Nello sciopero c'è un elemento di conflitto di classe, naturalmente, e c'è un elemento di conflitto nel PD. Anche se il primo non va sottovalutato, prevale tuttavia quest'ultimo che sovradetermina tutta la faccenda [SGA].
Renzi attacca i sindacati: “Loro s’inventano gli scioperi, io creo lavoro”
Il premier commenta così la decisione di Cgil e Uil di dichiarare lo sciopero generale. «La Camusso? È come Salvini»
Il premier commenta così la decisione di Cgil e Uil di dichiarare lo sciopero generale. «La Camusso? È come Salvini»
di D. L. La Stampa 20.11.14
Renzi e la scelta di affrontare le contestazioni
di Maria Teresa Meli Corriere 20.11.14
ROMA
«Questo giochetto mi ha rotto le scatole»: Matteo Renzi è un tipo che
va per le spicce, e quando affida ai collaboratori i suoi pensieri, è
ancora più esplicito. Al ritorno dall’Australia, il premier ha trovato
una situazione immutata, sotto un certo punto di vista. Il sindacato,
secondo lui, «continua ad avere un atteggiamento pregiudiziale: dice
solo dei no». E nel frattempo vengono organizzate — o minacciate —
manifestazioni di protesta contro di lui un po’ in tutta Italia. Anche
oggi in Emilia, dove il premier si appresta a chiudere la campagna
elettorale. Centri sociali o sindacati che siano, la pressione su Renzi è
forte. E al premier si imputa anche il fatto di non essere accorso
nelle zone d’Italia travolte dal maltempo. Tutto questo a una manciata
di giorni da una tornata elettorale in Emilia e in Calabria. Renzi è
convinto che non sia un caso. E testardo com’è è pronto a prendersi
fischi e insulti, ma oggi visiterà lo stesso le imprese dell’Emilia e
gli amministratori dei comuni alluvionati di quella ragione. Accetta la
sfida e rilancia: «Non ho paura delle contestazioni. Se qualcuno spera
di tenermi rinchiuso a Palazzo Chigi si sbaglia di grosso. Io non
rinuncio a girare per l’Italia». E poi Renzi non rinuncerebbe per nulla
al mondo a questo giro elettorale, anche perché la prima tappa del suo
tour sarà Parma, dove sarà ospite del sindaco Pizzarotti, cinque stelle
in odore di scomunica. È un’occasione più che ghiotta, per chi intende
impostare la campagna elettorale esattamente come quella delle europee:
«Noi siamo la speranza contro la rabbia». Allora quella fu la carta
vincente: di fronte al Grillo urlante, gli italiani preferirono il Renzi
che prefigurava un Paese diverso. Ora i focolai della rabbia si sono
estesi. C’è la Lega, che cresce, c’è la Cgil, che si è schierata contro
il premier e alla quale il premier continua a non concedere niente.
Riuscirà
Renzi a fare il bis delle europee? Sulle percentuali del Pd è più che
tranquillo. Il problema è un altro: si allargherà o no il fenomeno
dell’astensionismo? Lo stesso problema si presenterà nelle regionali
2015, con la differenza che lì bisognerà anche sedare i litigi nel Pd.
Tant’è vero che si pensa di offrire la candidatura alla leadership della
Campania a un esponente Ncd e di presentare in quella regione una
coalizione identica a quella che attualmente regge il governo nazionale.
Lo scontro più duro
di Federico Geremicca La Stampa 20.11.14
Ora
che il quadro è quasi del tutto definito, si può dire - senza timore di
smentita - che quella che attende il Paese è una stagione di
mobilitazione senza precedenti.
Infatti, nonostante la presa di
distanze della Cisl, l’articolazione di iniziative sindacali e di
scioperi già annunciati, delinea una resistenza - e anzi un contrattacco
- di una durezza mai riservata, in epoca recente, a nessun altro
governo prima: non a quelli di Silvio Berlusconi, non all’esecutivo
«rigorista» di Mario Monti e nemmeno al breve governo presieduto da
Enrico Letta.
Se l’obiettivo di Matteo Renzi, insomma, era mostrare
al mondo - plasticamente - l’indipendenza del suo governo dalle
«pretese concertatrici» del sindacato, ebbene lo ha centrato. Le
conseguenze di un conflitto che già sembra fuori controllo, appaiono
imprevedibili sui tempi medi. Ma la durezza dello scontro avviato
sottintende due verità tra loro solo apparentemente contraddittorie. La
prima: che conviene archiviare l’accusa di «annuncite» solitamente
rivolta a Renzi (un governo che si fosse limitato ad annunci, non
avrebbe scatenato una così possente risposta sindacale). La seconda: la
parabola del premier sembra - essa sì - aver cambiato verso, e dopo mesi
di ottimismo di fronte al presidente del Consiglio si profila una
salita ripida e densa di rischi imprevedibili.
La circostanza che la
Cisl abbia deciso di non aderire allo sciopero generale che Cgil e Uil
hanno annunciato ieri per il 12 dicembre, cambia non di molto la
sostanza delle cose. Certo, sembra prefigurare un rapporto bellicoso tra
due «prime donne» (Susanna Camusso e Anna Maria Furlan) poco inclini a
porgere l’altra guancia, ma non sposta di una virgola la questione: una
manifestazione nazionale già alle spalle (quella della Cgil a piazza San
Giovanni); lo sciopero Cisl della pubblica amministrazione, il primo
dicembre; le iniziative già messe in campo dalla Fiom (dopo Milano, ecco
Napoli, Palermo e Cagliari...); il 12, infine, lo sciopero generale
annunciato ieri. Un «bollettino di guerra», insomma, che dovrebbe
preoccupare (e molto) chi siede a Palazzo Chigi.
E non è detto che,
al di là dei toni sempre ottimisti e dell’annunciata volontà di tener
duro tanto sull’essenza del Jobs Act quanto sulla filosofia della legge
di stabilità, Matteo Renzi non cominci davvero a preoccuparsi, di fronte
ad una situazione che - al di là del braccio di ferro con le
organizzazioni sindacali - pare deteriorarsi rapidamente. Gli ultimi
sondaggi, del resto, danno il Pd in leggero calo di consensi, il governo
in deficit di fiducia e lo stesso premier un po’ declinante in quanto a
popolarità e affidabilità.
Per di più, domenica sera potrebbero
arrivare gocce capaci, se non di far traboccare, certamente di colmare
il vaso. Dal voto regionale in Emilia Romagna e Calabria, infatti, non è
più detto che giungano - a differenza di quanto poteva apparire
scontato ancora un paio di mesi fa - notizie incoraggianti per il
segretario-presidente: e il primo stop elettorale (e magari perfino una
troppo bassa affluenza alle urne) potrebbe spingere Renzi a fare un
punto per decidere se modificare percorso e strategie immaginate, e
soprattutto in che modo e in quale direzione.
E’ anche per questo
che il sordo tam tam sul rischio di elezioni anticipate ancora non
cessa. Certo, la conferma che Giorgio Napolitano sia ad un passo dal
lasciare l’incarico (come annunciato fin dalla primavera 2013) e che non
intenda procedere all’ennesimo scioglimento delle Camere, ha
sicuramente cambiato il quadro: ma non fino al punto da zittire quelle
voci. E la situazione non deve essere affatto in sicurezza, come si
dice, se ieri due voci autorevolissime (quella di Gaetano Silvestri, ex
presidente della Corte Costituzionale, e di Anna Finocchiaro, presidente
della Commissione Affari costituzionali del Senato) hanno chiesto una
norma che renda applicabile la nuova legge elettorale - l’Italicum -
anche in caso di non ancora definitiva riforma del Senato. E’ una
sollecitazione che somiglia molto all’antico fidarsi è bene ma non
fidarsi è meglio. Perché se i mille giorni chiesti da Renzi diventassero
cento... ecco, meglio esser attrezzati e preparati a fronteggiare anche
l’inedita situazione.
Maurizio Martina: “Non siamo dei signor no. Ma la legge di stabilità va cambiata”
“Una scissione della sinistra? Il Paese non la capirebbe”
intervista di Francesca Schianchi La Stampa 20.11.14
Roma «Noi non siamo dei signor no. Siamo quelli che, gelosi delle proprie idee, vogliono lavorare testardamente per rafforzare sempre più i provvedimenti del governo e vincere, insieme, la sfida del cambiamento: lo abbiamo fatto con il Jobs Act e lo faremo con la legge di stabilità». Quando dice «noi», il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina parla di Area riformista, quella parte della minoranza Pd guidata dal capogruppo Speranza che si è riunita sabato scorso a Milano.
Quindi siete soddisfatti del Jobs Act?
«Il mio è un giudizio positivo: l’ho sempre considerato un’opportunità, e ora, con il lavoro fatto in Commissione Lavoro alla Camera, è ulteriormente migliorato. È la prova che i provvedimenti del governo con il contributo del Parlamento possono uscire rafforzati».
Il suo collega Fassina dice invece che verrà data libertà di licenziamento…
«Non condivido il giudizio di Fassina. Grazie al lavoro fatto alla Camera si precisa meglio la nuova disciplina dell’articolo 18 che, ricordo, era già stato cambiato dalla Fornero».
Ma come può piacere a voi sinistra del Pd un testo che soddisfa Sacconi e, parole sue, supera l’articolo 18?
«Il Jobs Act uscito dal Senato andava migliorato, e la Camera lo sta facendo anche sull’articolo 18. Noi abbiamo chiesto e ottenuto che le disposizioni finali della direzione Pd fossero accolte pienamente, con una tipizzazione delle fattispecie, che verrà fatta nei decreti attuativi. L’art. 18 è già stato cambiato dal governo Monti, ora si trattava di risolvere nodi interpretativi rimasti aperti, e lo stiamo facendo con equilibrio. Io credo che come minoranza dobbiamo dibattere e portare avanti le nostre idee: poi, quando si ottengono risultati, dobbiamo riconoscerli e valorizzarli».
Sul Jobs Act avete portato a casa risultati?
«Assolutamente sì. Il Jobs Act è la prova che anche chi si riconosce in un’area di minoranza nel Pd può dare il proprio contributo per migliorare i provvedimenti. E così andremo avanti anche sulla legge di stabilità».
Cosa bisogna cambiare della stabilità?
«Direi che si possono rafforzare alcuni obiettivi nel solco delle scelte fatte. Ad esempio, vorremmo ampliare le misure di sostegno agli investimenti delle piccole e medie imprese. Abbiamo posto il tema di una revisione del bonus bebè, e bene ha fatto il governo ad aprire a una sua riorganizzazione. Ancora, è importante avere più risorse per gli ammortizzatori sociali».
Una parte della minoranza Pd è molto più critica verso i provvedimenti del governo. Torna l’ipotesi di una scissione?
«Lo escludo. E se guardo agli interessi dell’Italia e del Pd, penso che uno scenario del genere non verrebbe proprio capito».
Giudizi severi arrivano dai sindacati: si allarga alla Uil il fronte dello sciopero generale.
«Ho il massimo rispetto per ogni mobilitazione sindacale. Quando sei davanti a scelte importanti come queste, ciascuno si prende le proprie responsabilità. La dialettica ci sta, purché non si ecceda nei toni e non si chiuda il confronto».
Apre un nuovo fronte di critica al governo anche il ricorso del Cda Rai…
«Un bel boomerang per la Rai: in un momento come questo, mi sembra giusto che anche una realtà importante come la Tv pubblica concorra agli obiettivi di risparmio. Credo che questo ricorso sia un errore e rischi di non essere proprio capito dai cittadini».[f. sch.]
“Una scissione della sinistra? Il Paese non la capirebbe”
intervista di Francesca Schianchi La Stampa 20.11.14
Roma «Noi non siamo dei signor no. Siamo quelli che, gelosi delle proprie idee, vogliono lavorare testardamente per rafforzare sempre più i provvedimenti del governo e vincere, insieme, la sfida del cambiamento: lo abbiamo fatto con il Jobs Act e lo faremo con la legge di stabilità». Quando dice «noi», il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina parla di Area riformista, quella parte della minoranza Pd guidata dal capogruppo Speranza che si è riunita sabato scorso a Milano.
Quindi siete soddisfatti del Jobs Act?
«Il mio è un giudizio positivo: l’ho sempre considerato un’opportunità, e ora, con il lavoro fatto in Commissione Lavoro alla Camera, è ulteriormente migliorato. È la prova che i provvedimenti del governo con il contributo del Parlamento possono uscire rafforzati».
Il suo collega Fassina dice invece che verrà data libertà di licenziamento…
«Non condivido il giudizio di Fassina. Grazie al lavoro fatto alla Camera si precisa meglio la nuova disciplina dell’articolo 18 che, ricordo, era già stato cambiato dalla Fornero».
Ma come può piacere a voi sinistra del Pd un testo che soddisfa Sacconi e, parole sue, supera l’articolo 18?
«Il Jobs Act uscito dal Senato andava migliorato, e la Camera lo sta facendo anche sull’articolo 18. Noi abbiamo chiesto e ottenuto che le disposizioni finali della direzione Pd fossero accolte pienamente, con una tipizzazione delle fattispecie, che verrà fatta nei decreti attuativi. L’art. 18 è già stato cambiato dal governo Monti, ora si trattava di risolvere nodi interpretativi rimasti aperti, e lo stiamo facendo con equilibrio. Io credo che come minoranza dobbiamo dibattere e portare avanti le nostre idee: poi, quando si ottengono risultati, dobbiamo riconoscerli e valorizzarli».
Sul Jobs Act avete portato a casa risultati?
«Assolutamente sì. Il Jobs Act è la prova che anche chi si riconosce in un’area di minoranza nel Pd può dare il proprio contributo per migliorare i provvedimenti. E così andremo avanti anche sulla legge di stabilità».
Cosa bisogna cambiare della stabilità?
«Direi che si possono rafforzare alcuni obiettivi nel solco delle scelte fatte. Ad esempio, vorremmo ampliare le misure di sostegno agli investimenti delle piccole e medie imprese. Abbiamo posto il tema di una revisione del bonus bebè, e bene ha fatto il governo ad aprire a una sua riorganizzazione. Ancora, è importante avere più risorse per gli ammortizzatori sociali».
Una parte della minoranza Pd è molto più critica verso i provvedimenti del governo. Torna l’ipotesi di una scissione?
«Lo escludo. E se guardo agli interessi dell’Italia e del Pd, penso che uno scenario del genere non verrebbe proprio capito».
Giudizi severi arrivano dai sindacati: si allarga alla Uil il fronte dello sciopero generale.
«Ho il massimo rispetto per ogni mobilitazione sindacale. Quando sei davanti a scelte importanti come queste, ciascuno si prende le proprie responsabilità. La dialettica ci sta, purché non si ecceda nei toni e non si chiuda il confronto».
Apre un nuovo fronte di critica al governo anche il ricorso del Cda Rai…
«Un bel boomerang per la Rai: in un momento come questo, mi sembra giusto che anche una realtà importante come la Tv pubblica concorra agli obiettivi di risparmio. Credo che questo ricorso sia un errore e rischi di non essere proprio capito dai cittadini».[f. sch.]
di Ernesto Galli della Loggia Corriere 20.11.14
Il rischio del cortocircuito tra bicameralismo e legge elettorale
Pensato per il monocameralismo il nuovo sistema di voto dovrà essere applicabile anche per la Camera Alta
di Stefano Folli Repubblica 20.11.14
COME nella favola di Andersen, qualcuno ha detto che “il re è nudo”. In questo caso è nudo il progetto di riforma elettorale, dal momento che l’ex presidente della Corte Costituzionale, Silvestri, ha ricordato come la nuova legge, quando sarà approvata, dovrà essere applicabile anche al Senato. Ovvia la ragione: siamo tuttora in un regime bicamerale.
La materia è astrusa, ma siamo arrivati al punto in cui la propaganda deve lasciare il campo al realismo. Altrimenti, a furia di approssimazioni successive, si finisce nel classico vicolo cieco. Ed è merito di Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama e relatrice della legge di riforma, avere subito accolto il rilievo di Silvestri, ammettendo che si tratta di un aspetto che il Parlamento non può ignorare.
In sintesi, l’ipotesi di modello elettorale già approvato dalla Camera e ora in istruttoria al Senato (l’Italicum) è immaginato per un sistema monocamerale. Presuppone cioè che il Senato sia trasformato, perdendo il potere costituzionale di votare la fiducia ai governi e di approvare le leggi su un piede di parità con Montecitorio. Tuttavia questo è solo l’obiettivo del processo in corso: al momento il sistema resta saldamente bicamerale. Se, per esempio, si ponesse l’urgenza di sciogliere le Camere fra tre mesi, l’assemblea di Palazzo Madama dovrebbe essere rieletta tale e quale, poiché l’iter del disegno di legge costituzionale è lungi dall’essere concluso. Nel frattempo però potrebbe essere in vigore il nuovo Italicum monocamerale, come è nei voti di Renzi e di tutti coloro che premono per fare in fretta (peraltro la legge è stata a sua volta modificata con il premio di maggioranza al singolo partito e non più alla coalizione).
Cosa accadrebbe in quel caso? Un discreto pasticcio, fa sapere Silvestri. E Anna Finocchiaro riconosce che il problema esiste. Tant’è che occorre prevedere una leggina o un comma per estendere l’Italicum anche al Senato, finché quest’ultimo resta in piedi. Vero è che in tanti, compreso il presidente del Consiglio, hanno usato l’argomento dell’asimmetria fra Camera e Senato per rassicurare i dubbiosi e quanti temono le elezioni anticipate: vedete, non si può andare a votare perché la legge è fatta per un’Italia monocamerale e invece abbiamo ancora il Senato (almeno per un altro anno, forse un anno e mezzo).
Ma non è così. Lo scioglimento delle assemblee, tipica prerogativa del capo dello Stato, deve poter avvenire in ogni momento, se le circostanze lo consigliano. Quindi è la legge elettorale che si adeguerà alla Costituzione e non viceversa. Chi vuole un sistema monocamerale, ha solo da attendere con pazienza la riforma del Senato. Prima di allora la legge elettorale deve applicarsi immediatamente a entrambe le Camere. Ne derivano almeno due conseguenze.
La prima: non possono esistere ostacoli tecnici che frenano il ricorso alle elezioni. Se il Parlamento votasse una legge elettorale incongrua, è plausibile che il capo dello Stato (Napolitano o il suo successore) non la firmerebbe per manifesta incostituzionalità. In tal caso resterebbe in vigore il modello attuale, figlio della pronuncia della Consulta, che pure ha bisogno di un passaggio legislativo. D’altra parte, chi desiderasse votare in fretta, diciamo nel primo semestre del 2015, dovrà spiegare agli italiani come mai, dopo tanta retorica, il Senato è sempre lì, pronto per essere riconfermato. Seconda conseguenza: estendere l’Italicum a Palazzo Madama non è del tutto agevole. Ci sono differenze nelle due Camere che si rispecchiano anche nel metodo dell’elezione. Anche per questo i tempi della nuova legge sono destinati ad allungarsi, proiettandosi nel nuovo anno. «Occorre riflettere» dice la Finocchiaro e in tanti la pensano come lei.
Pensato per il monocameralismo il nuovo sistema di voto dovrà essere applicabile anche per la Camera Alta
di Stefano Folli Repubblica 20.11.14
COME nella favola di Andersen, qualcuno ha detto che “il re è nudo”. In questo caso è nudo il progetto di riforma elettorale, dal momento che l’ex presidente della Corte Costituzionale, Silvestri, ha ricordato come la nuova legge, quando sarà approvata, dovrà essere applicabile anche al Senato. Ovvia la ragione: siamo tuttora in un regime bicamerale.
La materia è astrusa, ma siamo arrivati al punto in cui la propaganda deve lasciare il campo al realismo. Altrimenti, a furia di approssimazioni successive, si finisce nel classico vicolo cieco. Ed è merito di Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama e relatrice della legge di riforma, avere subito accolto il rilievo di Silvestri, ammettendo che si tratta di un aspetto che il Parlamento non può ignorare.
In sintesi, l’ipotesi di modello elettorale già approvato dalla Camera e ora in istruttoria al Senato (l’Italicum) è immaginato per un sistema monocamerale. Presuppone cioè che il Senato sia trasformato, perdendo il potere costituzionale di votare la fiducia ai governi e di approvare le leggi su un piede di parità con Montecitorio. Tuttavia questo è solo l’obiettivo del processo in corso: al momento il sistema resta saldamente bicamerale. Se, per esempio, si ponesse l’urgenza di sciogliere le Camere fra tre mesi, l’assemblea di Palazzo Madama dovrebbe essere rieletta tale e quale, poiché l’iter del disegno di legge costituzionale è lungi dall’essere concluso. Nel frattempo però potrebbe essere in vigore il nuovo Italicum monocamerale, come è nei voti di Renzi e di tutti coloro che premono per fare in fretta (peraltro la legge è stata a sua volta modificata con il premio di maggioranza al singolo partito e non più alla coalizione).
Cosa accadrebbe in quel caso? Un discreto pasticcio, fa sapere Silvestri. E Anna Finocchiaro riconosce che il problema esiste. Tant’è che occorre prevedere una leggina o un comma per estendere l’Italicum anche al Senato, finché quest’ultimo resta in piedi. Vero è che in tanti, compreso il presidente del Consiglio, hanno usato l’argomento dell’asimmetria fra Camera e Senato per rassicurare i dubbiosi e quanti temono le elezioni anticipate: vedete, non si può andare a votare perché la legge è fatta per un’Italia monocamerale e invece abbiamo ancora il Senato (almeno per un altro anno, forse un anno e mezzo).
Ma non è così. Lo scioglimento delle assemblee, tipica prerogativa del capo dello Stato, deve poter avvenire in ogni momento, se le circostanze lo consigliano. Quindi è la legge elettorale che si adeguerà alla Costituzione e non viceversa. Chi vuole un sistema monocamerale, ha solo da attendere con pazienza la riforma del Senato. Prima di allora la legge elettorale deve applicarsi immediatamente a entrambe le Camere. Ne derivano almeno due conseguenze.
La prima: non possono esistere ostacoli tecnici che frenano il ricorso alle elezioni. Se il Parlamento votasse una legge elettorale incongrua, è plausibile che il capo dello Stato (Napolitano o il suo successore) non la firmerebbe per manifesta incostituzionalità. In tal caso resterebbe in vigore il modello attuale, figlio della pronuncia della Consulta, che pure ha bisogno di un passaggio legislativo. D’altra parte, chi desiderasse votare in fretta, diciamo nel primo semestre del 2015, dovrà spiegare agli italiani come mai, dopo tanta retorica, il Senato è sempre lì, pronto per essere riconfermato. Seconda conseguenza: estendere l’Italicum a Palazzo Madama non è del tutto agevole. Ci sono differenze nelle due Camere che si rispecchiano anche nel metodo dell’elezione. Anche per questo i tempi della nuova legge sono destinati ad allungarsi, proiettandosi nel nuovo anno. «Occorre riflettere» dice la Finocchiaro e in tanti la pensano come lei.
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