E' la famosa meritocrazia con il culo degli altri [SGA].
Michael Young:
L’avvento della meritocrazia, Ed. di Comunità, pagg. 232 euro 15
Risvolto
Inghilterra, anno 2033: un immaginario
sociologo ripercorre con entusiasmo la nascita e l’affermazione del
sistema meritocratico nel XX secolo, descrivendo una società che,
nell’applicazione rigorosamente ideologica del principio meritocratico
in ogni sfera dell’organizzazione sociale, ha paradossalmente generato
diseguaglianze ancora peggiori. Con questo saggio di fanta-sociologia,
esperimento unico nel suo genere, Young rievoca gli scenari apocalittici
di Orwell e Huxley e decostruisce il mito della meritocrazia come
soluzione di tutti i problemi sociali. Pubblicato la prima volta in
Italia nel 1961 dalle Edizioni di Comunità, L’avvento della meritocrazia (The Rise of the Meritocracy 1870 – 2033: An Essay on Education and Equality)
si inserisce a pieno titolo nel dibattito intorno alla equità dei
principi meritocratici, oggi più che mai vivo, proponendo una
prospettiva spiazzante, ironica e intelligente.
MICHAEL YOUNG (1915–2002) è stato un sociologo ed economista inglese.
Membro del partito laburista, ha dedicato la sua attività allo studio e
alla promozione di un piano di riforme pensato per garantire maggiore
equità di accesso al sistema dei servizi pubblici e all’istruzione, in
particolare per le comunità non di madrelingua inglese. Deve la sua
maggior fortuna all’invenzione del termine “meritocrazia”, con il quale
segnalava il rischio che un’applicazione rigidamente ideologica del
principio meritocratico generasse una società ancora più afflitta dal
problema delle ineguaglianze.
Può esistere una democrazia fondata sui “migliori”?Il ritorno del saggio del sociologo Michael Young La grande ingiustizia di una società meritocraticadi Roberto Esposito Repubblica 12.12.14
WHO
defines Merit? – si chiedeva qualche mese fa Scott Jaschik, direttore
di Inside Higher Ed., in un dibattito sul tema con i leader dei maggiori
istituti universitari statunitensi. Una domanda, tutt’altro che nuova,
ma sempre più relativa a complesse questioni etiche, tecniche,
finanziarie. Già posta, all’origine della nostra tradizione, da Platone a
proposito del “governo dei migliori”, essa è stata ripresa con accenti
diversi da filosofi, economisti, politici senza mai arrivare a una
risposta conclusiva.
Se il merito è il diritto a una ricompensa
sociale o materiale, in base a determinate qualità e al proprio lavoro,
quale arbitro neutrale può assegnarlo? Quanto, di esso, va attribuito al
talento naturale e quanto all’impegno? E come valutare il
condizionamento sociale sia di chi opera sia di chi giudica? Che
rapporto passa, insomma, tra merito e uguaglianza e dunque tra
meritocrazia e democrazia?
Un risoluto antidoto agli entusiasmi
crescenti che hanno fatto del concetto di meritocrazia una sorta di
mantra condiviso a destra e a sinistra, viene adesso dalla riedizione
del brillante libro del sociologo inglese Michael Young — già membro del
partito laburista, e promotore di rilevanti riforme sociali — dal
titolo L’avvento della meritocrazia (sempre da Comunità). Scritto nel
1958 nella forma della distopia, del genere di quelle, più note, di
Orwell e di Huxley, The Rise of the Meritocracy si presenta come un
saggio sociologico pubblicato nel 2033, quando, dopo una lunga lotta, la
meritocrazia si è finalmente insediata al potere nel Regno Unito.
Debellato il nepotismo della vecchia società preindustriale, ancora
legata ai privilegi di nascita, e preparato da una serie di riforme
della scuola, nel nuovo regime si assegnano le cariche solo in base al
merito ed alla competenza.
Tutto bene dunque? È il sogno, che tutti
condividiamo, di una società giusta, governata da una classe dirigente
selezionata in base a criteri equanimi e trasparenti? Bastano le pagine
iniziali — che evocano disordini provocati da gruppi “Populisti”,
contrapposti al “Partito dei tecnici” — per manifestarci, insieme a
sinistri richiami all’attualità, la reale intenzione dell’autore. Che è
ironicamente dissacratoria contro quella ideologia meritocratica che
egli finge di celebrare. Sorprende che alcuni lettori, come Roger
Abravanel, consigliere politico del ministero dell’Istruzione dell’ex
governo Berlusconi, siano potuti cadere nell’equivoco, prendendo nel suo
Meritocrazia ( Garzanti, 2008) il fantatrattato di Young per un reale
elogio della meritocrazia, appena velato da qualche riserva. Del resto,
per dissipare ogni dubbio circa il carattere radicalmente critico della
propria opera, sul Guardian del 19 giugno del 2001, l’autore accusò Tony
Blair di aver preso in positivo un paradigma, come quello di
meritocrazia, carico di controeffetti negativi.
Quali? Essenzialmente
quello di affidare la selezione della classe dirigente a ciò che il
filosofo John Rawls definisce “lotteria naturale”, vale a dire proprio a
quelle condizioni fortuite ereditate alla nascita — classe sociale,
etnia, genere — che si vorrebbero non prendere in considerazione. Certo,
si sostiene, esse vanno integrate con qualità soggettive, quali
l’impegno e la cultura. Ma è evidente che queste non sono indipendenti
dalle prime, essendo relative al contesto sociale in cui maturano, come
già sosteneva Rousseau. E come Marx avrebbe ancora più nettamente
ribadito, commisurando i beni da attribuire a ciascuno, più che ai
meriti, ai bisogni, per non rischiare di premiare con un secondo
vantaggio, di tipo sociale, chi già ne possiede uno di tipo naturale.
Ma
l’elemento ancora più apertamente distopico — tale da rendere la
società meritocratica da lui descritta uno scenario da incubo — del
racconto di Young è il criterio di misurazione del merito, consistente
nella triste scienza del quoziente di intelligenza (Q. I.). Esso,
rilevato dapprima ogni cinque anni, quando si affinano i metodi
previsionali di tipo genetico diventa definibile ancora prima della
nascita. In questo modo si potrà sapere subito a quale tipo di lavoro
destinare, da adulto, il prossimo nato. Se egli è adatto a un lavoro
intellettuale o manuale, così che si possano separare già nel percorso
scolastico gli “intelligenti” dagli “stupidi”, le “capre” dalle
“pecore”, il “grano” dalla “pula”. Una volta definito in maniera
inequivocabilmente scientifica il merito degli individui, si eviterà il
risentimento degli svantaggiati. Essi non potranno più lamentarsi di
essere trattati da inferiori, perché di fatto lo sono. Registrato il Q.
I. sulla scheda anagrafica di ognuno, l’identità sociale sarà chiara una
volta per tutte. Coloro che, a differenza dei più meritevoli,
passeranno la vita a svuotare bidoni o a sollevare pesi, alla fine si
adatteranno al proprio status e forse perfino ne godranno.
A questa
felice società meritocratica, in cui solo alla fine sembrano accendersi
bagliori di ribellione, si arriva gradatamente per passaggi intermedi:
prima costruendo una scuola iperselettiva, contro la «fede cieca
nell’educabilità della maggioranza»; poi subordinando il sapere di tipo
umanistico a quello tecnicoscientifico; infine sostituendo i più giovani
agli anziani, meno pronti a imparare e dunque retrocessi a funzioni
sempre più umili. Il risultato complessivo è la sostituzione
dell’efficienza alla giustizia e la riduzione della democrazia ad un
liberalismo autoritario volto alla realizzazione dell’utile per i ceti
più abbienti.
Il punto di vista affermativo di Young è riconoscibile
nelle pagine finali, dove si riferisce a un immaginario Manifesto di
Chelsea, non lontano dal progetto di riforme da lui stesso proposto, in
cui si sostiene che l’intelligenza è una funzione complessa, non
misurabile con indici matematici né riducibile ad unica espressione. Il
fine dell’istruzione, anziché quello di emarginare gli «individui a
lenta maturazione», dovrebbe essere quello di promuovere la varietà
delle attitudini secondo l’idea che ogni essere umano è dotato di un
talento diverso, ma non per questo meno degno di altri.
Meritocrazia: il privilegio è solo di classe
Saggi. Torna fra gli scaffali, con le edizioni di Comunità, «L'avvento della meritocrazia» di Michael Young. Il libro, che uscì nel 1958, già smontava l'idea della scalata sociale, paventando uno stato totalitario post-orwelliano
Roberto Ciccarelli, il Manifesto 3.1.2015
Per Michael Young, autore de L’avvento della meritocrazia,
ripubblicato recentemente dalle Edizioni di Comunità (pp. 232,
euro 15), la meritocrazia è un regime totalitario dove la
posizione di un individuo viene determinata in base ai test di
intelligenza somministrati dalla scuola elementare in poi e dove
la ricchezza e il potere vengono distribuiti da una casta di
«meritocrati» ancora più opprimente e arrogante delle oligarchie
che oggi sfruttano privilegi nepotistici o espropriano la
ricchezza comune con la corruzione e criminalità.
Questo saggio satirico, o distopia, fu scritto
nel 1958, e immagina il futuro disperante delle società
capitalistiche nel 2033, anno in cui il popolo si ribellerà
sanguinosamente contro i meritocrati al potere. Ripubblicarlo
oggi significa restituire l’onore perduto a un grande laburista,
impegnato attivamente con il governo Atlee sin dal secondo
Dopoguerra, poi diventato Lord di Dartington. Ispirandosi al suo
libro, ma modificandone profondamente il significato, il «New
Labour» di Tony Blair portò a compimento un’operazione culturale di
cui ormai abbiamo compreso il significato.
L’ancora oggi celebrato (dal Pd di Renzi) corifeo
della «terza via» trasformò infatti la meritocrazia in un’attitudine
dell’individuo e non dello Stato. Fino ad allora la meritocrazia era
stata concepita da Friedrich Von Hayek come una società
burocratizzata antitetica al potere dei capitalisti di valutare
il merito e il potenziale produttivo dei loro dipendenti. Blair
cercò di imporre tre nuovi significati: la meritocrazia non
richiede un intervento amministrativo; la competizione nella
meritocrazia va incoraggiata; non viene richiesta una perfetta
distribuzione delle competenze perché il mercato ha il potere di
vita o di morte sull’individuo. Così facendo, l’incubo post-orwelliano
di uno Stato totalitario immaginato da Young diventò l’etica del
cittadino contemporaneo: un piccolo «imprenditore di se stesso»
disponibile a tutto pur di «meritare» una posizione di primo piano
sul mercato.
In quest’accezione, la meritocrazia è stata importata in Italia. I buoni uffici dell’ex manager McKinsey Roger Abravanel, raccolti nel best-seller Meritocrazia,
rappresentarono la cassa di risonanza per la disastrosa riforma
Gelmini della scuola e dell’università. A quattro anni dalla sua
imposizione, il suo sistema mostra tare irreversibili.
Nell’università ha imposto invenzioni meritometriche quali le
mediane, la classificazione delle riviste o la Valutazione della
Qualità della Ricerca (Vqr). Esempi di prassi scientificamente
inaffidabili, disfunzionali e incapaci di garantire ogni
criterio di efficienza sul piano dell’attuazione. Nella scuola, il
progetto di Renzi di stravolgere la carriera degli insegnanti
imponendo gli scatti meritocratici al posto di quelli di anzianità
è stata respinta dalla consultazione online sulla «Buona scuola». Un
boomerang che ha costretto il governo a fare marcia indietro.
Per Young la meritocrazia è sinonimo di un
potere arbitrario in un sistema che tende ad autodistruggersi. Lo
Stato moderno è incapace, almeno quanto lo è il mercato, di
determinare un’equa redistribuzione delle competenze e dei
meriti. Più che un sistema efficiente, la meritocrazia indica
l’attitudine di una classe dominante che rende i suoi esponenti
impermeabili ad ogni critica o a slanci verso una redistribuzione
sociale che non sia quella imposta dall’interesse di classe. Una tesi
sostenuta da Young in un articolo pubblicato sul Guardian nel 2001,
intitolato «Abbasso la meritocrazia». Facendo i conti con Blair,
Young sostenne che la meritocrazia non serve a migliorare le
prestazioni di un sistema, ma semmai a peggiorarle in una
burocrazia kafkiana. Essa afferma il senso di superiorità basato
sul privilegio della proprietà, sulle rendite di posizione e sulla
centralità acritica e indiscutibile dell’impresa. La
meritocrazia serve «ad alimentare un business che va di moda —
scrive Young — Se i meritocrati credono che il loro avanzamento
dipende da ciò che gli spetta, si convinceranno che meritano
qualsiasi cosa possono avere». «I nuovi arrivati oggi possono
davvero credere di avere la moralità dalla propria parte».
La chance avvelenata
Nel dibattito politico contemporaneo la meritocrazia,
infatti, imperversa. Sbandierandola enfaticamente come panacea
della disuguaglianza – quando in realtà può esserne altrettanto
tranquillamente annoverata tra le cause — la cultura d’impresa si
fa spazio nel corpo sociale, sostituendo le proprie logiche di
profitto a quelle su cui si è retto l’assetto welfarista europeo
del secondo dopoguerra. E poi, come si fa a scagliarsi contro il
merito? Nel lessico politico da ricreazione scolastica ora vigente,
una puntuale accusa di «gufi» è pressoché assicurata. Peggio che
mettere l’iPhone dentro a un gettone.
Elite sempre in testa
Sì, perché il merito è il cavallo di Troia con il quale il
neoliberismo ha fatto un’etica irruzione nella cittadella
post-socialdemocratica della sinistra europea. In questo cavallo
Matteo Renzi – un tardivo epigono blairista quando Blair in patria
è ormai plebiscitariamente un paria – non ha certo bisogno di
nascondersi: anzi, lo cavalca come Tex Willer, strappando ovazioni
al giovane esercito di riserva, plurititolato e sottoccupato,
che di Renzi è entusiasta sostenitore. Ma il conio del termine
è naturalmente avvenuto nella sfera angloliberale, ed è qui che si
è avviata una discussione interessante sull’uso ideologico
a tappeto che ne fanno i media anglosassoni.
«Comincia a diffondersi un sano scetticismo sulla
meritocrazia, nonostante la pioggia mediatica che ci propinano
i talent shows — spiega ancora Littler — Sto indagando sulle modalità
con le quali le élite drammatizzano e sensazionalizzano le
proprie vicende biografiche per propagandarle. Come cercano di
presentarsi in qualità di individui ordinari per dissimulare il
proprio privilegio e diffondere l’idea che si trovano lì perché
se lo sono meritato. La famiglia reale, in questo senso, è molto
interessante: è riuscita a riabilitarsi come appunto ’normale’.
Oppure basti pensare al successo di serie televisive come Dawnton Abbey, dove le differenze sociali sono rese glamour e legittimate attraverso l’espediente narrativo».
È ovvio che il merito abbia anche molti aspetti positivi, come ad
esempio la creatività, che vanno senz’altro sottolineati. Per
questo Littler intende ricrearne la traiettoria storica
e ideologica. «M’interessa ricostruirne lo sviluppo nella teoria
sociale, nel dibattito politico, nella cultura. Questi tre fili sono
molto intrecciati e troppe volte utilizzati in modo da sottrarre
terreno morale all’indignazione nei confronti della disuguaglianza».
Il libro è un tentativo di ricostruire la nascita e la
circolazione del termine nei suoi rivoli semantici, «giacché
talvolta è usato in modo addirittura sprezzante, cosa secondo me
pericolosa. Naturalmente il rischio è che mi si possa scambiare per
autocratica».
Vista inizialmente con sospetto dalla sociologia d’ispirazione Labour, la meritocrazia è stata poi sdoganata dai think tank
conservatori britannici che, dagli anni Ottanta in poi, sono
diventati i laboratori — egemonici e paneuropei loro malgrado —
di politiche bipartisan di riforma del welfare e tendenti a una
sempre maggiore invadenza del privato nel pubblico. Il termine
meritocracy viene convenzionalmente fatto risalire al sociologo
di area Labour Michael Young (1915–2002), che nel 1958 scrisse il
saggio satirico The Rise of the Meritocracy, anche se era
stato usato due anni prima da un altro sociologo, Alan Fox, per poi
passare nel repertorio «anti-ideologico» di Daniel Bell. In Young il
termine ha una connotazione negativa. È una visione distopica, che
paventava ciò che sostanzialmente sta accadendo oggi: una
crescente distanza e impermeabilità tra l’élite dei meritevoli
e la stragrande maggioranza dei «non meritevoli», ai quali si
tolgono gli ammortizzatori sociali proprio in quanto tali.
È uno di quei casi ironici della storia che il figlio di Young,
l’assai più noto Toby, sia un giornalista patinato in forza al Daily Telegraph.
«È stato il padre di Toby a scrivere il libro, è vero, un’ironia che
viene spesso evidenziata — afferma Littler — Ma lo stesso Young padre
presentava delle ambiguità. Michael era più interessato alle
politiche dell’istruzione e alla stratificazione sociale, ed è lì
che il termine assume una connotazione più sfocata. Anche se lo usa
in modo satirico o come per riferirsi sfrontatamente alle
divisioni sociali, in ultima analisi la sua critica del
capitalismo è a dire poco ambigua. A rileggere i suoi scritti,
Young emerge come figura davvero interessante. Era uno studioso
innovativo, ma non privo di una certa ambiguità: come per esempio
quando disse di non essere del tutto a favore delle comprehensive
schools, una strana dichiarazione. Se poi si considerano gli
ambienti sociali che frequentava, era vicino all’assai più liberale
Daniel Bell».
Individuo prigioniero
Proprio l’autore del topico La fine dell’ideologia, un libro-chiave
nell’allineamento della sinistra moderata in difesa del capitalismo
in cui sono ravvisabili i prodromi dell’uso del concetto da parte
del neoliberismo nella sua declinazione thatcheriana. «Thatcher
è stata senz’altro una figura chiave nella diffusione delle idee
neoliberiste, ma pensando a lei va ricordata soprattutto la
partnership fondamentale con Ronald Reagan: tanto per ricordare
che non era soltanto ’una malvagia donna, una strega’, come spesso
l’apostrofavano i suoi detrattori, l’unica responsabile di un
processo storico complesso. È utile pensare anche a cosa abbia
rappresentato, al modo in cui ha immaginato la politica».
Eppure, dai media mainstream, Thatcher è costantemente additata
a simbolo di possibili conquiste femminili, quasi una forza
emancipatrice. «È interessante l’aspetto ’femminista’
attribuito alla sua figura. Era tutt’altro che femminista
ovviamente, e cercò di distanziarsi il più possibile da qualsiasi
accostamento a obiettivi femministi: ne è riprova la
demonizzazione sociale e culturale delle madri single operata dal
suo governo, la cui strategia sembra tuttora quella di incolpare
le vittime di privatizzazioni e disoccupazione per il proprio
malessere sociale».
È con Thatcher che si sostanzia per la prima volta il concetto nel
senso della contrapposizione fra l’individuo e le sue chance di
rispondere alle sfide del mercato. Nel suo presentarsi come matrona
della nazione, Thatcher ha fatto uso di particolari elementi del
femminismo e deliberatamente a meno di altri. «La sua è una
femminilità quasi astratta, desessualizzata: per esempio, non
faceva mai riferimenti alla propria famiglia. Ci sono molti studi
che al momento affrontano il riposizionamento della femminilità
in una vera e propria cultura d’impresa, dove la donna
è incoraggiata a pensare a sé in quanto progetto individuale,
a migliorare il proprio status e mobilità sociale attraverso
l’autopromozione. L’individuo è incoraggiato a pensarsi come
progetto: una sorta di ’imprenditorializzazione’ del sé».
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