venerdì 7 novembre 2014

Fiabe 2 / Un Andersen illustrato


Hans Christian Andersen: Fiabe e storie, traduzione integrale di Bruno Berni, illustrazioni di Fabian Negrin, Donzelli

Risvolto
Le fiabe di Hans Christian Andersen costituiscono un insieme narrativo che non ha uguali per forza e ampiezza di diffusione nell’ambito delle culture occidentali. Composte e pubblicate in danese fra il 1835 e il 1874, esse scaturiscono in gran parte dalla fantasia originale dell’autore e solo in minima parte dalla materia popolare cui pure, almeno inizialmente, egli dichiarò di ispirarsi.
Il fatto è che - come mette in evidenza Vincenzo Cerami nell' introduzione al volume - Andersen non si limita a ripercorrere e reinterpretare il filo della grande tradizione favolistica europea, inaugurata da Basile, fissata da Perrault e ulteriormente strutturata da Hoffman. Dotato di un' inquieta tensione romantica e di un'autentica consapevolezza borghese, Andersen «cambia radicalmente la prospettiva della fiaba». Prima di lui maghi, streghe, gnomi, draghi, fate e orchi erano figure dotate di poteri speciali, dalla sapienza impenetrabile, misteriosa, ignota al lettore. Andersen, al contrario, opera una sorta di umanizzazione di animali e cose, «mettendo in scena protagonisti di sconsolata umanità, immergendosi in creature che per il semplice fatto di non esistere in natura sono segretamente afflitte da un rovello interiore». Ed ecco che il nostro autore diventa di volta in volta un abete, un salvadanaio, una lumaca, una teiera. Ecco che le sue nevrosi di adulto maturo si stemperano e si cristallizzano nella fiaba, mettendo in scena i fantasmi di una regressione verso l'adolescenza. È qui il segreto del suo planetario successo: inventare figure irreali, per poi subito immergerle nel mondo reale, nella quotidianità delle passioni e delle pulsioni.

Ne deriva una conseguenza solo apparentemente paradossale: quelle di Andersen sono - anche, e forse soprattutto - fiabe e storie per grandi. È lo stesso autore a rivendicarlo con forza: «le mie fiabe sono più per gli adulti che per i bambini, che possono solo comprendere le cornici, gli ornamenti. Soltanto un adulto maturo può vedere e percepire i contenuti. La semplicità è solo una parte delle mie fiabe, il resto ha un sapore piccante». Sostenuta da questa consapevole ripulsa di ogni concessione all'ingenuità, la straordinaria padronanza narrativa dell'autore si può così distribuire sui più differenti registri di scrittura, e Andersen può scrivere qui con spirito creaturale e francescano, là con pietà e dolore, là ancora con ironia acre e cattiva: «Le fiabe mi stavano in mente come un seme - ha detto di se stesso alla fine della sua carriera di scrittore - ci voleva soltanto un soffio di vento, un raggio di sole, una goccia d'erba amara, ed esse sbocciavano».
Questa dimensione complessa, piena, consapevolmente adulta, che fa delle pagine di Andersen un capolavoro della «letteratura pura», diventa finalmente percepibile a pieno da parte del lettore italiano, di fronte al corpo completo delle 156 fiabe e storie, riunite qui per la prima volta da Bruno Berni, con una cura meticolosa e appassionata, in una traduzione omogenea e integrale, condotta sull’edizione critica danese.

L’improvvisatore della realtà 

Scaffale. Tornano nelle librerie italiane le «Fiabe e storie» di Hans Christian Andersen, nella loro traduzione integrale dal danese di Bruno Berni, pubblicate da Donzelli. Illustra le celebri favole l'argentino Fabian Negrin, cui il Pisa Book Festival dedica una mostraArianna Di Genova, 7.11.2014 
Altis­simo, piut­to­sto brutto, troppo magro e troppo impres­sio­na­bile di carat­tere, Hans Chri­stian Ander­sen aveva però una buona voce. Durante la sua infan­zia dic­ken­siana (più per ambien­ta­zione e mise­ria eco­no­mica che per infe­li­cità vera e pro­pria), di sera ascol­tava con stu­pore le Mille e una notte che gli rac­con­tava un padre cia­bat­tino con vel­leità let­te­ra­rie, ma di giorno ani­mava le mario­nette del tea­trino dome­stico con dia­lo­ghi fitti fitti e, quando poteva, si lan­ciava in acuti gor­gheggi. Per anni – così scrisse nella sua auto­bio­gra­fia mitiz­zata La favola della mia vita – rimase con­vinto che, essendo la Cina sotto le acque del fiume di Odense, un giorno il prin­cipe di quel regno lon­ta­nis­simo lo avrebbe preso e por­tato via, per intrat­te­nere la corte a palazzo con la sua dote canora. 

Quel sogno non si avverò: Ander­sen a 14 anni si tra­sferì a Cope­na­ghen per diven­tare can­tante, attore e bal­le­rino, poi prese a scri­vere osses­si­va­mente poe­sie e drammi per il pal­co­sce­nico e final­mente venne inter­cet­tato da Jonas Col­lin, diret­tore del Royal Thea­ter: il suo mece­nate colse il talento del gio­vane che sgo­mi­tava per arri­vare a tutti i costi, ma notò anche le sue lacune di for­ma­zione e pensò bene di indi­riz­zarlo verso una istru­zione ade­guata alle aspi­ra­zioni. Ci si impe­gnò, dan­do­gli sia lezioni pri­vate che rac­co­man­dan­dolo al ret­tore della scuola di Sla­gelse. Hans Chri­stian divenne così un pen­sio­nante fuori età, preso di mira dai com­pa­gni tutti più pic­coli, ma con­ti­nuò a stu­diare fino all’università. Perse l’alone da auto­di­datta, indossò il nuovo sogno che lo voleva poeta e con­servò intatta quella vena fan­ta­stica che lo rese poi cele­bre in tutto il mondo. Per­ché nono­stante i romanzi (tra cui L’improvvisatore che ebbe grande noto­rietà e fu inven­tato e scritto in Ita­lia), i drammi tea­trali e i versi scritti a più riprese dall’autore danese, la sua fama incon­tra­stata è dovuta alle fiabe, rese dalla sua lin­gua par­ti­co­la­ris­sima un genere let­te­ra­rio ori­gi­nale e com­piuto. Rac­conti per let­tori di ogni età, soprat­tutto rivolti ad adulti sospesi in una eterna ado­le­scenza, e a bam­bini più sma­li­ziati, quelli che si sta­vano affac­ciando sull’orlo della Sto­ria euro­pea come indi­vi­dui a sé, figli della pic­cola bor­ghe­sia di pro­vin­cia e poi di tutte le classi sociali. 

Torna tra gli scaf­fali delle libre­rie ita­liane la rie­di­zione del pre­zioso Fiabe e sto­rie pub­bli­cato da Don­zelli (tra­du­zione inte­grale dal danese di Bruno Berni che l’ha rivi­sta e ria­dat­tata, intro­du­zione di Vin­cenzo Cerami, pp. 874, euro 37), arric­chita dalle tavole dell’illustratore argen­tino Fabian Negrin, cui viene dedi­cata la mostra appena inau­gu­ra­tasi in occa­sione del Pisa Book Festi­val. Per nulla inti­mi­dito dalle icone create per bam­bine dalla sta­tura di un pol­lice, guar­diani di porci, brutti ana­troc­coli, regine delle nevi da quel magi­strale dise­gna­tore che fu Vilhelm Peder­sen — l’ufficiale di marina pro­dusse 125 inci­sioni su legno a cor­redo di una edi­zione tede­sca in cin­que volumi del 1849 – Negrin va dritto per la sua strada, offrendo un tocco oni­rico alle «fiabe intrise di realtà» dello scrit­tore di Odense. 

Il libro rac­co­glie, in ordine cro­no­lo­gico, la pro­du­zione di Ander­sen com­po­sta fra il 1835 e il 1872 (morì nel 1875), attra­ver­sando l’arco di una vita, infram­mez­zata da mol­te­plici viaggi e da altret­tante delu­sioni d’amore: lo scrit­tore ebbe una grande incer­tezza ses­suale e non si capì mai se fu omo­ses­suale; di fatto, quando si inva­ghì di donne come la can­tante sve­dese Jenny Lind, alla cui figura è dedi­cata la sto­ria dell’usignolo dell’imperatore, la rela­zione non si con­cre­tizzò. Il suo suc­cesso fu sem­pre cre­scente, arri­vando alla pro­gres­siva can­cel­la­zione dell’uditorio dei «pic­coli», a favore di un let­tore bor­ghese, grande, grosso e vac­ci­nato rispetto alle allu­sioni, i doppi sensi, le iro­nie amare. 
Nella let­te­ra­tura di Hans Chri­stian Ander­sen non spira nes­sun vento da filo­logo. Pur se debi­tore ai fra­telli Grimm, di soli vent’anni più vec­chi di lui, per la rac­colta di sto­rie popo­lari, immerso nella mede­sima tem­pe­rie cul­tu­rale roman­tica che con­du­ceva verso la con­sa­pe­vo­lezza delle radici cul­tu­rali di un popolo, lo scrit­tore danese non diventò un anti­qua­rio di fiabe. 
La sua dichia­ra­zione di intenti, d’altronde, è chia­ris­sima, affi­data a Madre Sam­buco: «Pro­prio dalla realtà viene fuori la fiaba più mera­vi­gliosa, altri­menti come avrebbe fatto il mio cespu­glio di sam­buco a uscire dalla teiera?». Inven­tore infa­ti­ca­bile, Ander­sen animò le nature morte (dagli stracci all’ago da ram­mendo fino al grano sara­ceno), fece par­lare i suoi per­so­naggi con un lin­guag­gio colo­rito, pieno di inte­rie­zioni e asso­nanze, e pre­ferì il dia­logo diretto alla nar­ra­zione per lettura. 
Attinse al patri­mo­nio orale comune a tutto il nord Europa, ma quella non fu l’unica fonte. Rimu­ginò sui suoi ricordi, memo­rizzò il fol­klore della sua terra (sua madre, lavan­daia alco­liz­zata, che ter­minò l’esistenza in un ospi­zio per indi­genti, lo incan­tava con le magie delle veg­genti del paese), guardò alle fiabe d’arte di Hof­f­mann e pescò dalle saghe e bal­late del Medioevo ger­ma­nico, com­prese alcune libertà sin­tat­ti­che che costel­lano i suoi rac­conti, come ad esem­pio l’uso di pas­sato e pre­sente mesco­lati insieme. Uma­nizzò i per­so­naggi, sbir­ciò negli ambienti degli emar­gi­nati e fu moderno soprat­tutto nell’uso della lin­gua che piegò all’espressività – para­tassi al posto di frasi subor­di­nate, uso par­si­mo­nioso dei punti così da ren­dere la let­tura scor­re­vole e rapida, emo­zioni rese con vocali ed escla­ma­zioni. Una lin­gua che, all’epoca, venne cri­ti­cata per­ché troppo simile a quella par­lata. Ander­sen venne anche accu­sato di ego­cen­tri­smo e di disin­te­resse verso l’Europa del suo tempo. Eppure è pro­prio l’inesauribile curio­sità verso il quo­ti­diano a irro­rare di linfa vitale le sue fiabe, a nutrire l’ossatura di ogni sin­gola creazione. 
C’è un fil rouge nelle innu­me­re­voli sto­rie zam­pil­late dalla sua mente? Sicu­ra­mente l’idea di meta­mor­fosi in cui si rico­no­sceva anche lo stesso scrit­tore (Il brutto ana­troc­colo è senz’altro auto­bio­gra­fico), ma anche l’ossessione dark per la morte: gli stu­diosi hanno rile­vato che su 156 favole, solo in un sesto non c’è rife­ri­mento alcuno alla morte. In ogni caso, è molto più pre­sente dell’amore. Qui spic­cano il pupazzo di neve inna­mo­rato del bagliore della stufa, la sire­netta pronta a rin­ne­gare la sua natura per avvi­ci­nare il prin­cipe, il sol­da­tino di sta­gno con una gamba sola che si strugge per la bal­le­rina di carta. Nei tre casi, nes­sun happy end è pre­vi­sto. Come sanno gli adulti e i bam­bini di tutto il mondo.

Hans C. Andersen rivive negli inediti acquarelli di Negrin 
15 nov 2014  Libero GIUSEPPE LISCIANI 
Al Palazzo Blu di Pisa è in corso fino al 15 febbraio prossimo, l'evento Fiabe in Blu, con l’esposizione dei ventuno acquarelli di Fabian Negrin, che illustrano la nuovissima edizione del capolavoro di Hans C. Andersen, Fiabe e storie ( Donzelli Editore pp 874 euro 37). 
Si tratta dell'unica versione integrale in lingua italiana che, uscita per la prima volta nel 2001, è stata ora arricchita dalle scene inedite di questo immaginifico pittore di origine argentina. Occhi grandi, viso dolce e attonito, lacrime di fuoco: la figura della piccola fiammiferaia è emblematica della cifra scelta da Negrin per raccontare in immagini il dolore innocente e la meraviglia attonita che Andersen sapeva mescolare nella invenzione e narrazione del suo formidabile fiabesco. Gli altri fiabisti del secolo di Andersen (1805-1875) - per esempio, i due Grimm in Germania o Asbjörnsen e Moe in Norvegia o Afanasjev in Russia o il nostro Pitré in Sicilia - si preoccuparono soprattutto di raccogliere e catalogare testi fiabeschi dalla tradizione popolare, si comportarono molto più da folcloristi e da antropologi che non da scrittori. Essere scrittore, invece, fu la volontà e il sogno assoluto di Andersen. Che perciò scrisse molto di teatro e di narrativa e non voleva saperne di essere soltanto un autore di genere, riservato ai bambini. Raccontar fiabe, però, gli piaceva, ma lo fece a modo suo. Certo, non mancò di ispirarsi ad alcune storie popolari, danesi e non. Ma le raccontò con personalità trasgressiva e innovatrice, così come inventò e raccontò, con la sensibilità, la malinconia, la dolcezza incantata del poeta, innumerevoli "fiabe di oggetti". Si narra che lo scultore Bertel  Thorvaldsen abbia espresso ammirazio-ne ad Andersen per la sua capacità di ricavare fiabe da ogni oggetto, «persino da un ago». Come una sorta di re Mida della fiaba. E Andersen lo accontentò: inventò e scrisse la storia di un ago da rammendo «che era così fine da credersi un ago da ricamo». Particolare curioso: questa narrazione, non certo di struttura tradizionale, è tuttavia tra le poche di Andersen ad esibire l'incipit classico di «C’era una volta». 
Il «modo suo» con cui il grande scrittore danese volle raccontare fiabe - che spesso fiabe non erano - non piacque alla intellighenzia ufficiale. Anzi, irritò persino un altro grande di Danimarca, Sören Kierkegaard, suo coetaneo e filosofo controcorrente. Costui dedicò nel 1838 un testo critico al narratore di fiabe, sostenendo che no, Andersen «non ha idea di che cosa sia una fiaba». In verità, Hans Christian è riuscito a vedere con occhio di fiaba persino se stesso : nato, nella assoluta indigenza da un ciabattino e da una lavandaia ha sognato una vita in grande. Fu lui, ad insegnare al mondo la malinconia del brutto anatroccolo e la metafora tranciante del re nudo. È stato il suo genio a suggerire a 
Tagore le parole suggestive e provocatorie: «Perché avete tante materie nelle vostre scuole? Basterebbe una sola, Andersen».

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