Fu
il patto fra i due totalitarismi del Ventesimo secolo per spartirsi le
spoglie dell’Europa orientale. L’accordo fra la Germania nazista e la
Russia sovietica, siglato dai ministri degli Esteri Ribbentrop e
Molotov, diede il via alla Seconda guerra mondiale. Certo, ci sono
storici che sostengono che Stalin agì in una logica difensiva, per
guadagnare tempo di fronte all’inevitabile aggressione tedesca. Ma
comunque l’Urss fra il 1939 e il 1940 si impadronì dei Baltici e di
parte della Polonia.
A distanza di 75 anni, il leader russo Vladimir
Putin difende quella scelta. Parlando a una platea di giovani storici,
ha affermato che «quei metodi erano parte della politica estera di quel
tempo. L’Unione Sovietica aveva firmato un patto di non aggressione con
la Germania. Cosa c’è di male in questo?».
Il problema è che il
protocollo segreto del patto Ribbentrop-Molotov ridisegnava i confini
dell’Europa orientale lungo le linee di influenza russa e tedesca. Putin
sembra essere a suo agio con quell’esito in quel dato contesto storico.
Ma che dire del contesto attuale? I discorsi e le azioni della
leadership russa degli ultimi tempi puntano alla revisione
dell’architettura di sicurezza europea uscita dal crollo dell’impero
sovietico. Putin ha accusato gli Stati Uniti di violare gli interessi
russi, lasciando intendere che Mosca reclama la propria sfera di
influenza in Europa.
La difesa del patto nazi-sovietico non farà che
alimentare i timori per l’atteggiamento revisionista del Cremlino. Una
volta queste erano discussioni riservate agli storici: dopo l’invasione
dell’Ucraina e il rombo dei bombardieri ai confini della Nato,
riguardano la cronaca politica.
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