mi ha risposto, “sono venuta in un centro estetico a farmi una pedicure”».
La partecipazione al voto di martedì è stata solo del 36 per cento, la più bassa da oltre 70 anni. I repubblicani hanno trovato una formula vincente: non far funzionare il governo in modo da generare il cinismo e l’insoddisfazione che simultaneamente fa aumentare l’astensionismo e promuove una visione neoliberista del mondo. Grazie a certe recenti decisioni della Corte Suprema (a maggioranza repubblicana) sono caduti quasi tutti i limiti al finanziamento privato alla politica. La voce dei ricchi è sempre più forte. E questo fa apparire inutile il voto del cittadino qualunque.ì

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