domenica 9 novembre 2014

Piketty già digerito: da teorico del keynesismo globale a star del sistema dei media


Era così innocuo che è già stato degradato dai succhi gastrici [SGA].

Piketty a Downton Abbey 

«La serie tv che guardo ci illude: la disuguaglianza non è del passato» 

Domenica 9 Novembre, 2014 LA LETTURA © RIPRODUZIONE RISERVATA

L’appuntamento con Thomas Piketty è al ristorante del Grand Hotel et de Milan, all’imbocco di via Monte Napoleone, cuore spirituale del lusso milanese e globale. Non il posto perfetto per incontrare l’economista di cui tutti parlano per gli studi sul capitalismo della disuguaglianza. 
Piketty, 43 anni, non sembra però curarsene. Sobrio come uno studioso della East Coast americana — ha insegnato da assistente al Mit di Boston — e per niente aria da accademico francese (insegna alla École d’économie de Paris che ha contribuito a fondare), si adegua ormai a tutto: da un anno vive in un tourbillon di eventi e di luoghi che probabilmente non ha cercato ma ai quali prova volentieri ad adattarsi. All’improvviso, grazie a Il Capitale nel XXI Secolo (Bompiani), libro celebrato da premi Nobel di gran peso, è diventato una star internazionale. 
Essere una stella al giorno d’oggi, però, vuole dire che la gente non va per il sottile. L’economista-star non è diverso dalla rock-star: chi vede nel suo lavoro un inno contro la disuguaglianza vorrebbe il suo ritratto sulla T-shirt; i critici che giudicano la sua musica stonata metterebbero il disco in soffitta, tra le marcette dimenticate della sinistra Ventesimo Secolo. Piketty, però, è più di una star globale. Il suo libro è avviato a superare il milione di copie vendute: siamo già a 500 mila solo in inglese, in Corea del Sud ha la vendita pro-capite più alta, l’Europa (Francia a parte) lo sta ricevendo ora, il prossimo passo sarà la Cina. Ma il professore parigino è più articolato delle etichette che gli sono state appiccicate nell’irresistibile ascesa e durante il tour mondiale, in corso, nel quale presenta il suo Capitale . 
Senza cravatta, intenso, mentre aspetta il tonno in crosta e beve acqua gasata, dice che chiamarlo marxista «è stupido. Nel 1989, quando cadde il Muro di Berlino, avevo 18 anni. Poco dopo andai a Mosca, visitai l’Europa dell’Est e vidi i disastri di quei sistemi. Mai tentato dal comunismo. Direi anzi che faccio parte della prima generazione post-Guerra fredda». Che, in effetti, è la prima generazione a dover vivere nelle confusioni destra/sinistra, liberale/statalista, keynesiano/scuola austriaca e a dover innovare le categorie per definirsi. 
Piketty dice di essere liberale e radicale. Non nel senso pre-Guerra fredda ma a modo suo. «Credo nel capitalismo, nei mercati aperti e nella proprietà privata. Mi considero liberale — spiega mentre nei tavoli attorno banchieri e avvocati discutono probabilmente di affari privatissimi — e penso che la proprietà privata sia parte della nostra libertà personale. Ma credo anche nell’importanza delle leggi e nella necessità della tassazione progressiva del capitale. Sono radicale su due cose: nell’essere liberale sui diritti di proprietà e nel credere nella forza della tassazione progressiva». 
Come quasi ogni economista che si è formato in America, non pensa affatto alla nazionalizzazione delle imprese. Ma non ha nemmeno troppa fiducia nelle politiche antitrust che potrebbero opporsi alla creazione di monopoli e rendite nell’economia. La chiave, quasi un’ossessione, a suo parere è invece, appunto, la tassazione progressiva del capitale. Per il bene del capitalismo, il quale, salvo periodi eccezionali, secondo i suoi calcoli aumenta per meccanismi intrinseci le disuguaglianze, oggi come ieri. 
«La Lettura» gli chiede se, a proposito, ha seguito Downton Abbey , la serie televisiva ambientata in una tenuta dello Yorkshire all’inizio del secolo scorso, che racconta le vite di una famiglia aristocratica, proprietaria del luogo, e quelle della servitù che ci lavora. «Sì, interessante — commenta lasciando il tonno, che intanto è arrivato, a raffreddare —. Downton Abbey commette però un errore. Fa credere che quella disuguaglianza sia una cosa del passato, legata all’aristocrazia della terra. Ma non è così. La moderna rivoluzione industriale non ha cambiato a sufficienza la distribuzione della ricchezza. L’ineguaglianza di base non si è ridotta di molto». 

Forse nelle statistiche è come dice il professore, anche se quelle, tante, che ha citato nel suo Capitale sono state contestate. Lo stato di servitù raccontato da Downton Abbey , però, oggi non esiste più, ci sono molti meno poveri e la rivoluzione industriale ha creato una vasta classe media. Il punto che interessa all’economista, però, è che la disuguaglianza è pericolosa. Non in assoluto. «Non ho problemi con qualche misura e forma di ineguaglianza — dice — ma sopra a un certo livello diventa un limite per la crescita economica. Riduce la mobilità sociale». E soprattutto — aggiunge — può diventare un problema per la democrazia se prevale un senso di ingiustizia: oggi non è questa la situazione in Europa «ma gli Stati Uniti ci sono vicini». 
La soluzione di Piketty, dunque, è la tassazione progressiva del capitale per ridistribuire la ricchezza: aliquota zero fino a un milione, l’1% sulla frazione di patrimonio da uno a cinque milioni, 2% sulla frazione superiore a 5 milioni. Si può discutere sulle aliquote, ma la logica del professore francese è questa. Tra l’altro — qui è il raccoglitore di dati che parla — questa tassa patrimoniale globale aiuterebbe a conoscere la reale consistenza di patrimoni e ricchezze, «mentre oggi è triste doversi affidare alle classifiche di “Forbes”». 
A un certo punto, da giovane, Piketty aveva pensato di restare a insegnare al Massachusetts Institute of Technology. «Se il Mit fosse stato a Manhattan — confessa — forse l’avrei fatto. Ma tra Boston e Parigi ho scelto Parigi». Probabilmente per la felicità delle tre figlie teenager. Ora nella capitale francese contribuisce anche alle politiche dei socialisti al governo. Dice che il presidente Hollande dovrebbe essere più coraggioso nelle riforme, per esempio in quella delle pensioni, ma soprattutto dovrebbe proporre istituzioni europee più integrate tra alcuni Paesi, «per mettere in comune certe politiche, per esempio la tassazione sulle società». Invece di «temere l’Unione politica, Francia e Italia dovrebbero proporre nuove istituzioni per stabilire livelli comuni di deficit e di investimenti». 
Le regole rigide volute dalla Germania — «una politica che nessun economista, nemmeno tedesco, sostiene più», si avventura a dire — «non funzionano e non funzioneranno mai. Sono un disastro che fa odiare la Ue ai cittadini». Al momento del caffè, Piketty dice che «in America gli economisti sono troppo sicuri di se stessi». In effetti, i Nobel Paul Krugman, Joseph Stiglitz e con loro Martin Wolf (inglese del «Financial Times») sono i grandi direttori dell’orchestra pro spesa pubblica che oggi critica le politiche di rigore in Europa e ha rilanciato la discussione sul ruolo dell’ineguaglianza nell’economia. Ma sono anche gli stessi che, con le loro recensioni al Capitale nel XXI Secolo , hanno contribuito a fare di Piketty una star. 
Gli chiediamo se esista un partito di Krugman, Stiglitz e Piketty. «Non so se sia un partito», risponde: se però lo fosse vorrebbe che ne facesse parte anche Robert Solow, un altro premio Nobel, grande vecchio dell’economia che ha apprezzato pubblicamente il suo lavoro. 
Il pranzo è finito, l’economista si alza, saluta — sorriso timido, non da classe dirigente tipo Downton Abbey — ed esce dal Grand Hotel, verso le luci di Monte Napoleone. Il tourbillon della disuguaglianza è in pieno dispiegamento: economista o rock-star, dopo l’America, l’Europa e la Cina l’aspettano.

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