sabato 6 dicembre 2014

Renzi si sbrighi a farli fuori tutti prima che facciano fuori lui

«Chi ci paga». E adesso il Pd trema
PARTITO DEMOCRATICO. Scontro Boccia-Bonifazi sull'elenco dei finanziatori. Che ancora non è pubblica. Il Nazareno: ma Buzzi non ci ha dato soldi

d.p., il Manifesto 5.12.2014 

Se il Cam­pi­do­glio piange, il Naza­reno non ride. Ieri men­tre il ‘com­mis­sa­rio’ Orfini incon­tra i con­si­glieri comu­nali dem per impar­tire la diret­tiva del ‘tutti con Marino” sulle agen­zie si con­suma uno scon­tro sin­to­ma­tico di come l’inchiesta romana finirà per ritor­cersi con­tro il premier-segretario. Tema i soldi, oggi spi­no­sis­simo dopo i mesi dei trionfi «della fine dell’era dei finan­zia­menti ai par­titi». Dopo la (pre­sunta) noti­zia che tre dem romani – Ozzimo, Coratti e Patané, di rito ren­ziano — erano a libro paga del boss Car­mi­nati, il dub­bio se il patron della coop rossa Buzzi fosse alla cena romana di auto­fi­nan­zia­mento del Pd è venuto a molti. 
L’ha rivolto a Renzi Marco Dami­lano, dell’Espresso, nel corso di Ber­sa­glio Mobile (La7). Rispo­sta: «Non ne ho la più pal­lida idea, ma le cene sono tra­spa­renti. Tutti quelli che vanno sono regi­strati e messi fuori». Invece quella lista non c’è, per ora. Renzi sa anche per­ché: per ren­derla pub­blica ci vuole il con­senso di ognuno, che può anche non darlo, cosa che è già suc­cessa con i finan­zia­tori della Leo­polda, resi noti tempo dopo e senza garan­zie di completezza. 
La que­stione è rilan­ciata dal let­tiano Boc­cia. Rispo­stac­cia del teso­riere Boni­faci: «Tran­quillo Boc­cia, Buzzi non ha dato un euro al Pd nazio­nale. Nem­meno tu però nono­stante le nostre regole. Ti invio l’Iban via sms». Con­tro­re­plica di Boc­cia: «La rispo­sta mali­ziosa e con un approc­cio che ricorda tempi nei quali la dela­zione era il modo migliore per non dare conto dei pro­pri doveri non mi ferma nel richie­dere chi siano i nostri finan­zia­tori. Io dal 2008 ver­sato al Pd 165mila euro. Pos­siamo avere online i finan­zia­tori delle cene?». d.p.

La politica senza morale
L’isterilimento della vita di base e collettiva del partito ha spinto i più intraprendenti a crearsi reti autonome ed esterne In una logica individualistadi Piero Ignazi Repubblica 6.12.14
COSA c’è alla radice della cupola corruttiva della capitale? Il debordare di una libidine di ricchezza e potere? Il diffondersi dell’irrilevanza e menefreghismo per le regole? La convinzione che così fan tutti e nessuno paga pegno? Tutto questo, ovviamente. Ma si possono individuare anche altre cause.
CAUSE indirette, che rimandano alla politica e ai partiti. L’assunto da cui partire è che “la politica costa”. Anzi, costa sempre di più. Non a caso i bilanci ufficiali dei partiti sono aumentati costantemente e, a partire dai primi anni Duemila, le loro entrate sono più che raddoppiate. E qui si parla soltanto di soldi contabilizzati nero su bianco nei libri mastri dei partiti. L’incremento delle entrate grazie ad un sistema di finanziamento pubblico generosissimo e senza controlli rispondeva alla necessità da parte dei partiti non tanto di mantenere “gli apparati”, morti e sepolti da tempo, quanto di sostenere i costi della politica d’oggi, fondata sulle consulenze dei professionisti del marketing, della comunicazione, del sondaggio, e della pubblicità. Comprare sul mercato i migliori specialisti di ogni ramo costa, e tanto. Di conseguenza i partiti si sono rivolti allo stato per attingere le risorse finanziarie necessarie, garantendosi, fino alla riforma del 2012, introiti statali sempre più consistenti. Questo perché, ufficialmente, le altre entrate nelle loro casse erano scese a livelli risibili. Nell’ultimo decennio la voce tesseramento nei bilanci è andata quasi scomparendo: in nessun partito le quote degli iscritti fornivano più del 3-4% dei proventi complessivi (con l’eccezione dei Ds e del Pd nei quali l’importo delle tessere rimane a livello locale e non viene riportato nel bilanci del partito nazionale).
Questa torsione stato-centrica delle organizzazioni partitiche ha indebolito le strutture periferiche dei partiti. Ha impoverito il partito nel territorio. Tutta l’attività politica si svolge al centro, dove si acquisiscono e si gestiscono le risorse sia finanziarie che strutturali. Quindi chi vuole fare carriera — cioè essere eletto alle cariche pubbliche perché quelle interne a livello locale non contano più nulla — necessita di risorse alternative, esterne alla struttura partitica. L’isterilimento della vita di base e collettiva del partito ha spinto i più intraprendenti a crearsi reti autonome ed esterne. In una logica del tutto individualista, da free rider — e il caso di Matteo Renzi insegna — , il vettore del successo sta nella costruzione di una équipe composta da esperti, fund raiser , facilitatori di relazioni con gruppi di pressione e di interesse, comunicatori, sondaggisti e quant’altro. È disponendo individualmente di queste risorse, non gestite dall’organizzazione partitica, che si fa carriera. In fondo anche le primarie assecondano questa impostazione. Prive di una regola standard nazionale, le primarie per le cariche pubbliche locali sono un moltiplicatore di costi e comportano il rischio di rapporti incauti e disinvolti con gruppi e persone. In una logica di competizione “individuale” — com’era al tempo delle preferenze — l’inquinamento di affaristi e maneggioni è un rischio concreto.
L’intreccio di corruzione e affarismo criminale che investe la capitale ha radici in questi mutamenti della politica, dell’organizzazione dei partiti, e della loro relazione con lo stato e il territorio. La professionalizzazione della vita politica con conseguente necessità di acquisizione di maggiori risorse pubbliche, il deperimento di legami collettivi forti — quelli che sono alla base di un “vero” partito e non di una qualunque associazione volontaria — e la crescente individualizzazione dell’agire in politica, abbassano le soglie di protezione rispetto ai rapporti pericolosi. Il filtro di partiti radicati sul territorio, attenti ad intrecci sospetti e a figure ambigue, e di nuovo proiettati al “bene comune” più che all’acquisizione di risorse è venuto a mancare, in una logica tutta proiettata alla comunicazione, al virtuale e all’accentramento nazionale. Il primo baluardo al dilagare della corruzione, che a Roma sembra non aver trovato resistenza altro che nel sindaco Marino, passa per la ricostruzione di una presenza attiva e disinteressata nel territorio. E poi, di fronte alla voracità dei politici e ai costi iperbolici per cene sfarzose, consulenze d’oro e regalie varie, conta soprattutto un cambio di passo: uno stile politico più parsimonioso e trasparente da parte di tutti gli amministratori della cosa pubblica, al centro come in periferia.

I dissidenti convinti che il premier si orienterà su una figura di non alto profilo Civati: “Il M5S farà le quirinarie, stavolta in rosa potrebbe esserci Travaglio”
“Le primarie nel Pd per il Quirinale”
La minoranza dem si prepara a chiedere una vera e propria consultazione della base per scegliere il successore di Napolitano. Boccia: “Matteo non può pensare di indicare alla presidenza della Repubblica un suo numero due”di Goffredo De Marchis Repubblica 6.12.14
ROMA . Il timore che Renzi possa scegliere un suo “numero 2” per il Quirinale, una personalità a autonomia ridotta, mette in guardia la minoranza del Pd che studia le contromosse. Una in particolare: chiedere le primarie dei grandi elettori su diversi nomi. A scrutinio segreto. Quando saranno convocati i gruppi parlamentari e i consiglieri regionali delegati prima dell’apertura delle votazioni in seduta comune.
E’ un’arma con la quale la sinistra interna avrebbe più chance di giocarsi la partita. «Sarebbe divertente », dice Francesco Boccia che fa parte del coordinamento dei dissidenti ed è in rotta di collisione con il premier. La trattativa interna però non ha fatto passi avanti. Anzi, ieri pomeriggio nella commissione Affari costituzionali i bersaniani hanno avuto la prova di una chiusura dei renziani doc sulla riforma costituzionale. «Questa rigidità non aiuta — dice Alfredo D’Attorre —. Stanno blindando il patto del Nazareno e il rischio è rallentare i lavori anziché accelerarli come succederebbe accettando alcune piccole modifiche». Non è un buon segno per la pax interna che va certificata innanzitutto al Senato nel giro di poche settimane a cavallo tra il 2014 e il 2015, al momento del voto sull’Italicum. E un bersaniano prevede «mare mosso», sia dentro al Pd sia dentro Forza Italia inasprendo così anche la corsa del Colle.
L’allarme è scattato da giorni nei corridoi di Montecitorio. I dissidenti sono convinti che alla fine il premier si orienterà su una figura di non altissimo profilo, molto lontana dall’identikit disegnato da Bersani: «Una persona che sappia guidare benissimo la macchina perché il Paese è ancora su una strada piena di curve». Ma per i tornanti basta Renzi, è il pensiero di Palazzo Chigi. Al Quirinale non serve un manovratore né un suggeritore. «Semmai sarà il governo a consigliare il Quirinale sulla linea politica. Temo che lo schema sia questo», spiega D’Attorre.
Ecco allora spuntare l’ipotesi primarie, da buttare nella mischia se mancasse un accordo preventivo, se l’indicazione fosse di basso profilo o troppo vincolata al patto con Berlusconi. Non sarebbe una novità assoluta nel Pd. La volta scorsa, appena un anno e mezzo fa, erano già pronte le schede per il referendum interno per scegliere il candidato dopo la bocciatura di Franco Marini. Pier Luigi Bersani, per uscire dallo stallo, aveva ceduto alle pressioni di una parte del Pd che proponeva di decidere tra diversi candidati attraverso il voto dei grandi elettori. Nella rosa c’erano Romano Prodi e Massimo D’Alema. Poi l’allora segretario ruppe gli indugi. «Andiamo in assemblea solo con il nome di Romano e vediamo come viene accolto». Ci fu un’ovazione, in pratica la proposta non venne nemmeno messa ai voti e poi finì come si sa. Nel voto vero, quello a Montecitorio, 101 franchi tiratori o forse di più impallinarono Prodi innescando una reazione a catena: le dimissioni di Bersani, del presidente Bindi, la conferma di Napolitano e una strada aperta per Renzi che aveva perso appena cinque mesi prima la sfida per la leadership. Adesso però il premier è sicuro di avere molte più frecce. Non per niente il vicesegretario Lorenzo Guerini all’eventuale richiesta della minoranza risponde già ora con un sonoro: «Bah...». Il premier cerca una condivisione, ha bisogno della solidità dei 450 grandi elettori democratici in caso di scontro con 5stelle e Forza Italia. Ma vuole essere lui a decidere il nome senza mettersi nelle mani dei suoi gruppi parlamentari.
La corsa certo presenta molti ostacoli. Da qualche giorno si vocifera di movimenti di D’Alema per ritagliarsi un ruolo da king maker, cercando un candidato fuori dal Pd e di ponte con i centristi e con un pezzo di Forza Italia. Il suo nome è Paola Severino, donna, avvocato, ex Guardasigilli, sicuramente una figura autorevole. La sponda grillina viene sondata con cautela. Lo ha fatto il capogruppo Roberto Speranza ricevendo per ora una risposta di totale chiusura. «Ro-dotà », ripetono oggi come un anno e mezzo fa i grillini avvicinati dal Pd. Pippo Civati usa i suoi canali sia con gli eretici sia con gli ortodossi di Grillo. «Dicono che faranno le quirinarie come la volta scorsa. E che stavolta nella rosa potrebbe esserci Marco Travaglio che ha compiuto 50 anni. Ho paura però che se non si danno una mossa, arriveranno di nuovo troppo tardi».

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