domenica 16 novembre 2014

Il conflitto tra città e campagna e la costruzione dello Stato di diritto nella Nuova Cina: parla Mo Yan


Dorian Malovic Avvenire 28 ottobre 2014


Mo Yan ribelle, prima di Tienanmen 
«Non sono più pessimista: vedo la Cina fare grandi progressi Le proteste democratiche a Hong Kong? Studio la situazione»

Domenica 16 Novembre, 2014 LA LETTURA © RIPRODUZIONE RISERVATA

Mo Yan è uno scrittore. Scrittore: non parlatore. Quasi in ossequio al significato del suo pseudonimo ( mo yan sta per «non parlare», appunto: il vero nome è Guan Moye), non conviene cercare nelle sue riposte l’effusione generosa della sua scrittura, che non nasconde alcun dettaglio, che ricalca con minuzia il mondo e addirittura espone il lettore, quasi con sadismo, a descrizioni di una crudezza respingente. Ai suoi libri corposi fa eco la cautela delle risposte, il silenzio di fronte a questioni che ritiene inopportuno affrontare. 
Primo Nobel per la Letteratura della Cina nel 2012 (Gao Xingjian, quando ricevette il premio nel 2000, era già cittadino francese, ed è comunque ignorato con disprezzo dalle autorità), orgoglio della nazione, Mo Yan è membro del Partito comunista, perfettamente inserito nell’establishment, come dimostra anche la sua partecipazione all’assise culturale presieduta dal segretario generale Xi Jinping in ottobre. È nei suoi libri che il potere appare come un’entità distante o, peggio, un demone che detta le azioni di funzionari feroci e ottusi, mentre i tentativi di riscatto rimangono frustrati. Le canzoni dell’aglio , romanzo del 1988 che Einaudi pubblica nella traduzione di Maria Rita Masci, non fa eccezione. La sfortunata odissea amorosa del vitale Gao Ma e di Jinju, destinata dalla famiglia a nozze combinate, si conclude con la ragazza incinta che s’impicca a una porta; il romanzo si apre con un arresto di grottesca iniquità, mentre la permanenza in carcere di un altro protagonista, Gao Yang, è una sequenza di abusi inflitti e autoinflitti. Una storia corale ambientata nel 1987, contrappuntata dai versi del cantastorie cieco Zhang Kou, che racconta della fallimentare rivolta dei coltivatori di aglio, illusi dal distretto di potersi sollevare dalla miseria e poi atrocemente beffati da autorità inette e spietate («Il Partito comunista, che non temeva nemmeno i diavoli giapponesi/ Avrebbe paura adesso che la gente comune si esprima?»). Ma chiedendo a Mo Yan se la ribellione di un romanzo dell’88 potesse preludere ai fatti dell’anno successivo (la repressione della Tienanmen) o domandando un giudizio sui leader di allora (Deng Xiaoping, Hu Yaobang e Zhao Ziyang, quest’ultimo destituito e messo agli arresti domiciliari in seguito ai fatti dell’89), non si ha risposta. Mo Yan lascia parlare i libri. 
Sono passati due anni dalla vittoria del Nobel. Qual era il suo stato d’animo allora e com’è oggi? 
«Non ci sono stati cambiamenti nel mio stato d’animo. L’ho già chiarito quando ho ricevuto il Nobel, sia in Cina che nel resto del mondo ci sono moltissimi scrittori che hanno il diritto di ricevere questo premio. Quindi sono rimasto sempre molto calmo». 
Tornando a scrivere dopo il trionfo ha saputo ritrovare la giusta concentrazione? 
«Dopo aver ricevuto il premio, in effetti i miei impegni sono aumentati. Ho ricevuto molti inviti che, per affetto o per rispetto, non potevo non accettare. Quindi il tempo per scrivere è diminuito, ma sto facendo uno sforzo per rimettere le cose in ordine. Sto cercando di evitare il più possibile le attività sociali per riservare tempo alla mia scrittura». 
Le autorità hanno sfruttato il prestigio del suo premio per promuovere la sua terra d’origine, le sue opere, la Cina in generale. Ne è orgoglioso o si è sentito «usato»? 
«Il governo della regione e quello centrale non hanno promosso la mia zona o le mie opere dopo il Nobel: è stato il distretto in cui si trova il mio paese che ha colto questa occasione per sviluppare il turismo. C’erano molte persone che volevano visitare i luoghi che descrivo nei miei romanzi. Nei confronti di questo ho mantenuto un atteggiamento sobrio. Se il mio premio ha portato vantaggi alla gente del posto dove sono nato non posso che essere felice. Non ho mai pensato di essere un personaggio importante. Sono soltanto uno che scrive, niente di speciale». 
«Le canzoni dell’aglio» del 1988. Chi era Mo Yan allora? 
«Tra il Mo Yan di allora e quello di oggi, a parte una differenza di 26 anni, non ci sono differenze fondamentali». 
Quali erano nel 1988 le sue aspettative? 
«All’epoca scrivevo con la speranza di fare una profonda impressione, desideravo che ai lettori piacessero le mie opere. Per quando riguarda la vita quotidiana, banalmente sognavo di potermi comperare una casa». 
Anche questo libro si svolge nello Shandong. Il villaggio immaginario di Tiantang è la sua Gaomi? 
«Il punto di partenza per l’ispirazione del testo è un avvenimento successo realmente in un distretto dello Shandong. Quando mi hanno intervistato in passato, l’ho fatto presente varie volte. Ma scrivendo ho ambientato la vicenda nella zona a nord-est di Gaomi». 
La regione dello Shandong come metafora del mondo. 
«Qualsiasi scrittore di qualsiasi Paese parla dell’ambiente che gli è familiare. Mentre scrive non ha l’ambizione di farsi conoscere nel mondo o quella di rappresentare il proprio Paese. Ma un buon romanzo, visto che descrive aspetti comuni della natura umana, finisce per avere un impatto globale». 
I suoi libri raccontano sempre il mondo contadino. La guerra, l’oppressione, la libertà, la modernità, il progresso sono sempre raccontati in campagna, come se l’universo rurale fosse il solo teatro possibile. Perché? 
«Perché la vita di campagna mi è familiare e capisco la psicologia dei contadini». 
Ma lei ha casa anche a Pechino: la città la ispira poco... 
«Per la maggior parte trasferisco l’ispirazione che mi viene dalla città ai lavori che parlano della vita rurale». 
In questo romanzo la vita del villaggio viene sconvolta quando tutti corrono a vendere l’abbondante raccolto d’aglio, senza accorgersi che li attende la rovina. Ancora una volta lei racconta l’abisso tra le persone e la legge. Perché è così pessimista sul ruolo dello Stato? 
«Il romanzo ha tratto ispirazione dalla vita reale, ma i destini dei personaggi sono una mia invenzione. All’epoca ero molto pessimista circa la Cina, ma nella Cina di oggi ci sono stati grandi progressi». 
Nei suoi romanzi spesso i funzionari statali e del Partito sono infidi e corrotti. La grande campagna anticorruzione promossa ora dal leader Xi Jinping è davvero una grande purificazione? 
«Questa campagna di lotta alla corruzione in effetti ha avuto una grande risonanza. Corrisponde ai desideri della gente comune». 
Un decennio dopo le riforme economiche di Deng Xiaoping (lanciate nel dicembre 1978), il 1987 e il 1988 segnarono un periodo di grande dinamismo e di apertura in Cina. Come ricorda quegli anni? 
«Dal punto di vista della creazione letteraria, gli anni Ottanta sono stati un periodo pieno di vitalità. Sono emersi molti giovani scrittori, sono state scritte ottime opere. Anch’io sono emerso in quel periodo». 
Negli ultimi mesi Hong Kong è stata attraversata da proteste di studenti e cittadini che chiedono la possibilità di eleggere un governatore con un sistema trasparente e democratico. Qual è la sua opinione ? 
«Sto ancora studiando la storia di Hong Kong». 
I social media trasformano la lettura, modificano la percezione della letteratura? 
«Mi è difficile stabilirlo: non li uso». 
Scrivere le dà più felicità o le richiede più fatica? 
«L’una e l’altra cosa». 
Il conseguimento del Nobel ha portato agli scrittori e agli artisti in Cina una maggior libertà rispetto a prima? O i condizionamenti, come la censura e la necessità di autorizzazioni, rimangono tali e quali? 
A questa domanda Mo Yan non risponde. 

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