Che le tecnologie digitali stiano cambiando il nostro cervello, i nostri
gusti e i nostri comportamenti è un dato acquisito. Se questo però ci
renda più stupidi o più intelligenti, resta un problema aperto. Pietro
Montani lo affronta qui in chiave estetica, interrogando da filosofo gli
effetti delle nuove tecnologie sulla sensibilità e sulla percezione,
l’immaginazione e l’interattività.Il saggio esplora questi effetti dal punto di vista del consumo e della
produzione di immagini e li esemplifica riferendosi alle prospettive
aperte dalla “realtà aumentata” e dalle “tecnologie indossabili” (per
esempio i Google Glass). L’approccio originale adottato da
Montani mette l’accento sull’importanza dei processi interattivi e
prospetta la possibilità di un innalzamento della loro capacità di dar
luogo a fenomeni in senso ampio creativi. È in questo quadro che
l’autore propone, da ultimo, un’interpretazione innovativa della
sperimentazione artistica.
La vita immersa nell’estetica del virtuale
Saggi. «Tecnologie della sensibilità» del filosofo Pietro Montani. La proliferazione di immagini digitali spinge a definire una nuova e radicale politica dell'arte
Michele Spanò, 6.12.2014
Il dato di partenza del nuovo volume del filosofo Pietro Montani — Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Raffaello Cortina, pp. 104, euro 12,50 — ha una consistenza difficilmente aggirabile: mai come oggi l’uso e la produzione delle immagini è stato tanto diffuso; al punto che le esperienze di montaggio e rimontaggio potrebbero dirsi pressoché integralmente, e almeno virtualmente, «socializzate». Ma di che tipo di esperienza si tratta e, soprattutto, a cosa essa appare destinata? La risposta di Montani è tutt’altro che generica: di tale esperienza si può dare un’interpretazione, che è poi una pratica, «elaborativa». Quest’ultima dipende dall’immaginazione e dal suo rapporto «immediato» con le tecniche (vale a dire con i media). Perciò nel libro si accampa centrale la dimensione interattiva dell’immaginazione umana: laddove il «naturalismo» assoluto delle qualità e delle prestazioni di quest’ultima – la sua pertinenza al sensibile – si sposa al massimo dell’artificialismo; tra le sue prestazioni più proprie vi è infatti quella di «esternalizzarsi» in speciali protesi tecniche: di esserne indirizzata almeno tanto quanto è essa a indirizzarle.
Specificità e tecnicità, come un’ascissa e un’ordinata, disegnano il diagramma dell’immaginazione interattiva. Su questo terreno si gioca la possibilità di ricomporre schematicamente intelletto e immaginazione. Se la realtà è oggi per definizione «aumentata» è in essa che sarà possibile volgere la sinergia simbolico-percettiva tipica della nostra forma di vita sotto il segno della reciprocità. Montaggio è il nome di quello schema capace di «incarnare» questa sinergia: l’abilità e la possibilità di comporre il simultaneo al sequenziale e di allacciare l’iconico al discorsivo.
In un rapporto con le immagini sideralmente lontano dalle litanie sull’eccesso di immaginario o dalle geremiadi sulle nequizie dell’«utenza» (sempre inderogabilmente associata alla passività), Montani finisce per schizzare i lineamenti di una politica. L’esercizio che conduce dall’insignificanza e dalla proliferazione alla leggibilità e alla salienza è dunque niente meno che un’operazione di politicizzazione dell’immagine (anche, ma forse soprattutto, della più banale e decidua). Strategie molteplici di «innalzamento del livello elaborativo delle pratiche già in uso» forniscono la contingente bussola per afferrare le potenzialità a dispetto di timori e moralismi. Non solo: è in una pratica e un’esperienza tanto venerabile come quella che continuiamo a chiamare «arte» che sarà possibile riconoscere quella «tecnica» capace di assolvere un ufficio tanto delicato.
Una percezione indeterminata
In una reinterpretazione vertiginosa e rigorosissima della Terza Critica kantiana, mediata attraverso la lezione di Emilio Garroni, il rapporto tra sensibilità, linguaggio e immaginazione ha occasione di farsi più nitido: se solo la sensibilità umana è genuina aisthesis ciò è perché essa è una forma sofisticata – nel medio tra indeterminazione della percezione e determinatezza del significato – di rendere pertinenti i dati dell’esperienza e insieme vocata a prolungarsi in protesi. È proprio tale predisposizione alla delega tecnica della sensibilità umana, a dispetto di ogni autenticità della sensibilità (già sempre tecnicamente alterata), a fare dell’estetica una tecno-estetica à part entière. Proprio perciò Montani può evocare il dispositivo dell’«ambiente associato» (lì dove sensibilità e tecnica si indeterminano producendo una trasformazione che le investe reciprocamente) come un nuovo, possibile campo della pubblicità.
Non è così scongiurato il pericolo che l’eccesso di delega produca un indebolirsi del carattere genuinamente interattivo della relazione con l’ambiente. Lo spettro dell’anestetizzazione, attraverso processi di ottimizzazione e canalizzazione, inquieta un’immaginazione interattiva istruita tecnicamente. Il paradossale pharmakon a un simile esito potrebbe venire dall’arte. Un’arte, tuttavia, che prende discretamente congedo dalla sua più classica, e alta, interpretazione estetica. La creatività vincolata dell’immaginazione nell’interazione resa disponibile dal rapporto tra tecniche e immagini riconsegna l’arte alla sua radice di ars: una tecnica, una pragmatica. Alla questione dell’autonomia dell’arte, al beato esilio – e dunque anche alla silenziosa resistenza – dell’opera, si accompagna, oggi più che mai, la capacità tipica dell’opera di istituire una normatività propria: essa, in altre parole, diventa un modello di rule-making creativity. Se all’arte in senso estetico sta di fronte l’arte come techne è perché questa sola ha come effetto una politicizzazione.
Il nume tutelare di Montani è qui Walter Benjamin: quello che legge, specchiandoli, artista politico e storico materialista, «montatori» della catastrofe e «ordinatori» delle «macerie» (quelle che oggi hanno la consistenza così speciale delle immagini mediali); essi sono i prototipi di una forma di interattività che trasforma, in virtù del suo tratto elaborativo, il concetto stesso cooperazione.
La realtà aumentata
Il passaggio che si disegna è dunque quello che conduce (senza nulla togliere al polo da cui si muove, trasformato e amplificato in quello che si traguarda) dalla riflessività alla pragmatica, dalle idee estetiche kantiane all’estetica dei valori espositivi benjaminiana. La «forma di vita tecnica» – quella che sperimentiamo in ogni nostro commercio tecnicamente istruito con le immagini che ci riguardano – è la sede di questa trasformazione regolata e insieme non programmabile. Il salto di scala è potenzialmente dirompente: il caso di una tecnologia come Google Glass rende archeologica una esperienza virtuale dell’interattività. Non è una strada segnata, né una fatalità: si tratta di una potenza. La realtà «aumentata» è sempre disponibile a risolversi in una realtà diminuita e impoverita o a distendersi in una realtà amplificata e plurale, costantemente rimontata e autenticata da molti occhi (sensibili e tecnici) e da molte narrative. L’ambiente associato – dove una tecnica incontra la sensibilità, modificandola e essendone a sua volta trasformata – è allora sempre, virtualmente, uno spazio politico. È un’intuizione cruciale: l’estetica intermediale di Montani ci suggerisce e quasi ci impone di pensare che quella che forse inconsapevolmente stiamo già praticando è una politica dei mezzi.
Lungo i confini della sensibilità la bellezza incontra le tecnologie
Gillo Dorfles Lunedì 29 Dicembre, 2014 CORRIERE DELLA SERA
Quando nel 1952 mi fu possibile pubblicare il mio primo libro di estetica Discorso tecnico delle arti (editore Nistri Lischi), appoggiato e presentato da Francesco Flora, il grande letterato tra i primi discepoli di Benedetto Croce, rimasi sorpreso dell’interesse per il mio lavoro da parte dell’ambiente filosofico, ma anche sorpreso dalle accuse di aver voluto accostare tecnica ed estetica, di solito completamente in contrasto con la dottrina, allora imperante di Croce. E infatti, mentre «Don Benedetto» mi scriveva una gentile letterina per complimentarsi per il mio lavoro, egli stesso ebbe a lamentarsi con Flora per aver scritto la prefazione a un testo del tutto in contrasto con il suo pensiero.
Ho creduto opportuno di riferirmi a questo — del resto involontario — episodio autobiografico come preambolo all’attuale pubblicazione di un interessante e vivace saggio di Pietro Montani Tecnologie della sensibilità (Raffaello Cortina), nel quale appaiono diversi elementi non lontani dalla prima impostazione del mio pensiero estetologico. L’autore infatti parte soprattutto da un’analisi della sensibilità umana sottoposta com’è a una serie di tecnologie, vuoi scientifiche, filosofiche o epistemologiche, ma che comunque attestano della indispensabile coesistenza di una estetica in parte unita alla tecnica, ma comunque sottoposta all’interazione con l’immaginazione dell’uomo.
L’autore riconduce soprattutto a due fattori essenziali la situazione comunicativa attuale e precisamente a quelle che definisce una augmented reality («realtà aumentata», in sigla Ar) e una wearable technology («tecnologia indossabile», Wt). Questi due parametri costituiscono la base di quel processo immaginativo che non può non rientrare nel campo dell’estetica; mentre tutto ciò che ha a che fare con la tecnica viene a essere sottoposto a un elemento di personale sensibilità e finisce perciò ad allentare il processo tecnico, facendo sì che quello tecnologico possa alle volte avere il sopravvento.
L’autore afferma: «Ho scritto che la sensibilità umana è interfacciata con l’immaginazione; e che quest’ultima è correlata in modo peculiare con il linguaggio». Ecco, dunque come l’interferire e l’interagire della sensibilità con la tecnologia e l’uso costante del linguaggio sono in certo senso i responsabili delle nostre capacità interlocutorie. Venendo poi ai due parametri dianzi accennati è facile rendersi conto che «la Ar è potenzialmente in grado di trasformare in modo sostanziale la così detta realtà virtuale». Mentre la Wt è in certo senso traducibile in quella che definirei la indossabilità imaginifica. A questo punto non possiamo tralasciare di tener conto della aumentata capacità introspettiva, legata com’è, non solo all’avvento dei mezzi elettronici e della loro infinita utilizzazione, ma anche al fatto che la nostra esistenza, nelle diverse branche della conoscenza e della coscienza, sia sostenuta in maniera essenziale dai nuovi ritrovati tecnologici e dalle inedite possibilità rappresentative oltre che immaginative rispetto al passato. Anche il fenomeno che ho tradotto come indossabilità è qualcosa di assolutamente legato ai nuovi mezzi elettronici. E non c’è dubbio che questo fondamentale evento sia alla base della nuova forma di immaginazione e interdipendenza.
Non è tuttavia sufficiente basarsi sui vecchi parametri tecnologici o estetici: l’interrelazione tra fattori provenienti dall’ambiente tecnologico e quelli da una situazione attuale più sottoposta alla immaginazione, concorrono nella compiuta interdipendenza dei diversi fattori della nostra mentalità. Per quanto riguarda inoltre la Wt è stato reso possibile quello che la nuda creatività dell’uomo non avrebbe potuto mai assolvere. Mentre i mezzi tecnologici e soprattutto elettronici permettono all’individuo di portare con sé quegli ordigni che gli permettono di essere costantemente aperto alle nuove informazioni tecniche oltre che estetiche.
Naturalmente l’utilizzazione dei mezzi tecnologici — Wt e Ar —, sia quelli provenienti dal passato sia quelli di nuova acquisizione, non sarà mai sufficiente a determinare la presenza di una realtà estetica, per la quale sarà sempre necessario l’interagire della propria sensibilità con la carica imaginifica, per poter valutare a pieno e naturalmente costruire ex novo un elemento che possa essere considerato come interattivo tra estetica e tecnologia.
Tre saggi di estetica Teoria. Pietro Montani, Giorgio Agamben e Byung-Chul Han in tre recenti saggi filosofici affrontano temi di attualità anche per gli utenti della rete Paolo B. Vernaglione Alias Manifesto 9.1.2016, 1:40
Tre libri usciti tra la fine del 2014 e gli inizi di quest’anno affrontano il tema dell’estetica, tema all’ordine del giorno non più solo per filosofi e critici d’arte, ma anche per i miliardi di utenti della rete e delle sue applicazioni.
Dei tre testi, Tecnologie della sensibilità di Pietro Montani, Nello sciame del giovane filosofo coreano Byung-Chul Han e Gusto di Gorgio Agamben, la voce redatta da Agamben nel 1979 per l’Encicopledia Einaudi costituisce la possibilità di riflessione che Montani e Han assumono da opposte posizioni.
Agamben infatti in un limpida e densa ricostruzione teorica del concetto di estetica coglie archeologicamente la soglia di indistinzione di verità e bellezza nel pensiero occidentale in una dimensione radicalmente altra rispetto a quella che la nostra modernità ci consegna con i dispositivi digitali.
Nel contrasto implicito alla produzione e al controllo mediatico della comunicazione – fosse pure quella artistica – il saggio di Agamben è la chiave di volta per capire come e a partire da quali forme storiche della riflessione sul bello e i suoi oggetti sia possibile l’attuale tecnoestetica.
È Pietro Montani, filosofo, teorico del cinema, studioso del cinema rivoluzionario sovietico di Ejzenstejn e Dziga Vertov, nonchè della sperimentazione audiovisuale delle avanguardie novecentesche, a delineare con nettezza la doppia linea di sviluppo dell’estetica occidentale, che ha opposto l’arte in senso estetico all’arte come techne. Le due linee di pensiero, che si fanno risalire alla distinzione aristotelica di poiesis e praxis, hanno in comune l’aisthesis, l’orizzonte della sensibilità, che va intesa come l’appartenenza del corpo alle percezioni in cui risiede la facoltà di conoscere. Infatti è nel grande pensiero critico di Kant che sensibilità e intelletto trovano relazione – mentre da Platone a Hume, la filosofia si era incaricata di distinguere più o meno accuratamente bellezza e verità, sensibilità e intelletto, screditando le prima a favore dei secondi. Ed è nella Critica del Giudizio che Kant colloca l’immaginazione al centro di quei processi reali ma ignoti di composizione del molteplice dell’intuizione sensibile nella sintesi dell’intelletto. L’aisthesis dunque è quella dimensione comune delle facoltà ricettiva e produttiva, sede del giudizio riflettente, in cui si conosce il mondo producendolo (e riproducendolo) a partire dalle sensazioni e in assenza di oggetti d’esperienza.
È fantastica la deduzione trascendentale del giudizio sul bello di Kant e vale la pena leggere e rileggere la Critica del Giudizio, perchè vi si incontra quella zona di indeterminazione di percezione e ragione in cui è disposta l’intera psicofisica umana. Ogni conoscenza non può che essere un sapere estetico e ogni estetica è riflessione su quegli oggetti particolari sottratti all’uso quotidiano che sono le opere d’arte. Ma, come Montani dimostra, la condizione di possibilità del sapere estetico non riposa affatto sull’omogeneità di natura di sensibilità e intelletto, a cui i giudizi della ragione mirerebbero in un «libero gioco», bensì sulla radicale eterogeneità di percezione e linguaggio: cioè tra ciò che è visibile-sensibile e non argomentabile, e ciò che è sempre dicibile ma non sempre rappresentabile.Da qui l’aporìa della condizione umana, segnata dalla volontà di sapere alla quale però resistono i cosiddetti «ambienti associati». Il mondo resiste. Gilbert Simondon nella riflessione sulla tecnoestetica lo pensava come intreccio di natura e artefatto, materia organica «già da sempre» disponibile e manipolazione «contingente» della natura. Sarà il filosofo John Dewey in Arte come esperienza a porre, sulla scia del pragmaticismo di Peirce, il rapporto tra aisthesis e tecnologie in termini che rimarranno decisivi. Lo farà introducendo la categoria del lavoro: l’esperienza estetica è il «lavoro» della facoltà umana per trasformare l’ambiente. L’effetto di questo «lavoro» è l’intensificazione della vita, l’aumento esponenziale della densità percettiva che retroagisce sul soggetto «senziente».Nella ricostruzione di Montani questo secondo momento della produzione tecnoestetica è destinata a sopravanzare l’idea estetica dell’arte che, dalle Lettere sulla concezione estetica di Schiller in giù, assume l’autonomia degli oggetti belli a partire dall’autonomia della ragione del soggetto.Al «libero gioco delle facoltà», che con Baumgarten designa una nuova soggettività, si sostituìsce nel divenire della modernità capitalista la riproduzione senza aura dell’oggetto estetico nell’enorme raccolta di merci (e di merci-spettacolo) che Marx osservava alla metà del XIX secolo.
Sarà Walter Benjamin nei due saggi capitali L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e Edward Fuchs, il collezionista e lo storico, a proporre all’immaginazione del materialista l’estetizzazione della politica, e all’arte di fare segno verso la riproducibilità tecnica della sua produzione. L’estetica sarà dunque studio dei «valori di esposizione», che hanno ormai sostituìto l’auratica unicità dell’oggetto artistico. In questo modo Benjamin recupera il primigenio significato dell’aisthesis che disdice ogni illusione storicista di progresso e linearità della conoscenza. A cosa potrebbe servire infatti il dominio dell’estetica se non a costruire un nuovo spazio pubblico, sottratto ai dispositivi gerarchici di ordinamento e regolazione del gusto e della prassi? Ma proprio a questo punto nella sequenziale ricostruzione dei processi di produzione del bello incontriamo l’attuale configurazione delle tecnoestetiche digitali.
A partire dalla metà degli scorsi anni Ottanta abbiamo da una parte l’estesa sperimentazione artistica nelle svariate contaminazioni multimediali; dall’altra l’immenso dispositivo tecnodigitale, di cui i Google Glass e le cosiddette Wereable Technology, (tecnologie indossabili) sono la matura discendenza. Cosa accade in questo punto della modernità, ben oltre il cortocircuito tra estetizzazione e politicizzazione? Montani porta l’esempio dei Google Glass per ipotizzare un uso dei dispositivi che «aumentano» la realtà, processandola e reinventandola, nella costituzione di un nuovo spazio pubblico sottratto al consumo di sensibilità e facoltà percettive. L’argomentazione di Montani è più complessa di così, ma incontra in questa osservazione la critica a tutto campo del digitale condotta da Byung-Chul Han.
Niente dell’era digitale è risparmiato: shitstorm (tempeste di merda che si abbattono su enti e persone dai social media), l’indignazione che ha sostituito il discorso critico, lo sciame che non è una folla ma è composto di singoli individui, l’assenza di mediazione e la povertà di sguardo della comunicazione digitale, l’addomesticamento delle immagini (Google glass e realtà aumentata), l’agire arendtiano sostituìto dal gioco delle dita, un’estesa de-soggettivazione nell’ordine della costrizione.
«La Fenomenologia dello Spirito di Hegel descrive una via dolorosa: la fenomenologia del digitale invece è libera dal dolore dialettico dello spirito. È una fenomenologia del mi piace», scrive Han, che vede nell’«affaticamento informativo», nella crisi della rappresentazione, nel consumerismo e nella psicopolitica, il passaggio epocale dall’età della biopolitica a quella della psicopolitca, intesa come controllo e manipolazione di data mining. Ora, mentre l’istanza filosofica posta da Han è giusta perchè indica in negativo la via della sottrazione ai dispositivi di cattura dell’immaginario, la critica per essere davvero radicale, dovrebbe esercitarsi non tanto sul digitale in sé, che può o meno produrre effetti estetici di liberazione, quanto sulla realtà del sensibile, come Agamben ha fatto in una genealogia dell’aisthesis. Si tratta cioè di indagare il modo in cui nella storia, il pensiero ha separato verità e bellezza e i modi della reciproca articolazione. La riedizione del testo del 1979 apre così la via ad una riflessione originale su quel mutamento «antropologico» che coinvolge l’arte, ma soprattutto il soggetto dell’arte in ragione delle possibilità di un’estetica dell’esistenza.
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