domenica 23 novembre 2014
Il Grande Sogno Borghese di non pagare le tasse, nelle sue molteplici versioni
L’economista fa sgocciolare le tasse Torna l’idea di un’aliquota fiscale unica che freni l’evasione
La flat tax dovrebbe lasciar filtrare ricchezza verso il basso alleggerendo la pressione sui redditi alti. Ma funziona a metà In
Italia prova a rispondere lo storico e politologo Marco Revelli, con un
breve saggio dal titolo militante: La lotta di classe esiste e l’hanno
vinta i ricchi, Vero!
di Giuseppe Sarcina Corriere La Lettura 23.11.14
Ristorante «Two
Continents», Washington, quattro strade dalla Casa Bianca. Dopo il
caffè, due politici, un professore di economia e un giornalista
discutono animatamente di tasse e conti pubblici. A un certo punto
l’economista stende il tovagliolo e con la stilografica traccia una
specie di campana rovesciata su un fianco.
«Vedete? — spiega ai suoi
interlocutori — Non è vero che più si aumentano le imposte e più cresce
il gettito fiscale. Anzi, esiste una soglia limite, un punto di svolta
oltre il quale accade esattamente il contrario: più lo Stato carica il
contribuente, meno incassa». Arthur Laffer ripone la penna con
accademica condiscendenza guardando i due uomini seduti di fianco a lui,
Donald Rumsfeld e Dick Cheney, collaboratori del presidente
repubblicano Gerald Ford. Il più pronto è il quarto commensale,
l’editorialista del «Wall Street Journal» Jude Wanniski, che lì per lì
battezza quel grafico schizzato sulla salvietta la «Curva di Laffer».
Così almeno l’ha raccontata sul suo giornale lo stesso Wanniski. Era il
1974. Quarant’anni dopo, archiviate le bellicose carriere di Rumsfeld e
Cheney, quel disegnino vive una nuova, controversa, stagione.
Ora
che il paradigma del rigore ha mostrato tutti i suoi limiti, il
confronto tradizionale tra la famiglia dei liberisti e quella della
sinistra keynesiana si sposta su basi politico-culturali diverse. Merito
di alcune opere di grande ambizione, anche se a tratti di impervia
lettura, tra le quali spicca il lavoro dell’economista francese Thomas
Piketty ( Il Capitale nel XXI secolo , Bompiani), e di altri saggi di
più ridotta caratura, come gli scritti e le conferenze di Alvin
Rabushka. Questo politologo americano sta conducendo un’intensa campagna
per la diffusione della flat tax , il prelievo unico sui redditi con
una aliquota tra il 15 e il 20%. L’idea di un’imposta secca risale al
1956 e fu avanzata da Milton Friedman, il massimo teorico del
neoliberismo, che la sistematizzò nel suo fondamentale Capitalismo e
libertà (1962, ultima edizione in Italia, Ibl Libri, 2010).
Nel
nostro Paese la flat tax è comparsa su diverse sponde. Nel 1994 la
voleva Silvio Berlusconi e nel 2005 il radicale Marco Pannella. Oggi la
rilancia Matteo Salvini, segretario della Lega Nord. In Italia, però, la
semplificazione fiscale, il passaggio dai cinque scaglioni attuali a
uno solo, presuppone la riscrittura dell’articolo 53 della Costituzione,
che prevede la progressività della tassazione. Inoltre resta la grande
incognita dell’impatto sulle entrate tributarie e dunque sull’equilibrio
del bilancio pubblico.
Il ragionamento torna a quel tovagliolo del
«Two Continents», alla «Curva di Laffer», con due teoremi da verificare.
Il primo lo abbiamo già visto: la mini-imposta unica incoraggia anche
gli evasori a onorare i pagamenti. Il secondo si può enunciare così:
bisogna sgravare i contribuenti più ricchi, perché potranno mettere più
risorse al servizio dello sviluppo. Il sistema, liberato dai balzelli,
sarà in grado di riequilibrare la distribuzione del reddito. Cambia il
meccanismo: anziché la progressività, introdotta all’inizio del
Novecento, entra in funzione il cosiddetto trickle down , letteralmente
«sgocciolamento».
Laffer e i suoi ammiratori confidano in un
aggiustamento automatico, quasi naturale, prendendo a prestito
l’immagine utilizzata dal sociologo Georg Simmel nel 1904 per descrivere
la catena di diffusione della moda: le scelte d’abbigliamento delle
classi più agiate «sgocciolano», appunto, dall’alto verso il basso.
Ma
esistono dati empirici che confermino queste ipotesi? In Italia prova a
rispondere lo storico e politologo Marco Revelli, con un breve saggio
dal titolo militante: La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i
ricchi, Vero! (Laterza, pagine 96, e 9). Nelle ultime elezioni europee
Revelli è stato il garante della lista della sinistra radicale «L’Altra
Europa con Tsipras». Nel libro, però, prevale lo studioso e,
soprattutto, pesano i numeri, le statistiche. Oggi la flat tax è
applicata in una trentina di Paesi, con una certa densità nell’Europa
dell’Est. Ma è evidente che il caso più interessante e più significativo
sia proprio quello degli Stati Uniti, la patria di Friedman e di
Laffer.
Revelli richiama i risultati ottenuti dal doppio mandato
delle amministrazioni repubblicane di Ronald Reagan (1981-1989) e di
George W. Bush (2001-2009). Entrambi tagliarono le tasse sui redditi più
alti. Il consuntivo di Reagan è alterno. La manovra «lafferiana» sulle
imposte, peraltro concordata con il Partito democratico, riattivò
l’economia, sollevando la crescita del Pil fino al 4,1% (1988) e creando
16 milioni di posti di lavoro. Le entrate fiscali, però, calarono del
1% del Pil e di conseguenza il debito pubblico si triplicò fino ad
arrivare a 2 mila miliardi di dollari. George W. Bush ereditò da Bill
Clinton un budget federale in attivo di 236 miliardi di dollari; dopo il
taglio delle tasse e in soli tre anni si ritrovò con un passivo di 375
miliardi. Le famiglie e lo Stato centrale cominciarono a indebitarsi,
ponendo le premesse della bolla finanziaria esplosa nel 2007-2008. Oggi
il debito degli Stati Uniti è pari a 15 mila miliardi di dollari ed è la
mina vagante dell’equilibrio mondiale.
Resta da capire se, almeno,
si sia prodotto l’effetto «sgocciolamento», se cioè la distanza tra le
fasce di reddito sia diminuita. Su questo punto le risposte di Piketty e
di Revelli coincidono: no. Negli ultimi trent’anni la disuguaglianza è
aumentata a livello mondiale e praticamente in tutti gli Stati, come
dimostra la dinamica dell’indice di Gini (il coefficiente che misura il
grado di distribuzione delle ricchezze).
Nell’ultimo vertice di
Davos, nel gennaio 2014, l’associazione Oxfam ha presentato un rapporto
titolato Working for the Few , «Lavorare per i pochi». Una tabella
mostra come dal 1980 al 2012 negli Stati Uniti, «lafferiani» per 16
anni, la quota di reddito posseduta dall’1% più benestante della
popolazione sia aumentata del 150%. Anche in altri Paesi l’élite
economica si è arricchita in modo esponenziale: del 90% in Australia;
tra il 50 e l’80% in Irlanda, Norvegia e Svezia. Di fatto nelle 29
nazioni considerate (Italia compresa) non si è visto alcuno
«sgocciolamento», se mai una pioggia abbondante. Ma in un’altra
direzione.
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