sabato 6 dicembre 2014

La costruzione economico-sociale dell'immaginario culturale alpino


Antonio De Rossi: La costruzione delle Alpi. Immagini e scenari del pittoresco alpino (1773-1914), Donzelli

Risvolto

Per quanto paradossale possa a prima vista sembrare, le Alpi, così come oggi noi le conosciamo e le percepiamo, non sono sempre esistite. Esse sono state «costruite» attraverso un duplice processo: quello della trasformazione del territorio alpino, della materiale immissione e implementazione, in quel contesto, di progettualità e manufatti umani; e quello della conoscenza scientifica e artistica, della costruzione di un immaginario, di una rappresentazione e messa in scena delle montagne. Entrambi questi aspetti hanno conosciuto e conoscono una storia. Quest’opera – dedicata in particolare allo spazio alpino occidentale compreso tra Italia, Francia e Svizzera e impreziosita da un ricchissimo apparato iconografico – affronta proprio questo tema: la modificazione dell’ambiente e del paesaggio montano nel periodo compreso tra la seconda metà del Settecento, momento della scoperta delle Alpi da parte delle società urbane europee, e il definitivo fissarsi, attorno ai primi anni del Novecento, di un’idea di montagna legata alla metamorfosi turistica operata dalla Belle Époque. È in quei 150 anni che si insedia e si struttura quell’immagine del «pittoresco alpino» con cui ancora oggi per tanti versi siamo chiamati a confrontarci. Una storia fisica dunque, ma anche una ricostruzione dei differenti modi di guardare e di concettualizzare la montagna che hanno guidato la mutazione e il progetto dello spazio alpino. Una storia culturale e delle idee che si colloca a cavallo di molteplici terreni disciplinari: paesaggio e teorie estetiche, turismo e alpinismo, storia dell’architettura e delle infrastrutture, arte e letteratura, storia degli insediamenti, geologia e glaciologia, medicina, storia economica e sociale. Per seguire meglio questa complessa articolazione, viene proposto una sorta di «percorso di cresta» (tra Piemonte, Valle d’Aosta, regione insubrica dei laghi, Savoia, Delfinato, area lemanica, Vallese, Oberland bernese, Grigioni) che fa intravedere l’esistenza di culture e modi di guardare che travalicano le singole esperienze nazionali, disegnando una prospettiva europea di lunga durata che si riflette nel progetto contemporaneo di una macroregione alpina.


Quando le Alpi erano incantate 
Da creste selvagge a mete del turismo Belle Époque così è stato “costruito” l’immaginario della montagna

Carlo Grande Tuttolibri 6 12 2014

Cosa sono le Alpi, oggi, così come le immaginiamo e viviamo? Un saggio di Antonio De Rossi si interroga sul secolo e mezzo - da metà Settecento a inizio Novecento - che ha forgiato il nostro immaginario e il territorio: un viaggio nel tempo e nello spazio in quel meraviglioso corrugarsi della crosta terrestre che sono le Alpi, costruite non dalle ere geologiche ma dallo sguardo umano e dai suoi insediamenti. Lo fa ponendosi all’incrocio di molte discipline: fra paesaggistica ed estetica, turismo e alpinismo, storia dell’architettura e delle infrastrutture, arte e letteratura, storia degli insediamenti, geologia e glaciologia, medicina, storia economica e sociale.
Approccio fertilissimo, giacché le Alpi sono un unicum europeo, rappresentano civiltà e visioni del mondo che vanno ben oltre le culture nazionali. Mai come ora rappresentano ben più che un piano inclinato e un luna park per cittadini: la montagna è occasione per ridisegnare il nostro futuro culturale ed economico, la macroregione alpina è un modello sostenibile per l’Europa. 
Ma occorre capire cos’è successo fin qui, cosa ci ha portato all’odierno spopolamento e sfruttamento turistico, sull’onda di un nefasto mix di scienza e «pittoresco».
Servendosi di un ricco apparato iconografico, l’autore disegna un «percorso di cresta» fra Italia, Francia e Svizzera, che inizia con la settecentesca scoperta e colonizzazione delle Alpi delle società urbane europee: con gli straordinari Voyages di de Saussure e tante altre pubblicazioni - a cominciare dalla Description des Glacières, Glaciers et Amas de Glace du Duché de Savoye di Marc-Théodore Bourrit, uscito nel 1773 - le Terre alte diventano da regno del caos opposto all’ordine della pianura (l’antica differenza tra «ager», spazio coltivato e «saltus», territorio della vegetazione spontanea) mito permanente, «polo dialettico – scrive de Rossi - dai caratteri arcaici e tradizionali apparentemente contrapposto, anche se in fondo complementare, al dominio della tecnica. Il citoyen-savant del secolo dei Lumi ritrova le tracce di quelle Libertà e Felicità che nella civiltà urbana dell’Ancien régime sono scomparse, ma che erano nate tra le mura della città, in opposizione alla natura».
Ecco allora risalire valli e cime un esercito di savants tardosettecenteschi, artisti, autori dei voyages pittoresques del primo Ottocento, scrittori degli anni trenta e quaranta e poi ancora promotori turistici, ingegneri ferroviari, imprenditori alberghieri: la metamorfosi è completa dei primi anni del Novecento, con la Belle époque si consolida l’occupazione capillare delle Terre alte, si cristallizza l’immagine del «pittoresco alpino». Scienza e arte - mente e cuore alleati si direbbe - nell’apoteosi di inizio Novecento che trasforma le Alpi in playground, terreno da gioco europeo (stando al famoso libro di Leslie Stephen).
Certo, le cose variano secondo i territori (un capitolo è dedicato a Torino e le Alpi), molte le questioni sul tappeto: perché Zermatt e il Cervino restano praticamente misconosciuti fino a metà Ottocento? Perché il turismo in val di Susa ha avvio solo a inizio Novecento, malgrado una linea ferroviaria internazionale? Come si costruisce la formidabile stratificazione di immaginari sulle valli valdesi, grazie ai viaggiatori inglesi che le visitano o alle comunità autoctone?
Ma l’identità e unicità culturale delle Alpi occidentali è evidente, così come le ferite e l’addomesticazione del paesaggio: ecco il rifugio realizzato a Montenvers verso fine Settecento per i viaggiatori in visita ai ghiacciai di Chamonix (detto da Bourrit, con omaggio rousseauniano, Temple de la Nature), ecco l’occupazione sistematica di balconate e belvedere e progetti di chemin de fer, teleferiche, funicolari e ascensori in cima al Bianco o al Cervino. È tutta una «conquista» della montagna, ricettacolo per «bar alpestri» e torme di turisti chiassosi; leggere Tartarin sur les Alpes di Daudet per ridere degli antesignani.
Se gli dei fuggono, l’incontro fra tecnica e montagna ha spesso sapore di morte: l’osservatorio Janssen, costruito sulla cima del Bianco a fine Ottocento con il contributo di Gustave Eiffel, pochi anni dopo sprofonda nei ghiacci. Nel racconto La fine dell’alpinismo. Al Cervino in ferrovia di Guido Rey, un treno precipita su un ghiacciaio del Cervino uccidendo diciotto persone e il cinico direttore della compagnia Mr Davison. 
Sono gli anni del Titanic: il ghiacciaio è spettro, voragine, buco nero, come intorno al «Tempio della natura» di Montenvers oggi circondato da un abisso sterile e desertico. «Si capisce col corpo ancora prima che con l’intelletto – scrive l’autore - l’impressionante diversità di prospettiva tra lo sguardo di De Saussure e il nostro (...). La superficie spenta e opaca dei resti del ghiacciaio sembra riflettere il nulla. Impossibile non provare nostalgia».
Addio montagna magica, siamo soli con i nostri incubi: Hans Castorp lascia il sanatorio che non sana, la montagna che non salva. E scende a valle per morire in guerra.

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