martedì 4 novembre 2014

La versione integrale di Sfere di Peter Sloterdijk

Sfere I Peter Sloterdijk: Sfere I (pagg. 593 euro 36) e Sfere II (pagg. 941 euro 39), a cura di Gianluca Bonaiuti,  Raffaello Cortina Editore

Risvolto

  La trilogia Sfere, opera maggiore di Peter Sloterdijk, propone una storia filosofica delle culture umane attraverso una figura, la sfera, che rappresenta il cuore del progetto di razionalizzazione dell’immagine del mondo e dell’uomo nella filosofia classica. Le sfere al centro del progetto indicano più di semplici figure geometriche. La capacità di creare forme sferiche implica sin dalle origini della civiltà umana la possibilità di accedere a costruzioni di senso capaci di orientare l’intera esperienza dell’uomo, nella dimensione dell’intimità e in quella definita dagli orizzonti della civilizzazione. In tale prospettiva, Sfere esprime il tentativo di definire una visione della storia umana e della condizione contemporanea a partire da una teoria dello spazio animato. Il primo volume, Bolle, elabora una filosofia dell’intimità, contrapponendo all’immagine autosufficiente dell’individuo il concetto di diade originaria. Si presenta, in questo modo, come un esperimento “microsferologico”, teso a decifrare i piccoli mondi del vincolo di coppia o della partecipazione simbiotica, ovvero a disegnare figure di animazione che, pur non potendo avere forma sferica in termini geometrici, sono assimilate a sfere metaforiche, cioè appunto a bolle.
- See more at: http://www.raffaellocortina.it/sfere-i-bolle#sthash.RJFHcoiZ.dpufLa trilogia Sfere, opera maggiore di Peter Sloterdijk, propone una storia filosofica delle culture umane attraverso una figura, la sfera, che rappresenta il cuore del progetto di razionalizzazione dell’immagine del mondo e dell’uomo nella filosofia classica. Le sfere al centro del progetto indicano più di semplici figure geometriche. La capacità di creare forme sferiche implica sin dalle origini della civiltà umana la possibilità di accedere a costruzioni di senso capaci di orientare l’intera esperienza dell’uomo, nella dimensione dell’intimità e in quella definita dagli orizzonti della civilizzazione. In tale prospettiva, Sfere esprime il tentativo di definire una visione della storia umana e della condizione contemporanea a partire da una teoria dello spazio animato. Il primo volume, Bolle, elabora una filosofia dell’intimità, contrapponendo all’immagine autosufficiente dell’individuo il concetto di diade originaria. Si presenta, in questo modo, come un esperimento “microsferologico”, teso a decifrare i piccoli mondi del vincolo di coppia o della partecipazione simbiotica, ovvero a disegnare figure di animazione che, pur non potendo avere forma sferica in termini geometrici, sono assimilate a sfere metaforiche, cioè appunto a bolle.

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La trilogia Sfere, opera maggiore di Peter Sloterdijk, propone una storia filosofica delle culture umane attraverso una figura, la sfera, che rappresenta il cuore del progetto di razionalizzazione dell’immagine del mondo e dell’uomo nella filosofia classica. Le sfere al centro del progetto indicano più di semplici figure geometriche. La capacità di creare forme sferiche implica sin dalle origini della civiltà umana la possibilità di accedere a costruzioni di senso capaci di orientare l’intera esperienza dell’uomo, nella dimensione dell’intimità e in quella definita dagli orizzonti della civilizzazione. In tale prospettiva, Sfere esprime il tentativo di definire una visione della storia umana e della condizione contemporanea a partire da una teoria dello spazio animato. Il primo volume, Bolle, elabora una filosofia dell’intimità, contrapponendo all’immagine autosufficiente dell’individuo il concetto di diade originaria. Si presenta, in questo modo, come un esperimento “microsferologico”, teso a decifrare i piccoli mondi del vincolo di coppia o della partecipazione simbiotica, ovvero a disegnare figure di animazione che, pur non potendo avere forma sferica in termini geometrici, sono assimilate a sfere metaforiche, cioè appunto a bolle.

Venerdì, 3 ottobre 2014 Affari Italiani

Peter Sloterdijk Sfere II - GlobiTutta la verità del mondo è racchiusa in una sferaL’opera monumentale del filosofo Peter Sloterdijk rilegge l’intera avventura umana attraverso la più suggestiva delle figure geometriche: dalla polis fino all’era globale La prima “bolla” ci fu nell’antichità: mito e trascendenza controllavano le forme sociali


di Antonio Gnoli Repubblica 4.11.14
PETER Sloterdijk è un personaggio insolito. Metamorfico. Lo conobbi una decina di anni fa. Era agli esordi di una popolarità che nel tempo sarebbe cresciuta. L’incontro avvenne nel contesto del bellissimo festival di cinema che Enrico Ghezzi organizzava a Procida. Sloterdijk si aggirava spesso solo. Timido e intimidente. Presentò un documentario su un volo spaziale. Di quelle imprese che si affrontavano negli anni Settanta.


Mi sembrò singolare che un filosofo invece di parlarci di Platone, Aristotele o Kant ci intrattenesse sulle foto della Nasa e sulla stazione spaziale Mir, vista fantasiosamente come una sfera. Quei voli — commentò Sloterdijk — dimostravano come la tecnica era diventata un’entità “trascendente”. Superava, una volta per tutte, i confini che la Terra con la sua conformità rotondeggiante si era da sempre data. Il volo spaziale aveva inoltre sciolto quel nesso gerarchico tra alto e basso di cui la metafisica era stata per lungo tempo garante assoluta.

Ho ritrovato qualche spunto di quella storia nelle parti conclusive di Sfere che esce ora nelle edizioni di Raffaello Cortina in due ponderosissimi volumi (con una intensa introduzione di Bruno Accarino e la cura ottima di Gianluca Bonaiuti). Sempre sul punto di esplodere, per eccesso di immaginazione e di stravaganza, il libro si presenta come una straordinaria nave dei folli. Del resto, la navigazione ha un posto notevole nella riflessione di Sloterdijk. Il quale — sulla falsariga del suo illustre predecessore, Oswald Spengler — prova a riscrivere la storia del mondo occidentale attraverso il nascere e morire delle civiltà delle sfere.
Perché, ci si potrebbe chiedere, Sloterdijk privilegia proprio questa forma geometrica? Nelle sfere, come pure nella trasformazione in globi, in bolle, e in schiuma (l’ultima sostanza caotica che contraddistingue, a quanto pare, la nostra contemporaneità), il filosofo tedesco simboleggia il riprodursi di certi ambienti vitali che fin dall’antichità (si pensi alla casa, al villaggio, ma anche al ventre materno) hanno immunizzato la vita sociale dell’uomo. Ciò che Sloterdijk ci prospetta è una originalissima storia della globalizzazione, di cui conosciamo i recenti effetti, ignorandone l’origine, le scansioni, gli sviluppi nel corso del tempo. La prima globalizzazione, ci avverte Sloterdijk, il mondo antico la realizzò nel controllo che la trascendenza e il mito seppero operare sulle forme sociali. La polis greca fu la prima vera bolla democratica. Il cui spazio politico contrastò quella “scienza del soffio” cui perfino Dio non si sottrasse, almeno da quando decise di animare due esseri che da perfette sfere divennero bolle precarie. Una “catastrofe sferologica”, osserva Sloterdijk, designò la cacciata dal paradiso.
La prima grande globalizzazione, dunque, è un evento che accade sulla scena teologica della creazione del mondo e nella testa di alcuni filosofi, le cui qualità speculative servono a controllare e domare l’impetuosità del reale. Le sfere sono lo spazio ideale che regola l’andamento del mondo, le sue pulsioni, le sue inopportune fragilità. Le sfere, in altre parole, sono un campo di forze circoscritto in grado di proteggere l’uomo da se stesso e dagli altri. Quello spazio, tutto interno, ci dice Sloterdijk, disegnò, a un certo punto, un “cerchio magico”. L’espressione oggi carica di una stanca ovvietà politica, nell’epoca premoderna, diede alla legge dell’intersoggettività — ossia ai rapporti fra gli uomini — la forma dell’incantamento. Perché contro ogni previsione illuministica Sloterdijk vede nell’uomo un essere irrazionale, esposto alla trance, al sonnambulismo, alla possessione. E quando la fascinazione era la regola tra gli uomini, il disincanto rappresentava l’eccezione.
Con l’affermazione del moderno il disincanto da eccezione diventerà il sentimento prevalente. L’uomo non si aspetta più niente che non sia prodotto dalla sua scienza e dalla tecnica. Sloterdijk fa coincidere questo processo di esteriorizzazione con le grandi avventure oceaniche che interesseranno l’Europa a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento. Le traversate, in nome delle scoperte e del commercio, daranno vita alla seconda grande globalizzazione. Grazie alla quale “non sono più i metafisici, bensì i geografi e i navigatori ad avere il compito di disegnare la nuova immagine del mondo”. A costoro verrà affidata la pratica anticontemplativa di ridurre i rischi che ogni grande navigazione, soprattutto transoceanica, presenta. Alle società di assicurazione spetterà il ruolo che un tempo ricoprivano le religioni. La sola metafisica che viene adottata è quella del denaro. E sebbene nel mondo tutto si diversifica e cambia, continuerà a vivere un Dio la cui moneta liturgica saprà tenere insieme anche le cose più diverse.
Nell’età del moderno tutto tende a proiettarsi verso un esterno sconfinato dove possono nascere nuove e provvisorie sfere. Le sole durature, ma oggi agonizzanti, sono gli Stati nazione che proprio in quel periodo fanno la loro comparsa. Per Sloterdijk anche nello spazio post-metafisico della modernità la sfera conserva il compito di proteg- gere l’uomo, ricondurlo a una sorta di idillio materno, in quel ventre dove la nascita ha avuto luogo al riparo da tutto.
Sfere è un libro strano, esuberante, immerso in una specie di liquido barocco. Un libro che rimpiange l’uscita definitiva dalle antiche sfere, dalle antiche case. Il mondo si è ormai trasformato in un’incredibile avventura termica. Fuori incombe e si propaga il freddo raggelante che la modernità con il suo illuminismo ha creato e combattuto con il calore artificiale. «Cosa abbiamo fatto liberando questa terra dal suo sole?» si è chiesto Nietzsche. La tecnica nei suoi processi emancipatori, con le sue potenti accelerazioni novecentesche, è il tentativo di soffocare nella comodità l’interrogativo posto da Nietzsche.
La seconda parte di Sfere si conclude con un capitolo intitolato Air conditioning . L’Occidente, nei suoi sbalzi di temperatura, negli stravolgimenti climatici, non può più fare a meno delle tecniche del freddo e del caldo. «La tradizione di tutti i climi estinti pesa come un incubo sugli stati d’animo dei viventi», osserva minaccioso Sloterdijk. La sferologia di cui egli è inventore e interprete qui trova un punto di contatto con l’ecologia: con le scelte dalle quali dipenderà la salvezza del pianeta. Bisognerà rinunciare ad alcuni privilegi del passato. Siamo, quasi inavvertitamente, passati da un’epoca di grandi azioni a un’epoca di grandi temi.


Vista dal di fuori, da quelle foto satellitari che tanti anni fa il nostro commentava, ci si apre a un nuovo interrogativo di salvezza. Non c’è nulla nella tecnica che non sia già contenuto nella metafisica. Ma se quest’ultima ha fallito come immaginare che l’altra possa farcela? Come poter pensare che l’”aria condizionata” sarà un fattore di salvezza per la razza umana e non la sua definitiva condanna? 



Sloterdijk, critica della ragion sferica 
Dalla madre allo Stato: l’uomo ha bisogno di “bolle” per trovare rassicurazione e proteggersi dai pericoli

Diego Fusaro Tuttolibri 29 11 2014

Peter Sloterdijk è uno di quei filosofi che sanno parlare al grande pubblico, oltrepassando il divario tra pensiero e vita a cui troppo spesso la divisione accademica dei saperi condanna la filosofia. Leggere Sloterdijk significa avvicinarsi alla realtà e non allontanarsene, contrariamente a quanto avviene con la lettura di molti altri suoi colleghi. È questa l’impressione che si ricava anche dal ponderoso studio 
Sfere (vol. I, Bolle, e vol. II, Globi), apparso per i tipi di Raffaello Cortina, egregiamente curato da Gianluca Bonaiuti e con un brillante saggio introduttivo di Bruno Accarino.
Alla base dell’opera vi è l’assunto – già di Cassirer – secondo cui l’uomo è un «animale simbolico». Fin dagli esordi della storia l’uomo crea forme sferiche, e intorno alla sfericità elabora costruzioni di senso mediante le quali rapportarsi al reale. Ciò vale tanto per la dimensione individuale quanto per quella collettiva, legata al processo di civilizzazione. Le «sfere», le «bolle», i «globi» si pongono come i contenitori mediante i quali l’uomo (inteso sia come individuo empirico, sia come genere) pensa se stesso nel mondo, sempre alla ricerca di un «involucro» che – dal ventre materno allo Stato moderno – lo protegga e lo metta al sicuro rispetto ai pericoli provenienti dall’esterno: «Le sfere sono creazioni di spazi dotati di un effetto immunosistemico per creature estatiche su cui lavora l’esterno».
Il primo volume, Bolle, si occupa dell’intimità, proiettando il tema sferiologico nello spazio minimo dell’io individuale. Dal canto suo, il secondo volume, Globi, riprende il tema, declinandolo nel macrospazio della metafisica della sfera nell’ambito della filosofia europea classica. Custodendo impressa nella memoria l’esperienza originaria del ventre materno, l’uomo procede, lungo il tragitto della sua avventura storica, alla ricerca di una sicurezza e di una protezione analoghe a quelle legate a quell’esperienza, fino all’odierna frattura insanabile costituita dalla mondializzazione.
Sfere pare muoversi entro il medesimo orizzonte di senso tracciato nell’opera a cui è legato il successo di Sloterdijk, la Critica della ragion cinica. L’opera del 1983 delineava come cifra della condizione postmetafisica l’abbandono del «fare» in favore del «lasciar essere», con annessa rinuncia a ogni progetto trasformativo e a ogni possibile perseguimento di ulteriorità nobilitanti rispetto a un mondo riconosciuto come intrasformabile. Ciò si determinava, in concreto, nell’opera del 1983 come passaggio da una «ragion pratica», non arresa alle logiche dell’esistente, alla «ragion cinica» del disincantamento.
In Sfere, il dominio della dimensione del «lasciar essere» si presenta con uguale intensità, sia pure diversamente declinato: Sloterdijk adombra come nel mondo moderno abbiano preso il sopravvento l’assoluta esteriorità e l’estraneità sulla familiarità e sulla vicinanza. L’interiorità è stata sconfitta, con annesso trionfo di quello spaesamento generalizzato in cui pare compendiarsi, in fondo, il senso della cosiddetta globalizzazione. Quest’ultima trasfigura la realtà tutta in un’unica immensa sfera che, anziché produrre stabilità e protezione dall’esterno, genera spaesamento e perdita di senso, rendendo impossibile la stessa dialettica sferiologica tra interno ed esterno. Tutto è proiettato nella dimensione della mera esteriorità.
Ne segue che, nel tempo del «mondo dentro il capitale», gli uomini non possono più costruire alcunché a partire dalla propria intimità e debbono di necessità fare i conti con il «principio estraneità», ossia con il fatto che sono l’esterno e l’estraneo a dettare legge. Il tempo dell’odierno sradicamento planetario è massimamente distante rispetto all’esperienza originaria del ventre materno. Alla più che lecita domanda «che fare?», Sfere prospetta una risposta che è pienamente coerente con la ragion cinica: non si dà oggi alcuna possibilità, per Sloterdijk, di imboccare una strada sicura che, come quelle di Hegel e Marx, ci riconduca a casa dopo il transito per le oscure regioni dell’estraneità, e che ci permetta di reinstaurare «la sicurezza immaginaria delle sfere, divenuta ora impossibile». 
La ragion cinica al centro di Sfere finisce, così, per riproporre un modulo particolarmente in voga nel nostro tempo, la critica spietata delle contraddizioni del cosmo tecnico-capitalistico e, insieme, il riconoscimento dell’intrasformabilità del pur deplorato ordine del mondo. A emergere in primo piano è il «principio realtà», con la sua coazione all’adattamento: «Il mondo non va né interpretato né cambiato: esso va sopportato», ci ricordava la Critica della ragion cinica.
Non è nelle soluzioni che deve essere rintracciata la parte più convincente di Sfere né, in generale, della riflessione di Sloterdijk: la si trova, invece, nella sua capacità di esplorare controcorrente la storia occidentale e i sistemi di pensiero, oltre che – avrebbe detto Benjamin – nella sua valenza di fecondo «segnalatore d’incendio». Sfere fa emergere con grande limpidezza di profilo e con una capacità diagnostica rara, nell’odierno tempo dell’idiotismo specialistico, le contraddizioni dell’oggi: delinea con incredibile precisione la mappa del presente, lasciandoci il compito di pensare una via di fuga rispetto alle sue miserie. 


Peter Sloterdijk è uno di quei filosofi che sanno parlare al grande pubblico, oltrepassando il divario tra pensiero e vita a cui troppo spesso la divisione accademica dei saperi condanna la filosofia. Leggere Sloterdijk significa avvicinarsi alla realtà e non allontanarsene, contrariamente a quanto avviene con la lettura di molti altri suoi colleghi. È questa l’impressione che si ricava anche dal ponderoso studio 
Sfere
(vol. I, 
Bolle
, e vol. II, 
Globi
), apparso per i tipi di Raffaello Cortina, egregiamente curato da Gianluca Bonaiuti e con un brillante saggio introduttivo di Bruno Accarino.

Alla base dell’opera vi è l’assunto – già di Cassirer – secondo cui l’uomo è un «animale simbolico». Fin dagli esordi della storia l’uomo crea forme sferiche, e intorno alla sfericità elabora costruzioni di senso mediante le quali rapportarsi al reale. Ciò vale tanto per la dimensione individuale quanto per quella collettiva, legata al processo di civilizzazione. Le «sfere», le «bolle», i «globi» si pongono come i contenitori mediante i quali l’uomo (inteso sia come individuo empirico, sia come genere) pensa se stesso nel mondo, sempre alla ricerca di un «involucro» che – dal ventre materno allo Stato moderno – lo protegga e lo metta al sicuro rispetto ai pericoli provenienti dall’esterno: «Le sfere sono creazioni di spazi dotati di un effetto immunosistemico per creature estatiche su cui lavora l’esterno».
Il primo volume, Bolle, si occupa dell’intimità, proiettando il tema sferiologico nello spazio minimo dell’io individuale. Dal canto suo, il secondo volume, Globi, riprende il tema, declinandolo nel macrospazio della metafisica della sfera nell’ambito della filosofia europea classica. Custodendo impressa nella memoria l’esperienza originaria del ventre materno, l’uomo procede, lungo il tragitto della sua avventura storica, alla ricerca di una sicurezza e di una protezione analoghe a quelle legate a quell’esperienza, fino all’odierna frattura insanabile costituita dalla mondializzazione.
Sfere pare muoversi entro il medesimo orizzonte di senso tracciato nell’opera a cui è legato il successo di Sloterdijk, la Critica della ragion cinica. L’opera del 1983 delineava come cifra della condizione postmetafisica l’abbandono del «fare» in favore del «lasciar essere», con annessa rinuncia a ogni progetto trasformativo e a ogni possibile perseguimento di ulteriorità nobilitanti rispetto a un mondo riconosciuto come intrasformabile. Ciò si determinava, in concreto, nell’opera del 1983 come passaggio da una «ragion pratica», non arresa alle logiche dell’esistente, alla «ragion cinica» del disincantamento.
In Sfere, il dominio della dimensione del «lasciar essere» si presenta con uguale intensità, sia pure diversamente declinato: Sloterdijk adombra come nel mondo moderno abbiano preso il sopravvento l’assoluta esteriorità e l’estraneità sulla familiarità e sulla vicinanza. L’interiorità è stata sconfitta, con annesso trionfo di quello spaesamento generalizzato in cui pare compendiarsi, in fondo, il senso della cosiddetta globalizzazione. Quest’ultima trasfigura la realtà tutta in un’unica immensa sfera che, anziché produrre stabilità e protezione dall’esterno, genera spaesamento e perdita di senso, rendendo impossibile la stessa dialettica sferiologica tra interno ed esterno. Tutto è proiettato nella dimensione della mera esteriorità.
Ne segue che, nel tempo del «mondo dentro il capitale», gli uomini non possono più costruire alcunché a partire dalla propria intimità e debbono di necessità fare i conti con il «principio estraneità», ossia con il fatto che sono l’esterno e l’estraneo a dettare legge. Il tempo dell’odierno sradicamento planetario è massimamente distante rispetto all’esperienza originaria del ventre materno. Alla più che lecita domanda «che fare?», Sfere prospetta una risposta che è pienamente coerente con la ragion cinica: non si dà oggi alcuna possibilità, per Sloterdijk, di imboccare una strada sicura che, come quelle di Hegel e Marx, ci riconduca a casa dopo il transito per le oscure regioni dell’estraneità, e che ci permetta di reinstaurare «la sicurezza immaginaria delle sfere, divenuta ora impossibile». 
La ragion cinica al centro di Sfere finisce, così, per riproporre un modulo particolarmente in voga nel nostro tempo, la critica spietata delle contraddizioni del cosmo tecnico-capitalistico e, insieme, il riconoscimento dell’intrasformabilità del pur deplorato ordine del mondo. A emergere in primo piano è il «principio realtà», con la sua coazione all’adattamento: «Il mondo non va né interpretato né cambiato: esso va sopportato», ci ricordava la Critica della ragion cinica.
Non è nelle soluzioni che deve essere rintracciata la parte più convincente di Sfere né, in generale, della riflessione di Sloterdijk: la si trova, invece, nella sua capacità di esplorare controcorrente la storia occidentale e i sistemi di pensiero, oltre che – avrebbe detto Benjamin – nella sua valenza di fecondo «segnalatore d’incendio». Sfere fa emergere con grande limpidezza di profilo e con una capacità diagnostica rara, nell’odierno tempo dell’idiotismo specialistico, le contraddizioni dell’oggi: delinea con incredibile precisione la mappa del presente, lasciandoci il compito di pensare una via di fuga rispetto alle sue miserie.

La mappa che rotola
«Nes­sun ani­male crea una sfera», solo l’uomo. Nel De Ludo Globi, ter­mi­nato nel 1463, anno che ne pre­cede la morte, Nicolo Cusano mette in scena un dia­logo su un gioco – così afferma — «sco­perto da poco e da tutti compreso».
Non è un gioco qual­siasi, tutt’altro: è ludus globi, il gioco della palla o della sfera. Dise­gnati a terra, nove cer­chi con­cen­trici deli­mi­tano il campo su un piano cir­co­lare. Al cen­tro, la figura di Cri­sto. La palla, lan­ciata dai par­te­ci­panti al gioco, si muo­verà — così Gio­vanni, figlio del duca di Baviera, uno dei dia­lo­ganti che Cusano mette in scena nell’operetta filo­so­fica — «come dalla tene­bra alla luce», per­cor­rendo i nove cer­chi. Dove si fer­merà la sfera? In quello esterno, che è segno di caos e imper­fe­zione? O nel secondo cer­chio, che è quello della virtù ele­men­tare? O nel terzo, che deli­mita la virtù mine­rale, a cui seguono quello della virtù vege­ta­tiva, della virtù sen­si­bile, della virtù imma­gi­na­tiva, della virtù razio­nale? O, invece, arri­verà al cer­chio della virtù dell’intelletto – il più vicino al cen­tro della per­fe­zione e al con­tempo il più distante dal caos esterno? Ogni corona cir­co­lare ha un pun­teg­gio e il pun­teg­gio per la vit­to­ria è fis­sato da Cusano nel numero trentaquattro.
Una palla segna la cir­co­stanza e sus­sume il rischio di fal­lire ma, nella com­plessa rifles­sione di Cusano, è pro­prio in que­sto scarto acci­den­tato, in que­sta ine­vi­ta­bile per­dita di con­trollo del gio­ca­tore sul gioco stesso e sulle cir­co­stanze che qual­cosa accade e il gioco si com­pie. Non è un caso che la palla sia detta, nel latino di Cusano, glo­bus, sfera. Glo­bus è la sfera rimanda alla spe­cu­la­zione sull’ultima sfera dell’universo, mossa da un moto per­pe­tuo dove la sfera stessa rap­pre­senta il cen­tro. Ma la palla del gioco del car­di­nale Cusano non è per­fet­ta­mente sfe­rica. È imper­fetta, segna in tal modo una tra­iet­to­ria ine­vi­ta­bil­mente eccen­trica: da un lato, infatti, è con­cava. Dall’altro, con­vessa. La si direbbe una mezza sfera — ma la per­fe­zione non attiene agli umani se non come aspi­ra­zione — che imprime al movi­mento un anda­mento a spi­rale e, nell’incedere eli­coi­dale con­se­gna il rap­porto tra infi­nito e finito, ossia tra l’irraggiungibile cen­tro del gioco e i cer­chi che vi si avvi­ci­nano, a quell’accadere inin­ten­zio­nale che Cusano chiama non a caso for­tuna.
Ordine improv­vi­sato
La natura non fa salti, ma una sfera imper­fetta sì e nel mondo inter­me­dio, tra l’esterno e il cen­tro, il tra­gitto dall’imperfetto al per­fetto è fra­sta­gliato di rischi di matrice onto­lo­gica, prima ancora che fisica. Scrive Cusano che, que­sto, «è un gioco che tutti gio­cano volen­tieri, per­ché offre un diver­ti­mento pro­lun­gato dovuto al pro­ce­dere diverso e mai sicuro della palla, in quanto mai accade che la palla pro­ceda in modo sicuro secondo l’ordine che ci siamo pro­po­sti». La matrice spe­cu­la­tiva del gioco e del rischio di que­sto «mai sicuro» è tipi­ca­mente umana. Nes­sun ani­male «crea una sfera», sostiene infatti Cusano. Ma se nes­sun ani­male può creare una sfera, com­menta Peter Slo­ter­dijk, nel secondo tomo delle sue Sfere, da poco rie­dite da Cor­tina, «men che meno è in grado di gio­care e pren­dere la mira con una sfera». Per il filo­sofo tede­sco la glo­ba­liz­za­zione — che chiama anche «sfe­ro­po­iesi» — avanza come la sfera lan­ciata sul piano dai gio­ca­tori imma­gi­nati da Cusano. La sfe­ro­po­iesi, per il filo­sofo tede­sco, lungi dall’essere un evento segnato dall’epoca e, come tale, con­se­gnato alla fase ter­mi­nale del XX secolo, è piut­to­sto «l’avvenimento fon­dante del pen­siero euro­peo, che da 2500 anni non smette di pro­vo­care scon­vol­gi­menti nelle con­di­zioni di vita e di pen­siero». La glo­ba­liz­za­zione, come nel coup de dés di Mal­larmé get­tato in mare aperto («ogni pen­siero emette un lan­cio di dadi»), con il lan­cio della palla di Cusano, su cui Slo­ter­d­jik ampia­mente si sof­ferma, è una aper­tura in cui si insi­nua il pen­siero.
Come fra il con­cavo e il con­vesso della semi­sfera di Cusano si pro­duce un attrito, nella sfe­ri­cità del monso que­sto attrito tal­volta coin­cide col pen­siero stesso, come più volte riba­dito da quel Max Bense a più riprese citato da Slo­ter­dijk, che ne legge un impor­tante pro­clama gio­va­nile alla stre­gua di un appello all’«etica intel­let­tuale della glo­ba­liz­za­zione».
«Capi­sce la glo­ba­liz­za­zione», osserva l’autore, «solo chi si apre all’idea che la figura del pen­siero della sfera è una que­stione seria dal punto di vista onto­lo­gico e, quindi, anche tec­nico e poli­tico. Pen­sare signi­fica: gio­care un ruolo nella sto­ria di que­sta seris­sima que­stione. Que­sta sto­ria seria è la sto­ria dell’essere». Qui, per Slo­ter­dijk, essere non è in rap­porto a un tempo qual­siasi o al tempo esi­sten­ziale per la morte o in vista della morte. È «il tempo che ci vuole per com­pren­dere che cosa sia lo spa­zio: la sfera più reale di ogni altra cosa».
Con l’irruzione nella vita dell’uomo di ciò che i greci chia­ma­vano sphaira e i latini glo­bus, ter­mina per Slo­ter­dijk il tempo della con­fu­sione e delle sto­rie disperse in fila­menti di tempo. L’uomo che pensa è già nella post-storia. La com­plessa e mag­ma­tica ope­ra­zione di Slo­ter­dijk che a par­tire dal 1998 ha preso corpo nella tri­lo­gia di Sphä­ren (Bolle risale al 1998, Globi al 1999 e Schiume al 2004) si con­fi­gura come una lunga teo­ria sfe­ro­cen­trica che ha al pro­prio cuore un puc­tum dolens non così paci­fico e non così certo: la con­di­zione per cui lo spa­zio ha (o avrebbe) assor­bito il tempo. In que­sto senso, Slo­ter­dijk legge l’intera sto­ria della civiltà occi­den­tale attra­verso stadi di un com­ples­sivo pro­cesso di glo­ba­liz­za­zione che, oggi, è giunto a uno sta­dio o con­di­zione ter­mi­nale: lo sta­dio del denaro, dove in luogo di cara­velle e navi lan­ciate su mari alla ricerca di terre inco­gnite abbiamo il movi­mento del denaro lan­ciato sulla super­fi­cie del globo ter­rac­queo.
Tra cosmo e terra
Gli uomini, come «ani­mali che creano e abi­tano la sfera» sono da tempo imme­more chia­mati alla sfida della «geo­me­triz­za­zione dello smi­su­rato». Per que­sto, anche dinanzi alle sfide di uno smi­su­rato che (appa­ren­te­mente?) deforma ogni geo­me­triz­za­zione, la sfida, annota Slo­ter­dijk resta quella di «cogliere il pro­prio spa­zio espri­men­dolo nel con­cetto».
Delle tre forme spe­ci­fi­che della glo­ba­liz­za­zione indi­vi­duate da Slo­ter­dijk, la prima è quella della fisica antica, «l’illuminismo cosmo­lo­gico dei pen­sa­tori greci», che rac­chiude il cosmo in una sfera o in una mol­te­pli­cità di sfere. Si pensi, qui, all’immagine del cele­bre mosaico di Torre Annun­ziata, risa­lente al I secolo a. C. che ritrae sette sapienti in un con­sesso filo­so­fico attorno alla sfera, là dove, attra­verso con­tem­pla­zione e pen­siero, culto e discorso –ed è una delle raris­sime volte in cui que­sta fusione avverrà in forme felici — si fon­dono l’uno con l’altro, senza osta­co­larsi a vicenda. La seconda, coin­cide con la crisi della prima e sfo­cia nella glo­ba­liz­za­zione ter­re­stre del XVI secolo, che Slo­ter­dijk legge anche come crisi del modello aristotelico-platonico e con la crisi di cui, in qual­che modo, pro­prio il De Ludo Globi di Cusano si fa lucido anti­ci­pa­tore. L’età moderna legge così il mondo attra­verso la mappa. Ma, men­tre rilegge il mondo, lo ricon­fi­gura attra­verso dina­mi­che espan­sive di sco­perta, con­qui­sta e potenza che danno luogo a una «grande nar­ra­zione» che si con­cre­tizza nella pas­sio per le Sto­rie universali.
La terza mani­fe­sta­zione del pro­cesso di glo­ba­liz­za­zione si rende evi­dente ai nostri giorni, dove la cir­cum­na­vi­ga­zione del globo, da sem­pre affian­cata dalla cir­co­la­zione del denaro, si trova scal­zata dal denaro stesso nelle sue forme di flusso imma­te­riali e dall’ipercircolazione delle imma­gini. Flussi di denaro e di capi­tale sovra­stano i luo­ghi, li com­pri­mono. La sfera è vuota, la per­fe­zione non è più loca­liz­zata al cen­tro, ma – even­tual­mente – fuori dal tutto.
Dall’Ura­nosKosmos con­tem­plato, come matrice di piena bel­lezza, dei geo­me­tri e dei filo­sofi anti­chi si passa alla glo­ba­liz­za­zione in Età Moderna che uni­fica la terra, attra­verso la nuova per­cor­ri­bi­lità dei mari. Que­sta seconda glo­ba­liz­za­zione sarebbe «cosa da car­to­grafi» e «avven­tura per mari­nai», dive­nendo in seguito mate­ria di pre­oc­cu­pata atten­zione per eco­no­mi­sti, cli­ma­to­logi o «altri esperti in que­stioni acci­den­tate e con­fuse».
Sono loro, non più i meta­fi­sici a dover ridi­se­gnare il pro­filo del mondo. Si arriva così all’inizio di quella che, a torto, con­si­de­re­remmo la «vera» glo­ba­liz­za­zione, ma ne costi­tui­sce caso­mai l’epifenomeno: la glo­ba­liz­za­zione elet­tro­nica avvia­tasi alla fine della Seconda Guerra Mon­diale. Qui non sono più uomini, ma segni e segnali a sol­care il mondo. Il requiem suona, ma non per i media, bensì per il mes­sag­gio. La terra vista dallo spa­zio con­cre­tizza nella dura evi­denza del reale ciò che già Colombo aveva intuito: «nel rotondo spa­zio ter­re­stre tutti i punti hanno lo stesso valore». Ed è qui che, secondo Slo­ter­dijk, il pen­siero spa­ziale della Moder­nità subi­sce una radi­cale e irre­ver­si­bile neu­tra­liz­za­zione. Improv­vi­sa­mente si com­pren­dono le parole di Hei­deg­ger: «il tratto fon­da­men­tale del mondo moderno è la con­qui­sta del mondo risolto in imma­gine». Dove il ter­mine imma­gine signi­fica «con­fi­gu­ra­zione della pro­du­zione rap­pre­sen­tante».
Ciò che alla fine del XX secolo veniva ancora magni­fi­cato o mitiz­zato e, oggi, viene sem­pre più scre­di­tato anche da magni­fi­ca­tori e mitiz­za­tori dell’altro ieri sotto il nome di «glo­ba­liz­za­zione», nella let­tura di Slo­ter­dijk non rap­pre­senta affatto una novità. Caso­mai è «momento tar­divo e con­fuso di eventi la cui vera dimen­sione diverrà visi­bile quando si com­pren­derà l’epoca moderna, in tutte le sue con­se­guenze, come pas­sag­gio dalla medi­ta­tiva spe­cu­la­zione sulla sfera alla prasi del suo rile­va­mento. (…) Che cosa signi­fi­chi dav­vero glo­ba­liz­za­zione ter­re­stre si rende evi­dente se in essa si rico­no­sce la sto­ria di un’alienazione spa­zio­po­li­tica che sem­bra irri­nun­cia­bile per chi vince, insop­por­ta­bile per chi perde e ine­vi­ta­bile per entrambi».
Il cen­tro è irra­giun­gi­bile
La sfera, che per i greci era sim­bolo saturo, oggi è segno di un tempo vuoto. Nell’aprile del 1777, rivol­gen­dosi alle gene­ra­zioni future, un gio­vane Goe­the evocò una dop­pia pie­nezza dise­gnando facendo eri­gere per il giar­dino della sua casa, a Wei­mar, un «Altare alla buona for­tuna». Una sfera in pie­tra in equi­li­brio su un cubo – que­sto l’altare di Goe­the — sem­bra rac­chiu­dere, tra due sim­boli di tota­lità, un enigma in costante aper­tura. Se Cusano poteva ancora scri­vere: «ho trac­ciato nel cen­tro del campo il cir­colo nel cui cen­tro è il seg­gio del re, ed il suo regno è il regno della vita», che ne sarà — si chiede Slo­ter­dijk con Goe­the — della sfera in un’epoca senza re? Che cosa ne sarà dei re in un’epoca senza sfera? Su que­sta alie­na­zione spazio-politica il discorso si fa ulte­rior­mente com­plesso. Nella sua avan­zata, infatti, la glo­ba­liz­za­zione ha fatto sal­tare strato per strato tutti gli invo­lu­cri in cui la vita si è rin­chiusa in fun­zione auto­pro­tet­tiva. La glo­ba­liz­za­zione ter­re­stre — segnata dal ritorno a quello che, dopo la prima cir­cum­na­vi­ga­zione, nel 1522, verrà guar­dato come il «Vec­chio Mondo» — ha fatto esplo­dere l’esterno in ogni punto, dando luogo in età moderna a quella che Slo­ter­dijk chiama «cata­strofe delle onto­lo­gie locali»: vil­laggi, città pro­tette da alte mura, intere regioni diven­gono punti sulla super­fi­cie della sfera, da «pae­saggi locali» si tra­sfor­mano in tran­siti di scon­fi­nati traf­fici di capi­tale «che qui com­pie i pas­saggi della sua quin­tu­plice meta­mor­fosi in merce, denaro, testo, imma­gine e noto­rietà». Dalla sfera spe­cu­la­tiva dei filo­sofi greci, «forma di pro­te­zione all’interno», si passa, nel moderno, a un globo che non offre più pro­te­zione né riparo. La sfera è abi­ta­bile solo à l’extérieur.
Non vi è altro che l’aperto, nes­sun Welt­in­ne­raum, nes­suno spa­zio interno del mondo. Solo un fuori. Quel fuori di cui già i gio­ca­tori di Cusano face­vano espe­rienza, pra­ti­cando l’irraggiungibile cen­tro della sfera.

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