venerdì 12 dicembre 2014

L'ideologia della "meritocrazia" disvelata: torna il fanta-trattato sociologico di Young

Michael Young - L'avvento della meritocrazia
E' la famosa meritocrazia con il culo degli altri [SGA].

Michael Young: L’avvento della meritocrazia, Ed. di Comunità, pagg. 232 euro 15

Risvolto
Inghilterra, anno 2033: un immaginario sociologo ripercorre con entusiasmo la nascita e l’affermazione del sistema meritocratico nel XX secolo, descrivendo una società che, nell’applicazione rigorosamente ideologica del principio meritocratico in ogni sfera dell’organizzazione sociale, ha paradossalmente generato diseguaglianze ancora peggiori. Con questo saggio di fanta-sociologia, esperimento unico nel suo genere, Young rievoca gli scenari apocalittici di Orwell e Huxley e decostruisce il mito della meritocrazia come soluzione di tutti i problemi sociali. Pubblicato la prima volta in Italia nel 1961 dalle Edizioni di Comunità, L’avvento della meritocrazia (The Rise of the Meritocracy 1870 – 2033: An Essay on Education and Equality) si inserisce a pieno titolo nel dibattito intorno alla equità dei principi meritocratici, oggi più che mai vivo, proponendo una prospettiva spiazzante, ironica e intelligente.
MICHAEL YOUNG (1915–2002) è stato un sociologo ed economista inglese. Membro del partito laburista, ha dedicato la sua attività allo studio e alla promozione di un piano di riforme pensato per garantire maggiore equità di accesso al sistema dei servizi pubblici e all’istruzione, in particolare per le comunità non di madrelingua inglese.  Deve la sua maggior fortuna all’invenzione del termine “meritocrazia”, con il quale segnalava il rischio che un’applicazione rigidamente ideologica del principio meritocratico generasse una società ancora più afflitta dal problema delle ineguaglianze.

Può esistere una democrazia fondata sui “migliori”?Il ritorno del saggio del sociologo Michael Young La grande ingiustizia di una società meritocraticadi Roberto Esposito Repubblica 12.12.14

WHO defines Merit? – si chiedeva qualche mese fa Scott Jaschik, direttore di Inside Higher Ed., in un dibattito sul tema con i leader dei maggiori istituti universitari statunitensi. Una domanda, tutt’altro che nuova, ma sempre più relativa a complesse questioni etiche, tecniche, finanziarie. Già posta, all’origine della nostra tradizione, da Platone a proposito del “governo dei migliori”, essa è stata ripresa con accenti diversi da filosofi, economisti, politici senza mai arrivare a una risposta conclusiva.


Se il merito è il diritto a una ricompensa sociale o materiale, in base a determinate qualità e al proprio lavoro, quale arbitro neutrale può assegnarlo? Quanto, di esso, va attribuito al talento naturale e quanto all’impegno? E come valutare il condizionamento sociale sia di chi opera sia di chi giudica? Che rapporto passa, insomma, tra merito e uguaglianza e dunque tra meritocrazia e democrazia?
Un risoluto antidoto agli entusiasmi crescenti che hanno fatto del concetto di meritocrazia una sorta di mantra condiviso a destra e a sinistra, viene adesso dalla riedizione del brillante libro del sociologo inglese Michael Young — già membro del partito laburista, e promotore di rilevanti riforme sociali — dal titolo L’avvento della meritocrazia (sempre da Comunità). Scritto nel 1958 nella forma della distopia, del genere di quelle, più note, di Orwell e di Huxley, The Rise of the Meritocracy si presenta come un saggio sociologico pubblicato nel 2033, quando, dopo una lunga lotta, la meritocrazia si è finalmente insediata al potere nel Regno Unito. Debellato il nepotismo della vecchia società preindustriale, ancora legata ai privilegi di nascita, e preparato da una serie di riforme della scuola, nel nuovo regime si assegnano le cariche solo in base al merito ed alla competenza.
Tutto bene dunque? È il sogno, che tutti condividiamo, di una società giusta, governata da una classe dirigente selezionata in base a criteri equanimi e trasparenti? Bastano le pagine iniziali — che evocano disordini provocati da gruppi “Populisti”, contrapposti al “Partito dei tecnici” — per manifestarci, insieme a sinistri richiami all’attualità, la reale intenzione dell’autore. Che è ironicamente dissacratoria contro quella ideologia meritocratica che egli finge di celebrare. Sorprende che alcuni lettori, come Roger Abravanel, consigliere politico del ministero dell’Istruzione dell’ex governo Berlusconi, siano potuti cadere nell’equivoco, prendendo nel suo Meritocrazia ( Garzanti, 2008) il fantatrattato di Young per un reale elogio della meritocrazia, appena velato da qualche riserva. Del resto, per dissipare ogni dubbio circa il carattere radicalmente critico della propria opera, sul Guardian del 19 giugno del 2001, l’autore accusò Tony Blair di aver preso in positivo un paradigma, come quello di meritocrazia, carico di controeffetti negativi.
Quali? Essenzialmente quello di affidare la selezione della classe dirigente a ciò che il filosofo John Rawls definisce “lotteria naturale”, vale a dire proprio a quelle condizioni fortuite ereditate alla nascita — classe sociale, etnia, genere — che si vorrebbero non prendere in considerazione. Certo, si sostiene, esse vanno integrate con qualità soggettive, quali l’impegno e la cultura. Ma è evidente che queste non sono indipendenti dalle prime, essendo relative al contesto sociale in cui maturano, come già sosteneva Rousseau. E come Marx avrebbe ancora più nettamente ribadito, commisurando i beni da attribuire a ciascuno, più che ai meriti, ai bisogni, per non rischiare di premiare con un secondo vantaggio, di tipo sociale, chi già ne possiede uno di tipo naturale.
Ma l’elemento ancora più apertamente distopico — tale da rendere la società meritocratica da lui descritta uno scenario da incubo — del racconto di Young è il criterio di misurazione del merito, consistente nella triste scienza del quoziente di intelligenza (Q. I.). Esso, rilevato dapprima ogni cinque anni, quando si affinano i metodi previsionali di tipo genetico diventa definibile ancora prima della nascita. In questo modo si potrà sapere subito a quale tipo di lavoro destinare, da adulto, il prossimo nato. Se egli è adatto a un lavoro intellettuale o manuale, così che si possano separare già nel percorso scolastico gli “intelligenti” dagli “stupidi”, le “capre” dalle “pecore”, il “grano” dalla “pula”. Una volta definito in maniera inequivocabilmente scientifica il merito degli individui, si eviterà il risentimento degli svantaggiati. Essi non potranno più lamentarsi di essere trattati da inferiori, perché di fatto lo sono. Registrato il Q. I. sulla scheda anagrafica di ognuno, l’identità sociale sarà chiara una volta per tutte. Coloro che, a differenza dei più meritevoli, passeranno la vita a svuotare bidoni o a sollevare pesi, alla fine si adatteranno al proprio status e forse perfino ne godranno.
A questa felice società meritocratica, in cui solo alla fine sembrano accendersi bagliori di ribellione, si arriva gradatamente per passaggi intermedi: prima costruendo una scuola iperselettiva, contro la «fede cieca nell’educabilità della maggioranza»; poi subordinando il sapere di tipo umanistico a quello tecnicoscientifico; infine sostituendo i più giovani agli anziani, meno pronti a imparare e dunque retrocessi a funzioni sempre più umili. Il risultato complessivo è la sostituzione dell’efficienza alla giustizia e la riduzione della democrazia ad un liberalismo autoritario volto alla realizzazione dell’utile per i ceti più abbienti.


Il punto di vista affermativo di Young è riconoscibile nelle pagine finali, dove si riferisce a un immaginario Manifesto di Chelsea, non lontano dal progetto di riforme da lui stesso proposto, in cui si sostiene che l’intelligenza è una funzione complessa, non misurabile con indici matematici né riducibile ad unica espressione. Il fine dell’istruzione, anziché quello di emarginare gli «individui a lenta maturazione», dovrebbe essere quello di promuovere la varietà delle attitudini secondo l’idea che ogni essere umano è dotato di un talento diverso, ma non per questo meno degno di altri.

Meritocrazia: il privilegio è solo di classe 
Saggi. Torna fra gli scaffali, con le edizioni di Comunità, «L'avvento della meritocrazia» di Michael Young. Il libro, che uscì nel 1958, già smontava l'idea della scalata sociale, paventando uno stato totalitario post-orwelliano

Roberto Ciccarelli, il Manifesto 3.1.2015

Per Michael Young, autore de L’avvento della meri­to­cra­zia, ripub­bli­cato recen­te­mente dalle Edi­zioni di Comu­nità (pp. 232, euro 15), la meri­to­cra­zia è un regime tota­li­ta­rio dove la posi­zione di un indi­vi­duo viene deter­mi­nata in base ai test di intel­li­genza som­mi­ni­strati dalla scuola ele­men­tare in poi e dove la ric­chezza e il potere ven­gono distri­buiti da una casta di «meri­to­crati» ancora più oppri­mente e arro­gante delle oli­gar­chie che oggi sfrut­tano pri­vi­legi nepo­ti­stici o espro­priano la ric­chezza comune con la cor­ru­zione e criminalità.



Que­sto sag­gio sati­rico, o disto­pia, fu scritto nel 1958, e imma­gina il futuro dispe­rante delle società capi­ta­li­sti­che nel 2033, anno in cui il popolo si ribel­lerà san­gui­no­sa­mente con­tro i meri­to­crati al potere. Ripub­bli­carlo oggi signi­fica resti­tuire l’onore per­duto a un grande labu­ri­sta, impe­gnato atti­va­mente con il governo Atlee sin dal secondo Dopo­guerra, poi diven­tato Lord di Dar­ting­ton. Ispi­ran­dosi al suo libro, ma modi­fi­can­done pro­fon­da­mente il signi­fi­cato, il «New Labour» di Tony Blair portò a com­pi­mento un’operazione cul­tu­rale di cui ormai abbiamo com­preso il significato.

L’ancora oggi cele­brato (dal Pd di Renzi) cori­feo della «terza via» tra­sformò infatti la meri­to­cra­zia in un’attitudine dell’individuo e non dello Stato. Fino ad allora la meri­to­cra­zia era stata con­ce­pita da Frie­drich Von Hayek come una società buro­cra­tiz­zata anti­te­tica al potere dei capi­ta­li­sti di valu­tare il merito e il poten­ziale pro­dut­tivo dei loro dipen­denti. Blair cercò di imporre tre nuovi signi­fi­cati: la meri­to­cra­zia non richiede un inter­vento ammi­ni­stra­tivo; la com­pe­ti­zione nella meri­to­cra­zia va inco­rag­giata; non viene richie­sta una per­fetta distri­bu­zione delle com­pe­tenze per­ché il mer­cato ha il potere di vita o di morte sull’individuo. Così facendo, l’incubo post-orwelliano di uno Stato tota­li­ta­rio imma­gi­nato da Young diventò l’etica del cit­ta­dino con­tem­po­ra­neo: un pic­colo «impren­di­tore di se stesso» dispo­ni­bile a tutto pur di «meri­tare» una posi­zione di primo piano sul mercato.
In quest’accezione, la meri­to­cra­zia è stata impor­tata in Ita­lia. I buoni uffici dell’ex mana­ger McKin­sey Roger Abra­va­nel, rac­colti nel best-seller Meri­to­cra­zia, rap­pre­sen­ta­rono la cassa di riso­nanza per la disa­strosa riforma Gel­mini della scuola e dell’università. A quat­tro anni dalla sua impo­si­zione, il suo sistema mostra tare irre­ver­si­bili. Nell’università ha impo­sto inven­zioni meri­to­me­tri­che quali le mediane, la clas­si­fi­ca­zione delle rivi­ste o la Valu­ta­zione della Qua­lità della Ricerca (Vqr). Esempi di prassi scien­ti­fi­ca­mente inaf­fi­da­bili, disfun­zio­nali e inca­paci di garan­tire ogni cri­te­rio di effi­cienza sul piano dell’attuazione. Nella scuola, il pro­getto di Renzi di stra­vol­gere la car­riera degli inse­gnanti impo­nendo gli scatti meri­to­cra­tici al posto di quelli di anzia­nità è stata respinta dalla con­sul­ta­zione online sulla «Buona scuola». Un boo­me­rang che ha costretto il governo a fare mar­cia indietro.
Per Young la meri­to­cra­zia è sino­nimo di un potere arbi­tra­rio in un sistema che tende ad auto­di­strug­gersi. Lo Stato moderno è inca­pace, almeno quanto lo è il mer­cato, di deter­mi­nare un’equa redi­stri­bu­zione delle com­pe­tenze e dei meriti. Più che un sistema effi­ciente, la meri­to­cra­zia indica l’attitudine di una classe domi­nante che rende i suoi espo­nenti imper­mea­bili ad ogni cri­tica o a slanci verso una redi­stri­bu­zione sociale che non sia quella impo­sta dall’interesse di classe. Una tesi soste­nuta da Young in un arti­colo pub­bli­cato sul Guar­dian nel 2001, inti­to­lato «Abbasso la meri­to­cra­zia». Facendo i conti con Blair, Young sostenne che la meri­to­cra­zia non serve a miglio­rare le pre­sta­zioni di un sistema, ma sem­mai a peg­gio­rarle in una buro­cra­zia kaf­kiana. Essa afferma il senso di supe­rio­rità basato sul pri­vi­le­gio della pro­prietà, sulle ren­dite di posi­zione e sulla cen­tra­lità acri­tica e indi­scu­ti­bile dell’impresa. La meri­to­cra­zia serve «ad ali­men­tare un busi­ness che va di moda — scrive Young — Se i meri­to­crati cre­dono che il loro avan­za­mento dipende da ciò che gli spetta, si con­vin­ce­ranno che meri­tano qual­siasi cosa pos­sono avere». «I nuovi arri­vati oggi pos­sono dav­vero cre­dere di avere la mora­lità dalla pro­pria parte».

La chance avvelenata
Nel dibat­tito poli­tico con­tem­po­ra­neo la meri­to­cra­zia, infatti, imper­versa. Sban­die­ran­dola enfa­ti­ca­mente come pana­cea della disu­gua­glianza – quando in realtà può esserne altret­tanto tran­quil­la­mente anno­ve­rata tra le cause — la cul­tura d’impresa si fa spa­zio nel corpo sociale, sosti­tuendo le pro­prie logi­che di pro­fitto a quelle su cui si è retto l’assetto wel­fa­ri­sta euro­peo del secondo dopo­guerra. E poi, come si fa a sca­gliarsi con­tro il merito? Nel les­sico poli­tico da ricrea­zione sco­la­stica ora vigente, una pun­tuale accusa di «gufi» è pres­so­ché assi­cu­rata. Peg­gio che met­tere l’iPhone den­tro a un gettone.
Elite sem­pre in testa
Sì, per­ché il merito è il cavallo di Troia con il quale il neo­li­be­ri­smo ha fatto un’etica irru­zione nella cit­ta­della post-socialdemocratica della sini­stra euro­pea. In que­sto cavallo Mat­teo Renzi – un tar­divo epi­gono blai­ri­sta quando Blair in patria è ormai ple­bi­sci­ta­ria­mente un paria – non ha certo biso­gno di nascon­dersi: anzi, lo cavalca come Tex Wil­ler, strap­pando ova­zioni al gio­vane eser­cito di riserva, plu­ri­ti­to­lato e sot­toc­cu­pato, che di Renzi è entu­sia­sta soste­ni­tore. Ma il conio del ter­mine è natu­ral­mente avve­nuto nella sfera anglo­li­be­rale, ed è qui che si è avviata una discus­sione inte­res­sante sull’uso ideo­lo­gico a tap­peto che ne fanno i media anglosassoni.
«Comin­cia a dif­fon­dersi un sano scet­ti­ci­smo sulla meri­to­cra­zia, nono­stante la piog­gia media­tica che ci pro­pi­nano i talent shows — spiega ancora Lit­tler — Sto inda­gando sulle moda­lità con le quali le élite dram­ma­tiz­zano e sen­sa­zio­na­liz­zano le pro­prie vicende bio­gra­fi­che per pro­pa­gan­darle. Come cer­cano di pre­sen­tarsi in qua­lità di indi­vi­dui ordi­nari per dis­si­mu­lare il pro­prio pri­vi­le­gio e dif­fon­dere l’idea che si tro­vano lì per­ché se lo sono meri­tato. La fami­glia reale, in que­sto senso, è molto inte­res­sante: è riu­scita a ria­bi­li­tarsi come appunto ’nor­male’. Oppure basti pen­sare al suc­cesso di serie tele­vi­sive come Dawn­ton Abbey, dove le dif­fe­renze sociali sono rese gla­mour e legit­ti­mate attra­verso l’espediente nar­ra­tivo».
È ovvio che il merito abbia anche molti aspetti posi­tivi, come ad esem­pio la crea­ti­vità, che vanno senz’altro sot­to­li­neati. Per que­sto Lit­tler intende ricrearne la tra­iet­to­ria sto­rica e ideo­lo­gica. «M’interessa rico­struirne lo svi­luppo nella teo­ria sociale, nel dibat­tito poli­tico, nella cul­tura. Que­sti tre fili sono molto intrec­ciati e troppe volte uti­liz­zati in modo da sot­trarre ter­reno morale all’indignazione nei con­fronti della disu­gua­glianza». Il libro è un ten­ta­tivo di rico­struire la nascita e la cir­co­la­zione del ter­mine nei suoi rivoli seman­tici, «giac­ché tal­volta è usato in modo addi­rit­tura sprez­zante, cosa secondo me peri­co­losa. Natu­ral­mente il rischio è che mi si possa scam­biare per autocratica».
Vista ini­zial­mente con sospetto dalla socio­lo­gia d’ispirazione Labour, la meri­to­cra­zia è stata poi sdo­ga­nata dai think tank con­ser­va­tori bri­tan­nici che, dagli anni Ottanta in poi, sono diven­tati i labo­ra­tori — ege­mo­nici e paneu­ro­pei loro mal­grado — di poli­ti­che bipar­ti­san di riforma del wel­fare e ten­denti a una sem­pre mag­giore inva­denza del pri­vato nel pub­blico. Il ter­mine meri­to­cracy viene con­ven­zio­nal­mente fatto risa­lire al socio­logo di area Labour Michael Young (1915–2002), che nel 1958 scrisse il sag­gio sati­rico The Rise of the Meri­to­cracy, anche se era stato usato due anni prima da un altro socio­logo, Alan Fox, per poi pas­sare nel reper­to­rio «anti-ideologico» di Daniel Bell. In Young il ter­mine ha una con­no­ta­zione nega­tiva. È una visione disto­pica, che paven­tava ciò che sostan­zial­mente sta acca­dendo oggi: una cre­scente distanza e imper­mea­bi­lità tra l’élite dei meri­te­voli e la stra­grande mag­gio­ranza dei «non meri­te­voli», ai quali si tol­gono gli ammor­tiz­za­tori sociali pro­prio in quanto tali.
È uno di quei casi iro­nici della sto­ria che il figlio di Young, l’assai più noto Toby, sia un gior­na­li­sta pati­nato in forza al Daily Tele­graph. «È stato il padre di Toby a scri­vere il libro, è vero, un’ironia che viene spesso evi­den­ziata — afferma Lit­tler — Ma lo stesso Young padre pre­sen­tava delle ambi­guità. Michael era più inte­res­sato alle poli­ti­che dell’istruzione e alla stra­ti­fi­ca­zione sociale, ed è lì che il ter­mine assume una con­no­ta­zione più sfo­cata. Anche se lo usa in modo sati­rico o come per rife­rirsi sfron­ta­ta­mente alle divi­sioni sociali, in ultima ana­lisi la sua cri­tica del capi­ta­li­smo è a dire poco ambi­gua. A rileg­gere i suoi scritti, Young emerge come figura dav­vero inte­res­sante. Era uno stu­dioso inno­va­tivo, ma non privo di una certa ambi­guità: come per esem­pio quando disse di non essere del tutto a favore delle com­pre­hen­sive schools, una strana dichia­ra­zione. Se poi si con­si­de­rano gli ambienti sociali che fre­quen­tava, era vicino all’assai più libe­rale Daniel Bell».
Indi­vi­duo pri­gio­niero
Pro­prio l’autore del topico La fine dell’ideologia, un libro-chiave nell’allineamento della sini­stra mode­rata in difesa del capi­ta­li­smo in cui sono rav­vi­sa­bili i pro­dromi dell’uso del con­cetto da parte del neo­li­be­ri­smo nella sua decli­na­zione that­che­riana. «That­cher è stata senz’altro una figura chiave nella dif­fu­sione delle idee neo­li­be­ri­ste, ma pen­sando a lei va ricor­data soprat­tutto la part­ner­ship fon­da­men­tale con Ronald Rea­gan: tanto per ricor­dare che non era sol­tanto ’una mal­va­gia donna, una strega’, come spesso l’apostrofavano i suoi detrat­tori, l’unica respon­sa­bile di un pro­cesso sto­rico com­plesso. È utile pen­sare anche a cosa abbia rap­pre­sen­tato, al modo in cui ha imma­gi­nato la poli­tica».
Eppure, dai media main­stream, That­cher è costan­te­mente addi­tata a sim­bolo di pos­si­bili con­qui­ste fem­mi­nili, quasi una forza eman­ci­pa­trice. «È inte­res­sante l’aspetto ’fem­mi­ni­sta’ attri­buito alla sua figura. Era tutt’altro che fem­mi­ni­sta ovvia­mente, e cercò di distan­ziarsi il più pos­si­bile da qual­siasi acco­sta­mento a obiet­tivi fem­mi­ni­sti: ne è riprova la demo­niz­za­zione sociale e cul­tu­rale delle madri sin­gle ope­rata dal suo governo, la cui stra­te­gia sem­bra tut­tora quella di incol­pare le vit­time di pri­va­tiz­za­zioni e disoc­cu­pa­zione per il pro­prio males­sere sociale».
È con That­cher che si sostan­zia per la prima volta il con­cetto nel senso della con­trap­po­si­zione fra l’individuo e le sue chance di rispon­dere alle sfide del mer­cato. Nel suo pre­sen­tarsi come matrona della nazione, That­cher ha fatto uso di par­ti­co­lari ele­menti del fem­mi­ni­smo e deli­be­ra­ta­mente a meno di altri. «La sua è una fem­mi­ni­lità quasi astratta, deses­sua­liz­zata: per esem­pio, non faceva mai rife­ri­menti alla pro­pria fami­glia. Ci sono molti studi che al momento affron­tano il ripo­si­zio­na­mento della fem­mi­ni­lità in una vera e pro­pria cul­tura d’impresa, dove la donna è inco­rag­giata a pen­sare a sé in quanto pro­getto indi­vi­duale, a miglio­rare il pro­prio sta­tus e mobi­lità sociale attra­verso l’autopromozione. L’individuo è inco­rag­giato a pen­sarsi come pro­getto: una sorta di ’impren­di­to­ria­liz­za­zione’ del sé».

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