domenica 23 novembre 2014

Beccaria economista liberale

L'ARTE DELLA RICCHEZZA OPERA
Ancora esiste il Presidente Scognamiglio... [SGA].

Carlo Scognamiglio Pasini: L'arte della ricchezza. Cesare Beccaria economista, Mondadori education

Risvolto
Sono trascorsi due secoli e mezzo dalla pubblicazione di Dei Delitti e delle Pene (1764), il capolavoro composto all'età di venticinque anni che fece di Cesare Beccaria, assieme a Niccolò Machiavelli, l'italiano più famoso e più citato nella storia del pensiero occidentale per la filosofia, il diritto e la scienza politica. Il nome di Beccaria è associato ai più alti valori dell'umanesimo, dell'illuminismo e del liberalismo. Caterina II di Russia, Voltaire e Thomas Jefferson, con Jeremy Bentham, Jean Baptiste Say, Stendhal e Karl Marx, lo consideravano come una delle più alte espressioni della cultura europea. I principi del diritto penale di Beccaria, assieme a quelli di Montesquieu sulla separazione dei poteri, di Rousseau sulla sovranità del popolo, e di Voltaire sui diritti civili, sono considerati i cardini della meravigliosa stagione dell'illuminismo europeo. Ma chi era Beccaria economista, e perché si può paragonare persino ad Adam Smith, che fra gli economisti è generalmente considerato il padre fondatore e più grande del suo secolo? Questa biografia, che unisce il rigore scientifico e storiografico a una narrazione che può essere letta come un romanzo, ricostruisce gli aspetti finora meno conosciuti della vita e delle opere di Cesare Beccaria.




Abbiamo tanto bisogno di un Cesare Beccaria"L'arte della ricchezza" di Carlo Scognamiglio Pasini svela il lato "economico" del grande giurista e filosofo


A Cesare quel che è di Cesare

A 250 anni da «Dei delitti e delle pene» Beccaria va riconosciuto non solo come grande giurista ma come economista anticipatore di Adam Smith
di Armando Massarenti Il Sole Domenica 23.11.14
Nel 1765, in una sorta di lungo editoriale della rivista «Il Caffè» intitolato «De' fogli periodici», Cesare Beccaria osservava che «il vero fine di uno scrittore di fogli dev'essere di rendere rispettabile la virtù, di farla amabile, d'inspirare quel patetico entusiasmo per cui pare che gli uomini dimentichino per un momento se stessi per l'altrui felicità». «Ma questo scopo – aggiungeva – dev'essere piuttosto nascosto che palese, coperto dal fine apparente di dilettare, di divertire, come un amico che conversi con voi, non come un maestro che sentenzi». E ciò anche laddove si discorra dei temi che – oltre la moda, la letteratura, l'umorismo, gli apologhi e tutti gli espedienti volti a rendere leggera e gradevole la lettura – egli riteneva fossero decisivi per alimentare la felicità, pubblica e privata: «l'agricoltura, le arti, il commercio, la politica». E poi «la fisica e la storia naturale», miniere inesauribili di idee che devono «fermentare» nella mente di chi legge, e che lo scrittore deve «rendere a chiarezza e precisione, e quasi in sugo ed in sostanza» allo scopo di non annoiare nel rendere pubbliche sia «le cognizioni positive» «utili al maggior numero» sia – non meno importanti – quelle «negative» volte «a distruggere i pregiudizi e le opinioni anticipate, che formano l'imbarazzo, il difficile e, direi quasi, il montuoso e l'erto di ogni scienza».
Dei delitti e delle pene era stato pubblicato un anno prima, nel 1764, ed è un inno a questa idea dei Lumi che lavorano «più a distruggere che ad edificare, e così facendo edificano insensibilmente», consapevoli che «ad ogni verità grande ed interessante, mille errori, e mostruose falsità stanno d'attorno che la inviluppano e la nascondono agli occhi non sagaci».
Sono trascorsi duecentocinquant'anni dalla pubblicazione di quel piccolo formidabile trattato, distruttore di pregiudizi ed edificatore di diritti e di idee innovative che ancora brulicano nelle nostre teste. E in questi due secoli e mezzo Cesare Beccaria è stato esaltato, ma anche trascurato e frainteso, in molte sue linee di pensiero. Come scrisse Luigi Settembrini, Dei delitti e delle pene ha rappresentato più che l'uscita di un libro un momento epocale, segnando «il tempo in cui fu abolita la tortura e le atrocità nei giudizi criminali, e si cominciò a pensare se è proprio necessaria la pena di morte ai colpevoli». Intellettuale illuminista, antesignano negli sviluppi di molte correnti del pensiero moderno, come il contrattualismo, il liberalismo e l'utilitarismo, Beccaria, insieme a Machiavelli il più conosciuto al mondo tra i pensatori italiani, supera con la sua riflessione e produzione teorica i confini tra le varie discipline e certamente sfugge a una definizione univoca. Jeremy Bentham lo considerava tra gli ispiratori più importanti dell'utilitarismo, per la formulazione del celebre principio incentrato sulla «massima felicità per il maggior numero di persone», ma in Beccaria non può essere affatto trascurata l'attenzione per i diritti individuali e il riferimento al contrattualismo alla Rousseau, con echi che giungono oggi fino alle "teorie della giustizia" alla John Rawls, come ricorda il filosofo del diritto Mario Ricciardi nell'ultimo numero della rivista Philosophical Inquiries (www.philinq.it). Ma è anche vero che il calcolo razionale caro agli utilitaristi permette a Beccaria di desacralizzare il diritto scindendo per primo, e una volta per tutte, l'idea (giuridica) di reato dal concetto (etico-religioso) di peccato, e che proprio il suo ragionare da economista gli fornisce la chiave per valorizzare al massimo grado i diritti individuali in un contesto drammatico e ancora oggi delicatissimo come quello del sistema sanzionatorio penale.


Che l'eredità intellettuale di Beccaria non possa essere circoscritta a questo fenomenale piccolo trattato – dove troviamo perfettamente enunciati i principi della certezza del diritto e della pena, del grado di deterrenza dei diversi tipi di punizione, della velocità dei processi come ingrediente fondamentale per una giustizia giusta – lo dimostra la monumentale opera avviata da Luigi Firpo e Gianni Francioni con l'edizione nazionale delle Opere di cui uscirà a breve il terzo volume dedicato agli Scritti economici (Mediobanca). Come sostiene Carlo Scognamiglio Pasini nel suo L'arte della ricchezza (uscito in questi giorni per Mondadori education), Beccaria è stato in realtà «il più profondo e il più originale degli economisti italiani». Scognamiglio abbraccia appieno in questo il giudizio di Schumpeter che definiva Beccaria "l'Adam Smith italiano". In una nota critica del curatore Gianmarco Gaspari agli Scritti economici si legge che Beccaria avrebbe anticipato Smith nella formulazione del concetto di "divisione del lavoro". Scogmamiglio invece ricorda che due furono le idee di Beccaria considerate eversive dai suoi contemporanei: la prima è quella, già menzionata, della distinzione tra crimini e peccati, che spinse la Chiesa a mettere subito all'Indice Dei delitti e delle pene. La seconda è un'idea che si troverà anche nella Ricchezza delle nazioni di Smith (1776) e che «rivoluzionerà il sapere economico aprendo la strada alla moderna economia politica, al sistema dell'economia di mercato, e più tardi anche all'antitesi rappresentata dal socialismo di Marx ed Engels». Espressa chiaramente da Beccaria nelle lezioni che tenne tra il 1769 e il 1771, è l'idea secondo cui la vera fonte della ricchezza delle nazioni non è costituita dalle risorse naturali e dall'agricoltura, ma trae invece origine dal lavoro umano e dagli strumenti che ne incrementano la produttività. La classe sociale cui Beccaria apparteneva – aristocratici e proprietari terrieri – non poteva subire un simile attacco alla rendita, e spinse Beccaria ad abbandonare l'insegnamento e il progetto di pubblicare il proprio testo sull'economia, che uscirà postumo nel 1804, e ad accettare per il resto della sua vita solo compiti operativi e amministrativi. Che è sempre un bel modo per depotenziare le menti più fervide e innovative.

Beccaria, l’Adam Smith italiano al crocevia tra diritto e mercato 

Sergio Bocconi Venerdì 13 Febbraio, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA

Di Cesare Beccaria tutti sanno che è stato il nonno di Alessandro Manzoni e conoscono Dei delitti e delle pene , l’opera scritta a 25 anni che gli ha dato fama universale in un mondo allora più globale di quel che oggi si pensi. Meno note invece sono le sue «fatiche» di economista e civil servant. A questi capitoli poco esplorati Carlo Scognamiglio Pasini ha dedicato il libro L’arte della ricchezza. Cesare Beccaria economista (Mondadori Università, pagine 328, e 22). Professore emerito alla Luiss di Roma, già presidente del Senato e ministro della Difesa, Scognamiglio riesce in un’impresa tutt’altro che semplice: quasi con lo stile di un romanzo intreccia vicende umane ed evoluzione professionale e del pensiero di Beccaria. Il risultato fa giustizia di una evidente sottovalutazione ed è un affresco della Milano dei Lumi, tra le prove e i tormenti della sua élite, le tipicità sociali, il rapporto con il «dominatore» austriaco. 
«Quest’oblio merita una riflessione. Nel campo dell’economia è difficile per noi italiani poter contare più di un autore per secolo che abbia raggiunto una posizione di massimo rilievo sul piano internazionale», scrive Scognamiglio, che sottolinea come la ricostruzione della figura di Beccaria sia stata resa possibile grazie in particolare all’edizione completa delle sue opere promossa da Mediobanca. E sull’oblio occorre meditare, tanto più se si considera che Joseph Schumpeter definisce Beccaria «l’Adam Smith italiano»: «Le somiglianze fra questi due uomini e i loro risultati sono impressionanti». E in effetti il suo libro Elementi di economia pubblica , dato alle stampe nel 1804, 10 anni dopo la morte dell’autore e 35 dopo le lezioni di Economia a Milano, che rappresentano il periodo in cui sarebbe stato scritto, presenta grande sintonia con La ricchezza delle nazioni di Smith. 
Scrive Scognamiglio che in entrambi i campi, giustizia ed economia, il pensiero di Beccaria risulta «eversivo». Laicizza la giustizia penale, introducendo la distinzione fra «peccati» e «crimini» che sarà fondamentale per il pensiero illuminista. In economia sostiene che la fonte della ricchezza delle nazioni non è costituita da risorse naturali e agricoltura, come affermava la scuola di pensiero dominante nel Settecento, ma dal lavoro umano. E ritiene che «l’economia pubblica sarà l’arte di fornire con pace e sicurezza non solamente le cose necessarie, ma ancora le comode, alla moltitudine riunita». Annota l’autore che questa base del pensiero, elaborata da Beccaria dalle sue lezioni nel 1768, si troverà nell’incipit della Ricchezza delle nazioni , pubblicato nel 1776. In entrambi i casi viene disegnata la svolta che rivoluziona il sapere economico e recide il fondamento della rendita che sosteneva i ceti dominanti: aristocratici e proprietari terrieri. 
Beccaria, eclettico tra mercantilismo e fisiocrazia, sostegno al libero mercato e anticipazioni del moderno welfare, lascia però incompiuto il capolavoro economico. Forse lo frena anche il carattere (che gli farà scrivere, come propria immaginaria epigrafe: «Visse la vita tranquillamente, con poca ambizione»). Incline alla depressione, Beccaria si reca su invito a Parigi nei salotti illuministi, ma mal sostiene l’ira dei fratelli Verri; rifiuta l’incarico di consigliere di Caterina II di Russia, coltivando la promessa di una cattedra di Economia «creata» per lui; lascia l’insegnamento guardato con sospetto di «eversione» ed entra nella pubblica amministrazione; si muove insomma con una prudenza non sempre in linea con il suo «genio». Ma non può che destare stupore l’originalità dei suoi atti di governo: i documenti redatti in 23 anni sono oltre 6 mila. La sua azione di riforma ha basi liberiste ma anticipa il keynesismo: abolisce le corporazioni; dà vita al Monte delle sete, primo istituto di credito industriale; propone rimedi alla disoccupazione, da una sorta di cassa integrazione alla spesa in lavori pubblici; prefigura l’introduzione di un sistema metrico decimale di misure e pesi; porta a una riforma monetaria ammirata in Europa. Anche questi provvedimenti restano in ombra per lungo tempo. Il racconto di Scognamiglio diventa dunque un tributo più che dovuto al «nostro Adam Smith».

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