“Noi occidentali a Ramallah sfidiamo i fucili israeliani”
Fra
i compagni dell’italiano ferito che manifestano con i palestinesi “In
strada, nei tribunali, nella case da demolire: così li aiutiamo”
di Maurizio Molinari La Stampa 2.12.14
In
Cisgiordania c’è una «legione straniera» di attivisti che ogni giorno
si batte a fianco dei palestinesi contro gli israeliani e per
incontrarla siamo entrati nella stanza numero 14 al primo piano
dell’edificio «Kuwait» dell’ospedale di Ramallah dove è ricoverato
l’agronomo italiano di 30 anni ferito al petto da un soldato durante gli
scontri avvenuti venerdì a Kafr Qaddum, vicino Nablus.
Fra bandiere
palestinesi, vasi di fiori e strumenti medici l’italiano che si fa
chiamare Patrick Corsi è seduto assieme a Sophie, 31 anni di Copenhagen,
Malia, 21 anni di Berlino e Karyn, 28 anni dello Stato di New York.
Fanno parte di uno dei gruppi dell’«International Solidarity Movement»
(Ism) ovvero la spina dorsale di «un centinaio di attivisti
internazionali di più organizzazioni giunti qui per aiutare i
palestinesi a far diminuire la violenza israeliana» spiega l’italiano.
Ascoltarli significa entrare nell’universo in cui vive questa pattuglia
di attivisti accomunati dalla convinzione che il conflitto in Medio
Oriente abbia come unico responsabile Israele: ciò che dicono e
descrivono esprime una difesa estrema delle tesi palestinesi che si
spinge fino a contestare la soluzione dei due Stati.
Anzitutto ognuno
di loro premette di dare generalità false «perché altrimenti gli
israeliani ci metterebbero in una lista nera e non potremmo più tornare
dopo la scadenza del visto di 90 giorni» dice Malia. Patrick, con la
maglietta «Palestina nel mio cuore» in realtà svelerà presto il vero
nome perché vuole fare causa all’esercito israeliano per il proiettile
che lo ha colpito nel petto: «L’azione legale vorrà punire il soldato e
l’esercito per quando avvenuto, e si svolgerà nella terra del 1948». Il
termine «terra del 1948» viene adoperato al posto di «Israele»,
contestandone la legittimità anche nel vocabolario. «In Danimarca avevo
molte amiche ebree e israeliane, amavo Tel Aviv - racconta Sophie - ma
poi c’è stato il massacro di Gaza sono voluta venire oltre il Muro e ora
non voglio più tornare nella terra del 1948».
Patrick ritiene che
«anche Tel Aviv all’origine era un insediamento illegale», imputa «ai
sionisti, e non agli ebrei, di aver progettato e realizzato il furto
della terra palestinese» e crede che «la soluzione di questo conflitto
arriverà quando i sionisti ammetteranno tale colpa e lasceranno ai
palestinesi la scelta se vivere assieme oppure farli tornare negli Stati
di provenienza». In queste parole la negazione del diritto
all’esistenza di Israele diventa palese.
Anche Karyn, Malia e Sophie
non credono nella soluzione dei due Stati - Israele e Palestina,
secondo la formula di Oslo 1993 - per molteplici motivazioni: dalla
«costruzione di insediamenti che sono città coloniali impossibili da
smantellare» alla «necessità di vivere assieme, condividendo le stesse
scuole anziché separarsi». Tali opinioni sono frutto di settimane di
vita con i palestinesi. «Sono stata alle esequie di un bambino di 15
anni ucciso perché aveva lanciato una molotov contro dei soldati e ho
assistito alla carica militare contro il corteo funebre» ricorda Karyn.
«Ho incontrato la famiglia del palestinese che ha accoltellato un
soldato a Tel Aviv ed ho visto la sua casa distrutta dai soldati, è
umanità questa?» si chiede Sophie. «Sono stata nell’aula del tribunale
militare di Salam dove ad un 17enne è stata rinnovata la detenzione
amministrativa senza concedergli di parlare» aggiunge Malia, trattenendo
a stento la commozione. «Sono andato a raccogliere le olive con i
palestinesi perché gli ulivi sono la loro risorsa più importante ma i
militari gli consentono di prenderle solo 2-3 giorni l’anno» afferma
Patrick.
Sono esempi di una militanza che si declina in una miriade
di interventi - dall’accompagnare i pastori nei terreni militari a
dormire nelle case destinate alla demolizione fino a fotografare i
soldati sui tetti delle case - per «diminuire la violenza contro i
palestinesi» con azioni, assicura Patrick, «non violente, concordate fra
noi e guidati da palestinesi». Anche un’altra italiana è stata ferita:
Giulia, siciliana, un mese fa a Qalandya. Per questi attivisti gli eroi
sono Rachel Corrie, Tom Hurndall e Vittorio Arrigoni ovvero i «caduti di
Ism a Gaza»: i primi due morti nel 2003 e 2004 in incidenti con gli
israeliani, il terzo ucciso nel 2011 dai salafiti palestinesi.
Ad
accomunare questi giovani è tanto la convinzione di «aiutare i
palestinesi a far conoscere al mondo le loro sofferenze» quanto
un’interpretazione degli attentati anti-israeliani, come l’assalto alla
sinagoga di Har Nof in cui sono stati uccisi quattro rabbini, che
Patrick riassume così nell’assenso generale: «Chi semina violenza,
raccoglie violenza». Ovvero, nella «terra del 48» c’è il nemico.
Abu Mazen dà la cittadinanza palestinese all’italiano ferito da un proiettile israelianoPatrick Corsi è stato ricevuto assieme ad altri attivisti dell’International Solidarity Movementdi Maurizio Molinari La Stampa 6.12.14
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