Il premier commenta così la decisione di Cgil e Uil di dichiarare lo sciopero generale. «La Camusso? È come Salvini»
“Una scissione della sinistra? Il Paese non la capirebbe”
intervista di Francesca Schianchi La Stampa 20.11.14
Roma «Noi non siamo dei signor no. Siamo quelli che, gelosi delle proprie idee, vogliono lavorare testardamente per rafforzare sempre più i provvedimenti del governo e vincere, insieme, la sfida del cambiamento: lo abbiamo fatto con il Jobs Act e lo faremo con la legge di stabilità». Quando dice «noi», il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina parla di Area riformista, quella parte della minoranza Pd guidata dal capogruppo Speranza che si è riunita sabato scorso a Milano.
Quindi siete soddisfatti del Jobs Act?
«Il mio è un giudizio positivo: l’ho sempre considerato un’opportunità, e ora, con il lavoro fatto in Commissione Lavoro alla Camera, è ulteriormente migliorato. È la prova che i provvedimenti del governo con il contributo del Parlamento possono uscire rafforzati».
Il suo collega Fassina dice invece che verrà data libertà di licenziamento…
«Non condivido il giudizio di Fassina. Grazie al lavoro fatto alla Camera si precisa meglio la nuova disciplina dell’articolo 18 che, ricordo, era già stato cambiato dalla Fornero».
Ma come può piacere a voi sinistra del Pd un testo che soddisfa Sacconi e, parole sue, supera l’articolo 18?
«Il Jobs Act uscito dal Senato andava migliorato, e la Camera lo sta facendo anche sull’articolo 18. Noi abbiamo chiesto e ottenuto che le disposizioni finali della direzione Pd fossero accolte pienamente, con una tipizzazione delle fattispecie, che verrà fatta nei decreti attuativi. L’art. 18 è già stato cambiato dal governo Monti, ora si trattava di risolvere nodi interpretativi rimasti aperti, e lo stiamo facendo con equilibrio. Io credo che come minoranza dobbiamo dibattere e portare avanti le nostre idee: poi, quando si ottengono risultati, dobbiamo riconoscerli e valorizzarli».
Sul Jobs Act avete portato a casa risultati?
«Assolutamente sì. Il Jobs Act è la prova che anche chi si riconosce in un’area di minoranza nel Pd può dare il proprio contributo per migliorare i provvedimenti. E così andremo avanti anche sulla legge di stabilità».
Cosa bisogna cambiare della stabilità?
«Direi che si possono rafforzare alcuni obiettivi nel solco delle scelte fatte. Ad esempio, vorremmo ampliare le misure di sostegno agli investimenti delle piccole e medie imprese. Abbiamo posto il tema di una revisione del bonus bebè, e bene ha fatto il governo ad aprire a una sua riorganizzazione. Ancora, è importante avere più risorse per gli ammortizzatori sociali».
Una parte della minoranza Pd è molto più critica verso i provvedimenti del governo. Torna l’ipotesi di una scissione?
«Lo escludo. E se guardo agli interessi dell’Italia e del Pd, penso che uno scenario del genere non verrebbe proprio capito».
Giudizi severi arrivano dai sindacati: si allarga alla Uil il fronte dello sciopero generale.
«Ho il massimo rispetto per ogni mobilitazione sindacale. Quando sei davanti a scelte importanti come queste, ciascuno si prende le proprie responsabilità. La dialettica ci sta, purché non si ecceda nei toni e non si chiuda il confronto».
Apre un nuovo fronte di critica al governo anche il ricorso del Cda Rai…
«Un bel boomerang per la Rai: in un momento come questo, mi sembra giusto che anche una realtà importante come la Tv pubblica concorra agli obiettivi di risparmio. Credo che questo ricorso sia un errore e rischi di non essere proprio capito dai cittadini».[f. sch.]
Pensato per il monocameralismo il nuovo sistema di voto dovrà essere applicabile anche per la Camera Alta
di Stefano Folli Repubblica 20.11.14
COME nella favola di Andersen, qualcuno ha detto che “il re è nudo”. In questo caso è nudo il progetto di riforma elettorale, dal momento che l’ex presidente della Corte Costituzionale, Silvestri, ha ricordato come la nuova legge, quando sarà approvata, dovrà essere applicabile anche al Senato. Ovvia la ragione: siamo tuttora in un regime bicamerale.
La materia è astrusa, ma siamo arrivati al punto in cui la propaganda deve lasciare il campo al realismo. Altrimenti, a furia di approssimazioni successive, si finisce nel classico vicolo cieco. Ed è merito di Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama e relatrice della legge di riforma, avere subito accolto il rilievo di Silvestri, ammettendo che si tratta di un aspetto che il Parlamento non può ignorare.
In sintesi, l’ipotesi di modello elettorale già approvato dalla Camera e ora in istruttoria al Senato (l’Italicum) è immaginato per un sistema monocamerale. Presuppone cioè che il Senato sia trasformato, perdendo il potere costituzionale di votare la fiducia ai governi e di approvare le leggi su un piede di parità con Montecitorio. Tuttavia questo è solo l’obiettivo del processo in corso: al momento il sistema resta saldamente bicamerale. Se, per esempio, si ponesse l’urgenza di sciogliere le Camere fra tre mesi, l’assemblea di Palazzo Madama dovrebbe essere rieletta tale e quale, poiché l’iter del disegno di legge costituzionale è lungi dall’essere concluso. Nel frattempo però potrebbe essere in vigore il nuovo Italicum monocamerale, come è nei voti di Renzi e di tutti coloro che premono per fare in fretta (peraltro la legge è stata a sua volta modificata con il premio di maggioranza al singolo partito e non più alla coalizione).
Cosa accadrebbe in quel caso? Un discreto pasticcio, fa sapere Silvestri. E Anna Finocchiaro riconosce che il problema esiste. Tant’è che occorre prevedere una leggina o un comma per estendere l’Italicum anche al Senato, finché quest’ultimo resta in piedi. Vero è che in tanti, compreso il presidente del Consiglio, hanno usato l’argomento dell’asimmetria fra Camera e Senato per rassicurare i dubbiosi e quanti temono le elezioni anticipate: vedete, non si può andare a votare perché la legge è fatta per un’Italia monocamerale e invece abbiamo ancora il Senato (almeno per un altro anno, forse un anno e mezzo).
Ma non è così. Lo scioglimento delle assemblee, tipica prerogativa del capo dello Stato, deve poter avvenire in ogni momento, se le circostanze lo consigliano. Quindi è la legge elettorale che si adeguerà alla Costituzione e non viceversa. Chi vuole un sistema monocamerale, ha solo da attendere con pazienza la riforma del Senato. Prima di allora la legge elettorale deve applicarsi immediatamente a entrambe le Camere. Ne derivano almeno due conseguenze.
La prima: non possono esistere ostacoli tecnici che frenano il ricorso alle elezioni. Se il Parlamento votasse una legge elettorale incongrua, è plausibile che il capo dello Stato (Napolitano o il suo successore) non la firmerebbe per manifesta incostituzionalità. In tal caso resterebbe in vigore il modello attuale, figlio della pronuncia della Consulta, che pure ha bisogno di un passaggio legislativo. D’altra parte, chi desiderasse votare in fretta, diciamo nel primo semestre del 2015, dovrà spiegare agli italiani come mai, dopo tanta retorica, il Senato è sempre lì, pronto per essere riconfermato. Seconda conseguenza: estendere l’Italicum a Palazzo Madama non è del tutto agevole. Ci sono differenze nelle due Camere che si rispecchiano anche nel metodo dell’elezione. Anche per questo i tempi della nuova legge sono destinati ad allungarsi, proiettandosi nel nuovo anno. «Occorre riflettere» dice la Finocchiaro e in tanti la pensano come lei.
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