domenica 30 novembre 2014

Spazzali via

D'Alema pretendeva di spiegarci il mondo quando esalava amore verso Blair, lo pretende oggi che invidia Renzi perché fa ciò che a lui non è riuscito. Ciò che lui rappresenta costituirà sempre un equivoco. Meglio rimuoverlo in fretta [SGA].

Il cantante: «Se il premier fosse stato leader di un partito negli Anni Cinquanta, io e mio papà forse l’avremmo visto come un rivale politico»di Marinella Venegoni La Stampa 27.11.14

«Berlinguer ultimo grande leader»
Morandi e le regionali in Emilia: «Per la prima volta non ho votato» Nei giorni in cui il cantante, da sempre vicino alla sinistra, compie 70 anni: «C’è molta delusione: non so se Renzi ai miei tempi, sarebbe stato nostro alleato»
Corriere 27.11.14

Lo spazio (esiguo) a sinistra del Pd e il mito del «partito del lavoro»
di Nando Pagnoncelli Corriere 27.11.14
Le frizioni sempre più evidenti nel Pd, innescate dal Jobs act, sono esplose ieri con evidenza. Punto scatenante è stato il risultato delle elezioni in Emilia-Romagna. La straordinaria astensione è stata letta prevalentemente come un segnale critico rivolto a Renzi. Rosy Bindi, nell’intervista concessa a questo giornale, lo dice esplicitamente e ritiene che non sia lontano il momento della costituzione di una forza di sinistra in competizione con il Pd di Renzi che starebbe progressivamente spostandosi a destra. Una forza che recuperi l’ispirazione dell’Ulivo, saldamente collocata nell’area del riformismo di sinistra.
Che consistenza avrebbe un percorso di questo genere? Quale forza elettorale? È naturalmente difficile da dire. È indubbio che l’aggravarsi delle difficoltà economiche del Paese creino nell’elettorato forti preoccupazioni e un malumore diffuso anche verso il governo e il premier che hanno perso una quota importante di consensi a partire dalla fine dell’estate. E abbiamo visto che il Jobs act non sembra essere particolarmente apprezzato, poiché si pensa che favorisca più le imprese che non i lavoratori né si spera in un suo effetto apprezzabile sulla crescita dell’occupazione.
Ma questo non basta per individuare una stabile base di consenso. L’orientamento culturale su cui Renzi fonda il suo percorso non è infatti tanto un rifiuto della collocazione a sinistra, quanto un percorso di rinnovamento delle costituencies della sinistra in un mondo trasformato. E, in fondo, è stato Renzi a collocare il Pd nel Partito socialista europeo, cosa che non era riuscita a nessuno dei segretari provenienti dalla tradizione ex-comunista. E l’impostazione retrostante il Jobs act sembra una sorta di riedizione del patto dei produttori, sia pure con modalità negoziali e processi decisionali diversi rispetto al passato. Quindi l’ipotesi della nuova forza può avere una sua consistenza solo se non si chiude nel recupero del passato, nel ritorno all’Ulivo o comunque alle tradizioni precedenti. La richiesta di cambiamento, anche del ceto dirigente, è stata evidente in una parte importante dell’elettorato tradizionale della sinistra e sembra oramai un dato che non si può mettere in discussione. Anche perché il consenso potenziale ad una forza di questo tipo, come abbiamo visto qualche settimana fa, veniva meno dai lavoratori e più da disoccupati e anziani. Recuperare il disagio e la delusione attraverso il classico partito del lavoro è dunque presumibilmente difficile.
 

Massimo D’Alema «Renzi lasci la Terza Via Bisogna riscoprire lo Stato»
intervista di Paolo Valentino Corriere 29.11.14
ROMA Presidente D’Alema, siamo in piena rievocazione della Terza Via. Lei ne è stato uno degli iniziatori, nel 1999, con il vertice di Firenze. Quale è il suo significato attuale? 
«Nessuno. In tempi recenti sono state avanzate critiche anche aspre di quella esperienza: troppo liberismo, troppe concessioni alla deregulation. Ma cosa fu la Terza Via? All’indomani della caduta del muro di Berlino, quindi in un clima di grande mutazione, fu lo sforzo di far incontrare i principi del socialismo con una visione di tipo liberale. Penso ancora oggi che abbia avuto un impatto positivo, sia pure con effetti contraddittori che non possono essere nascosti. Ma è un’esperienza di 15 anni fa. Allora diede i suoi frutti, anche nel nostro Paese. Fu la sinistra al governo che, sulla base di quella visione, ridusse drasticamente la presenza statale nell’economia, avviò le grandi privatizzazioni, lanciò le liberalizzazioni poi continuate nel lavoro di Bersani, riformò le pensioni. Pose fine a una politica di deficit spending, tanto che noi portammo il debito pubblico dal 127 al 102% del Pil, realizzando sistematicamente un avanzo primario del 3% e liberalizzò il mercato del lavoro, per certi aspetti perfino troppo, visto che si produssero forme contrattuali che poi sfociarono in una eccessiva precarizzazione. Quindici anni dopo, i problemi sono completamente diversi. Bill Clinton, non un pericoloso estremista, ha scritto tre anni fa un libro, Back to work , sostenendo che il principale limite di quella esperienza fu di aver sottovalutato il ruolo dello Stato. La Terza Via fu pensata in una prospettiva ottimistica della globalizzazione, che si è rivelata fallace. L’eccesso di liberalizzazione ha portato a enormi diseguaglianze sociali, a grave instabilità economica e, in ultima analisi, alla crisi del 2008». 
La Terza Via corresponsabile della crisi del 2008? 
«Guardi che la deregulation finanziaria, il “liberi tutti” per banche e speculatori, in America, la fece Clinton, lui stesso lo ha riconosciuto. Quello che io trovo incredibile è che, nel tentativo di offrire un retroterra teorico nobile al governo Renzi, oggi si faccia un’operazione anacronistica. Chi ci spiega che la velocità del mondo, le nuove tecnologie impongono il cambiamento poi ci propone una piattaforma ideologica della fine del secolo scorso come la Grande Novità di oggi. Sul piano culturale è sconcertante. Primo, la riduzione del ruolo dello Stato era il tema di vent’anni fa. Secondo lo abbiamo fatto. In qualche caso forse troppo. Terzo, alcuni dei protagonisti riflettono criticamente su quell’esercizio. Oggi tutto il pensiero economico ruota intorno ad altri tempi. Ci sono Stiglitz, Piketty, Krugman. Il Financial Times ha dedicato una pagina intera al libro della Mazzuccato sulla necessità di riscoprire il ruolo dello Stato come forza propulsiva dello sviluppo. Quelli che invocano la Terza Via sembra abbiano saltato le letture degli ultimi 10 anni, ammesso che avessero fatto quelle precedenti». 
E qual è invece il dibattito giusto? 
«La crisi di oggi ha radici nella debolezza della politica e dell’azione pubblica, sia a livello europeo sia nazionale. E non si può uscirne senza politiche in grado di promuovere gli investimenti, anche pubblici. Altro che meno Stato. La crisi ha evidenziato i limiti dell’approccio liberista e ha messo la politica di fronte alla responsabilità di promuovere gli investimenti e ridurre le diseguaglianze. La crisi europea si caratterizza soprattutto come crollo della domanda interna. Oggi l’Europa è esportatore netto, malgrado l’euro. Ma il problema è il crollo dei consumi europei che deriva da un impoverimento delle classi medie e del mondo del lavoro». 
Lei sta contestando la necessità delle riforme strutturali, che ci chiedono la Commissione, la Banca centrale di Mario Draghi, a cominciare da quella in corso del mercato del lavoro, per dargli più flessibilità? 
«Secondo i dati Ocse, non miei, il mercato del lavoro è più flessibile in Italia che in Germania e in Francia. In ogni caso, trovo stravagante e incomprensibile che oggi, con i dati economici peggiori dell’eurozona, sia la riforma elettorale la priorità di un governo che dice di voler rimanere in carica fino al 2018. Non credo che l’Europa ci chieda questo. Detto ciò, la riforma del mercato del lavoro contiene molti aspetti positivi, io sono favorevole al contratto unico a tutele crescenti perché riduce la precarietà del lavoro. Ma contesto il fatto che la nuova generazione di occupati non possa accedere alla tutela dell’articolo 18, che invece rimane per i lavoratori già assunti. A partire dai principi stessi enunciati dal governo, il meccanismo proposto introduce quindi un elemento che li contraddice, fra l’altro stabilendo una diseguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, dubbia sotto il profilo costituzionale. Inoltre non credo che, approvato il Jobs act, arriveranno investimenti a pioggia o cresceranno tumultuosamente i posti di lavoro». 
Quali dovrebbero essere le priorità di un governo di sinistra? 
«La riforma dello Stato, delle amministrazioni, compreso il funzionamento della giustizia, la sicurezza. A livello europeo, la prima riforma dovrebbe essere quella dei mercati finanziari. Cominciamo, per esempio, a stabilire che all’interno dell’eurozona non sia possibile la concorrenza fiscale. Non possiamo scoprire solo ora che il Lussemburgo è un paradiso fiscale, magari per indebolire Juncker e con lui la nuova Commissione». 
E come la mettiamo con i nostri obblighi, quelli che ci impongono i Trattati? 
«Sono convinto che l’austerità come premessa della crescita sia una ricetta sbagliata». 
Ma su questo c’è accordo. Il governo Renzi si è battuto per cambiare i termini dell’equazione, privilegiando la crescita. 
«C’è accordo a parole. Nella sostanza siamo di fronte solo ad annunci. Dei 300 miliardi del piano di investimenti di Juncker pare ce ne siano solo 21. I segnali di cambiamento sono estremamente timidi. Siccome non c’è più flessibilità nella moneta, si continua a premere su misure di contenimento dei salari. Il punto vero è questo. Ma questa politica è all’origine del crollo del mercato interno europeo. Tanto è vero che oggi perfino in Germania si apre un dibattito: gli industriali tedeschi mettono in guardia da un eccessivo contenimento dei salari. All’ultimo G20 lo snodo centrale è stata la polemica tra Obama e la Merkel sulla politica dell’austerità: è Obama che ha detto alla cancelliera che l’Europa deve spendere più nella crescita. È questo il vero ostacolo alla ripresa, non l’articolo 18». 
Siamo alla fine della presidenza semestrale italiana dell’Unione Europea. Che bilancio ne fa? 
«Devo dire che, anche per ragioni oggettive, le vicende della Commissione, la battaglia sulle nomine, non mi pare abbia lasciato un segno così indelebile nella storia dell’Unione Europea».

Miglioristi Il commiato di Re Giorgio al compagno Togliatti
di Fabrizio d’Esposito il Fatto 29.11.14
Una delle primissime volte che Giorgio Napolitano conobbe Palmiro Togliatti da vicino, sul piano umano oltre che politico, fu nell’autunno del 1950. Napolitano, classe 1925, era un quadro della federazione comunista di Napoli, quella “stalinista” di Cacciapuoti e Amendola, e fu delegato a vigilare sulla convalescenza del Migliore a Sorrento dopo un grave incidente automobilistico. Togliatti era con Nilde Iotti e la piccola Marisa Malagoli, appena adottata e Napolitano rimase con loro per due settimane.
QUASI sessantacinque anni dopo, l’immagine più forte e suggestiva del congedo del capo dello Stato dalla Camera dei deputati, in vista delle sue dimissioni di gennaio, è questa: il presidente, in piedi, che si appoggia sul bastone comparso nelle sue ultime uscite, la piccola Malagoli Togliatti diventata una signora anziana, infine Emanuele Macaluso, altro compagno migliorista come “Giorgio” e amico del capo dello Stato. Di fronte a loro Laura Boldrini, presidente della Camera, e Giuseppe Vacca, a capo della Fondazione Istituto Gramsci, che ieri hanno inaugurato a Montecitorio, nella Sala della Regina, la mostra dedicata a Palmiro Togliatti “padre della Costituzione” nel cinquantesimo anniversario della sua morte, nel 1964. Alle 17, i primi ad arrivare, mani dietro alla schiena e in anticipo di mezz’ora, da comunisti vecchio stampo, sono stati Aldo Tortorella, lo stesso Macaluso, Alfredo Reichlin, la Rodano. Un pezzo di Pci cui si è aggiunta la vecchia guardia della Ditta sbaragliata da Matteo Renzi: Pier Luigi Bersani che ha parlato tutto il tempo con Pier Ferdinando Casini (probabilmente delle ambizioni del leader dell’Udc per il Quirinale), Guglielmo Epifani, Gianni Cuperlo e in ordine sparso altri deputati della minoranza dem. Assente Massimo D’Alema, ma solo perché impegnato a Napoli per un’iniziativa su Enrico Berlinguer, nel trentennale della scomparsa.
UNA GIORNATA del ricordo comunista, piena di silenzi ed emozioni. Al punto che Pasqualino Laurito, titolare della Velina rossa e decano dei giornalisti parlamentari, non manca di notare: “L’unico che non ricorda Togliatti è il presidente del Consiglio. Lui fa la pizza con Blair ma non viene qui”. C’è un solo ministro ed è Andrea Orlando, guardasigilli come lo fu Togliatti dal 1945 al ’46. È una questione antropologica più che generazionale. Renzi in questo contesto non funzionerebbe. La parlantina da Ruota della fortuna e le battute da Twitter evaporerebbero a confronto con lo stile denso e profondo dei comunisti di una volta (e Togliatti fu uno dei leader più presenti in Parlamento). Quando i discorsi di Boldrini e Vacca si esauriscono, il capo dello Stato va a visitare la mostra e si ferma davanti a un biglietto di Togliatti sull’articolo della Costituzione dedicato al Senato. Qualcuno gli fa notare l’attualità della questione, con l’abolizione di Palazzo Madama prevista dalle riforma della Boschi e dell’inquisito Verdini. Napolitano ride, ma non dice nulla. Poi il paragone tra i due grandi della Costituzione, Alcide De Gasperi e il Migliore. Macaluso obietta: “Togliatti fu grandissimo”.


 Nella lunga agenda del commiato di Napolitano dal Quirinale, dopo la visita privata a Francesco ecco un altro appuntamento altamente simbolico. A novant’anni da compiere nel prossimo giugno, il capo dello Stato rende omaggio al suo vero maestro politico, nel senso più largo del termine. Come scrisse nella sua autobiografia del 2005: “La nostra era stata un formazione, direi, integralmente togliattiana, via via sviluppatasi anche attraverso la tendenza a interpretare la lezione di Togliatti in una chiave piuttosto che in un’altra”. Quando venne eletto nel 2006 al Quirinale, Paolo Franchi definì Napolitano come l’ultimo degli homines togliattiani. E del Migliore, da capo dello Stato, ha continuato ad applicare la lezione del principio di realtà. Realismo, in una parola. Quello che nel novembre del 2011, per esempio, non lo portò a sciogliere le Camere, come voleva Bersani, e a chiamare Mario Monti a Palazzo Chigi. Non avremmo avuto Renzi, oggi. Ma la storia non si fa con i se e con i ma. E ieri Napolitano è come se avesse preso congedo dalla sua storia di comunista.

“Human Factor” Vendola convoca i ribelli democrat “Battere il premier con Landini e Prodi”
Civati sarà a “Human” Stefano Fassina, l’ex vice ministro dell’Economia del governo Letta, oggi uno dei dissidenti dem, ci saràdi Giovanna Casadio Repubblica 28.11.14
ROMA . «Altro che andare a vivere all’estero come dissero che avrei fatto dopo la scissione di Sel...». Nichi Vendola lancia la riscossa della sinistra con lo slogan “Battiamo Renzi” e chiama un pezzo di Pd, i sindacati Cgil e Fiom, i movimenti. In tutto sono 450 gli inviti per “Human factor” dal 23 al 25 gennaio a Milano. Una anti Leopolda o una Leopolda rossa - spiega - «per fare politica e cultura, abbassare il rumore e accendere il pensiero, federare le esperienze alternative a Matteo Renzi e batterlo». Tutto online, interattivo, con un grande sforzo organizzativo e la possibilità per chi vorrà di proporre le ricette per la nuova sinistra.
I nomi che il leader rosso vuole coinvolgere sono tanti, ma due sopra tutti: Maurizio Landini, il segretario della Fiom e Romano Prodi, il padre dell’Ulivo. Speranze un po’ velleitarie? Intanto Vendola mira a rappresentare tutto quel mondo di lavoratori e di disagio sociale che ritiene quella renziana una «svolta a destra». «La sinistra si è addormentata socialdemocratica e si è svegliata alfaniana o sacconiana », attacca. Il gioco del “chi ci sarà e chi non ci sarà” è ancora incerto. Stefano Fassina, l’ex vice ministro dell’Economia del governo Letta, oggi uno dei dissidenti dem, ci sarà. «Andrò con interesse, perché dobbiamo condividere l’analisi e proporre un progetto che poi parli a tutta la sinistra e il centrosinistra. Però noi siamo e rimaniamo nel Pd. Discuteremo di temi importanti e non di contenitori». Quella parte di sinistra del Pd che fa capo a Cuperlo e a Fassina non prevede di abbandonare la “ditta”.
Diversa è la posizione di Pippo Civati e della sua corrente. Civati sarà a “Human”, ma batte a sua volta un colpo. Il 13 dicembre ha organizzato una convention a Bologna. Titolo: «La sinistra? Possibile». Anche qui tanti inviti, soprattutto a pezzi di sindacato, a Sel, ai Verdi che stanno riunificandosi, anche alle “partite Iva”. Civati dice di puntare a un contro-Patto del Nazareno. L’accordo tra Renzi e Berlusconi sulle riforme va smantellato e sostituito con una sorta di «Carta» di programma di sinistra. Da proporre per primo allo stesso Pd di Renzi. «per vedere cosa risponde - osserva il dissidente dem più ostile al renzismo - Non credo che allo stesso Renzi può fare piacere avere una forza del 10% alla sua sinistra». Civati non trae ancora le conseguenze, ma da settimane lascia intendere che potrebbe anche andare via: «Non è possibile che qualsiasi raggruppamento non renziano sia subito bollato come residuale, allora è un po’ difficile restare».
Sembra esserci un’accelerazione a sinistra. La piazza dei lavoratori, gli scioperi sociali stanno evidentemente facendo da detonatori. Tutto da vedere poi, se il movimento avrà respiro o resterà una ridotta minoritaria. Vendola è combattivo e convinto di non rischiare «una ridotta di duri e puri, che contesti Renzi standosene all’opposizione», bensì di avere avviato un’operazione politica ricca di futuro. «Contro la cortigianeria e il conformismo», rivendica il leader di Sel. Utilizzando il social network Medium dedicato alla condivisione di documenti, come sperimentò Obama in America. Il riferimento a Prodi è sibillino. Se Blair è considerato da Palazzo Chigi un profeta del futuro, mentre non c’è nulla di «più archiviabile come modernariato politico», non si vede perché - ribadisce Vendola - Prodi debba essere trattato «come protagonista della preistoria».

Tony Blair 
«L’Europa ha bisogno di una sinistra nuova»
intervista di Paolo Valentino Corriere 27.11.14
ROMA «La modernizzazione che Matteo Renzi sta cercando di portare in Italia è la sola strada per una forza progressista, che vuole creare una società più giusta ed eguale. Chi non cambia i sistemi di base, in un mondo che cambia così tanto e così velocemente, rimane indietro. Abbiamo tutti davanti gli stessi problemi: globalizzazione, innovazione tecnologica, demografia. La ragione per cui molti Paesi devono riformare sistemi pensionistici, welfare, mercato del lavoro è proprio il mondo che cambia. E la sinistra ha successo solo quando rimane fedele ai suoi valori, ma li applica in modi diversi per tempi diversi». 
A Roma per una serie di incontri, compreso quello avuto ieri con il Presidente del Consiglio, l’ex premier laburista britannico Tony Blair ha concesso un’intervista al Corriere . Abito grigio, in grande forma, i famosi occhi azzurri che continuano a lanciare scintille, solo i capelli più radi e diafani ne raccontano i 61 anni.
Signor primo ministro, lei fece le sue riforme in un panorama economico caratterizzato dalla crescita, mentre oggi Renzi e gli altri leader devono farlo nel pieno della più grave recessione del Dopoguerra. In che modo governi progressisti possono riformare e rimanere fedeli a se stessi in tempi di crisi?
«Oggi il cambiamento è allo stesso tempo più urgente e più difficile. Penso che in Europa sia necessario un “grande compromesso”, l’intesa a stimolare l’economia, sul piano degli investimenti e su quello monetario, in cambio di sostanziali riforme strutturali, altrimenti l’economia non sarà competitiva in futuro. La moneta unica è stato un progetto motivato dalla politica ma espresso nell’economia, dove l’assunzione implicita era che la crescita continuasse all’infinito. Gli aggiustamenti necessari per allineare le varie economie non vennero fatti. Oggi, di fronte alla recessione, venuto meno lo strumento della svalutazione, l’eurozona deve agire insieme».
Lei quindi critica quei Paesi come la Germania, che insistono solo sull’austerità?
«È impossibile ridurre il debito se non si ha crescita. E’ necessario per l’eurozona combinare misure per lo sviluppo nel breve periodo, varando le riforme che nel lungo termine renderanno quella crescita sostenibile. Ma è chiaro che prima venga la crescita».
L’Europa deve affrontare anche una grave crisi di credibilità presso le opinioni pubbliche. Ieri al Parlamento europeo Papa Francesco ha criticato la troppa burocrazia, la distanza dai cittadini, la «globalizzazione dell’indifferenza» che caratterizzano l’Ue. Allo stesso tempo, crescono nel Continente forze anti-europee, nazionaliste, anti-immigrati che contestano l’esistenza stessa del progetto europeo. Qual è una risposta progressista a questa crisi dell’Europa?
«Credo siano necessarie tre cose. Primo occorre capire che la rabbia della gente è reale, per questo sono necessarie politiche per la crescita e il lavoro. Secondo bisogna affrontare le genuine preoccupazioni sollevate dalle ondate migratorie. E qui abbiamo bisogno di regole, ma non di pregiudizi: quindi forti controlli per frenare l’immigrazione clandestina e misure comuni a tutta l’Unione Europea. Terzo e più importante, l’Europa deve concentrarsi non sulla burocrazia o l’interferenza nella vita delle persone, ma su grandi cose che mostrino perché essa sia l’idea giusta per il XXI secolo: mercato unico, politica energetica, difesa e sicurezza comuni. In nessuna crisi alle nostre porte, oggi, siamo in grado di agire senza che gli Usa siano il senior partner. La percezione della gente è che Bruxelles e le sue istituzioni siano lontani. Tutte le volte che l’Europa si pone il problema di come avvicinarsi alle persone, le sue istituzioni avviano una grande introspezione su se stesse e, due o tre anni dopo, notiamo che la gente le sente ancora più distanti».
Ma come si danno risposte comuni senza forti istituzioni comuni?
«Non riusciremo ad affrontare i partiti dell’estrema destra nazionalista con altri dibattiti sui poteri di Commissione, Consiglio e Parlamento. La priorità immediata è dare alla gente il senso del perché l’Europa sia rilevante nel Terzo Millennio. E la ragione oggi non è più la pace, come per la generazione dei nostri genitori, ma il potere. Se vogliamo essere influenti, far avanzare i nostri valori e interessi in un mondo dove emergono nuovi protagonisti, Cina, India, Indonesia che è tre volte la Germania, ci vuole l’Europa».
Non molti suoi connazionali sono d’accordo. Quanto la preoccupa la prospettiva del Brexit?
«Sono molto preoccupato dalla possibilità che il Regno Unito esca dalla Ue. Sarebbe un disastro per noi e per l’Europa. Però non credo ci sia una maggioranza della popolazione favorevole all’uscita».
Che fare con la Russia? Come bilanciare la necessità di sostenere le aspirazioni dell’Ucraina, con la legittima difesa dei nostri interessi economici e strategici?
«La cosa migliore è tenere fermi i nostri valori. L’Europa deve agire con fermezza di fronte alla destabilizzazione dell’Ucraina. D’altra parte, ci sono aree dov’è indispensabile cooperare con Mosca, la lotta all’Isis, la Siria, l’Iraq, i negoziati con Teheran. Questo è possibile nelle relazioni internazionali: fermezza sui valori, dialogo e cooperazione sulle emergenze comuni. Non dobbiamo agire con Putin in un modo che chiude ogni spiraglio».
Che fare in Medio Oriente?
«Occorre vedere la regione come teatro di una lotta molto basilare: tra quelli che vogliono società tolleranti sul piano religioso e aperte su quello economico, e chi si oppone».
Le manca fare il primo ministro?
«Ogni tanto. Quando ci sono le grandi crisi, pensi sempre che avresti molto da dire a da fare. D’altra parte non ho mai avuto tanto da fare in vita mia».
C’è mancanza di vera leadership in Europa?
«No, direi che c’è buona leadership in giro, non ultimo qui in Italia. Si sarebbe mai immaginato tre anni fa l’attuale posizione di Matteo Renzi?».
 

Nessun commento: