domenica 14 dicembre 2014
Ernesto ha nostalgia del vecchio amico Bottino
C'è qualcosa di vero in questa analisi. Ma del passaggio dalla Seconda Repubblica - che lui stesso caldeggiò a suo tempo - non coglie l'aspetto fondamentale: l'"antipolitica" nasce dal maggioritario, non dal giustizialismo [SGA].
All’origine dell’antipolitica
di Ernesto Galli della Loggia Corriere 14.12.14
Si
levano anche nelle sedi più autorevoli del Paese le condanne
dell’antipolitica: termine con cui bisogna intendere la critica
aprioristica — e proprio per questo distruttiva, eversiva — oltre che
del sistema politico in quanto tale, anche dell’intera vita pubblica,
vista come interamente e irrimediabilmente inquinata.
Ho scritto
aprioristica in corsivo perché evidentemente sta tutto lì il problema.
Infatti, se la critica di cui sopra non appare affatto aprioristica ma
ha una qualche giustificazione nei fatti, se essa è condivisa da più o
meno larghe parti dell’opinione pubblica, allora è difficile in un
regime democratico negarle il diritto di cittadinanza. Si potrà
beninteso fare questione di toni, di stile, di capacità minore o
maggiore da parte dei critici di proporre alternative credibili o
accettabili, ma la sua natura eversiva, cioè antidemocratica, non sembra
facilmente sostenibile. In una democrazia, infatti, non basta che i
nostri avversari si comportino in modo volutamente oltraggioso e usino
un linguaggio sommario e violento per farne dei candidati alla messa
fuori legge. E d’altra parte non ci si può nascondere che è comunque
difficile rispondere alla domanda chiave: in base a quale criterio, al
di là di una soglia ovvia, si decide quando una critica è aprioristica e
quando non lo è? Non si tratta in sostanza di un giudizio sempre
politico, e dunque dipendente alla fine solo dalle nostre personali
opinioni?
In realtà, se da vent’anni l’assetto politico italiano non
trova pace, sentendosi periodicamente insidiato dall’antipolitica, dal
populismo, dal giustizialismo — con i vari schieramenti politici che di
volta in volta incarnano uno dei tre — una ragione di fondo c’è. Ed è
che tutte e tre quelle patologie sono nel Dna stesso della Seconda
Repubblica: costituiscono una sorta di suo peccato originale. Tra il
1992 e il 1994 — non bisogna mai dimenticarlo — la Seconda Repubblica è
nata infatti fuori e contro la politica. Violando in molti modi
l’insieme di regole e di prassi che fino allora la democrazia italiana
aveva più o meno sempre rispettato, e al tempo stesso, però, non essendo
capace di darsi regole davvero nuove. Proprio per questo essa è restata
in certo senso prigioniera delle modalità della sua nascita: condannata
a ripercorrerle periodicamente. Dunque a doversela vedere
periodicamente con l’antipolitica, con il populismo, con il
giustizialismo.
Ci sono fatti di quella lontana origine degli anni
90 di cui ci siamo dimenticati con troppa facilità. Ma che invece pesano
come macigni, e ci ricordano da dove veniamo.
Era il 2 settembre
1992, per esempio, quando il deputato socialista Sergio Moroni,
destinatario di due avvisi di garanzia nel quadro delle inchieste di
Mani Pulite, si uccise nella sua casa di Brescia lasciando una lettera
che oggi è difficile rileggere senza sentirne lo straordinario valore di
premonizione. In essa Moroni, dopo aver rivendicato di non «aver mai
personalmente approfittato di una lira», invocava «la necessità di
distinguere ancor prima sul piano morale che su quello legale»,
dolendosi di essere «accomunato nella definizione di ladro oggi così
diffusa». Terminava denunciando «un clima da pogrom nei confronti della
classe politica», clima caratterizzato da «un processo sommario e
violento». Ma le sue parole caddero nel vuoto. Benché dirette alla
Presidenza della Camera, allora tenuta da Giorgio Napolitano, non furono
ritenute degne della benché minima discussione parlamentare.
Ancora
un altro ricordo. Era il 5 marzo 1993, nel pieno di Tangentopoli,
quando in risposta all’annuncio di un decreto del Guardasigilli del
governo Amato, Giovanni Conso, in cui si stabiliva la depenalizzazione
(con valore anche retroattivo) del finanziamento illecito ai partiti,
accadde un fatto probabilmente mai avvenuto prima in alcun regime
costituzionale fondato sulla divisione dei poteri. I magistrati del pool
di Mani Pulite si presentarono al gran completo davanti alle telecamere
del telegiornale delle 20, incitando con parole di fuoco i cittadini
alla protesta contro il decreto legge emanato da quello che a tutti gli
effetti era il governo legale del Paese. Decreto legge che a quel punto —
caso anche questo fino ad allora unico nella storia della Repubblica —
il capo dello Stato Scalfaro, impressionato dalla rivolta, si rifiutò di
firmare. E naturalmente nessuno ebbe qualcosa da ridire.
Mi chiedo:
è possibile non riconoscere in questi episodi e in tanti altri che
accaddero allora alcuni elementi caratterizzanti di quella che è stata
poi la vicenda italiana? Non appare forse della medesima natura di
quella che oggi siamo portati ad attribuire all’antipolitica — se non
addirittura identica — la tendenza all’esasperazione verbale, alla
generalizzazione indiscriminata nei confronti dell’avversario, alla
sollecitazione spregiudicata delle reazioni più elementari dell’opinione
pubblica? Non appare più o meno la medesima pure la timidezza
imbarazzata, talvolta impaurita, del potere? E non suona forse sempre
eguale anche il richiamo alla volontà della «gente» o del «popolo» che
sia — che allora era quello «dei fax», poi è stato quello degli
«indignati», e oggi è quello della «Rete»? Da queste parti, come si
vede, anche il populismo ha una storia lunga e molto varia: allo stesso
modo, peraltro, dei suoi fratelli gemelli, il giustizialismo e
l’antipolitica.
La classe dirigente che si ritrova ad essere oggi
alla testa della Seconda Repubblica non dovrebbe scordarselo. È proprio
in quei terreni che oggi essa disdegna che affondano, infatti, le radici
profonde della sua stessa legittimazione.
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